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Tra fede e impegno politico, il servizio appassionato di Giovanni Bianchi

Written by Lorenzo Gaiani.

Lorenzo Gaiani
Articolo pubblicato da Aggiornamenti Sociali.

Il 24 luglio 2017 è scomparso Giovanni Bianchi, poliedrico intellettuale e politico del nostro tempo, nonché per molti anni amico e sostenitore della nostra Rivista. Quale eredità ci consegna un uomo di fede, con una spiccata passione culturale, impegnato a fianco dei lavoratori nel sindacato e in politica? Come ha potuto spendersi a vantaggio del bene comune, in tutte le situazioni conflittuali che la storia gli ha dato da vivere?
La scomparsa di Giovanni Bianchi a seguito di una breve malattia ha colpito tutti coloro che conoscevano e apprezzavano la multiforme attività di questo militante sociale e politico a tutto tondo, nonché intellettuale e poeta, che in tutta la sua esistenza non ha fatto altro che «indagare la realtà, cercando il legame invisibile tra un fatto e l’altro» (Zaccuri 2017).
Figure politiche, culturali e sindacali, spesso di ispirazione diversa dalla sua, ne hanno riconosciuto la statura intellettuale, la saldezza di principi e la disponibilità all’incontro; persino il Capo dello Stato Sergio Mattarella, a cui Bianchi era legato da antica amicizia, ha voluto rendere omaggio a lui e alla sua poliedrica attività.
Perché anche chi non lo ha conosciuto potrebbe essere attratto dalla vita di Giovanni Bianchi? Che cosa ha da dirci la sua parabola terrena, così radicata nella storia del suo tempo, eppure sempre aperta a rintracciare ciò che di definitivo ci dona il presente? Desideriamo offrire qui una rilettura della sua figura, incentrata sulla triplice dimensione di credente radicato nella comunità ecclesiale – a partire da quella di Sesto San Giovanni (MI) dove ha trascorso tutta la sua vita –, di intellettuale rigoroso e attento e di militante appassionato della questione sociale, passato senza soluzione di continuità alla politica.

Un laico, uomo di fede
La vita di fede di Bianchi era immediatamente visibile a chiunque lo frequentasse in modo non superficiale, a partire dalla partecipazione quotidiana alla Messa. In un’intervista autobiografica rilasciata circa vent’anni fa, ricordava come la sua formazione religiosa fosse stata quella classica del cattolicesimo ambrosiano e italiano dell’epoca, fortemente segnata dalla presenza della classe operaia e dalla preminenza politica del Partito comunista, arrivando a definire se stesso un “operaista bianco”, largamente influenzato dal suo ambiente cittadino in cui «un cattolicesimo d’avanguardia […] si confronta con un marxismo molto tosto» (Straniero 1997, 17).
La sua generazione, nata intorno allo scoppio del Secondo conflitto mondiale, che aveva visto con occhi di bambino la Resistenza (cui il padre di Bianchi aveva partecipato da “resistente senza fucile”, cfr la scheda a p. 65) e che era cresciuta negli anni difficili della ricostruzione e delle grandi contrapposizioni ideologiche, apparteneva a quelle realtà del mondo cattolico che incominciavano a confrontarsi seriamente su «un aggiornamento culturale che […] interrogava direttamente i contenuti e i fondamenti della fede, e soprattutto le forme della sua comunicazione, cioè dell’annuncio cristiano nella società industriale avanzata» (Bianchi, Gaiani e Sala 2002, 181). Inoltre quella generazione fu fortemente segnata dal Vaticano II, vissuto come evento di liberazione della fede da schemi prefissati (cfr Bianchi 2009, 112).
Lo studio appassionato delle vicende storiche della Chiesa, intrecciate con quelle della società italiana e della classe lavoratrice in particolare, nonché la familiarità con i grandi pensatori cristiani del Ventesimo secolo, cattolici e non, diedero a Bianchi una particolare autorevolezza nei rapporti con la gerarchia ecclesiastica, che si manifestò in momenti molto delicati (cfr Straniero 1997).
La dimensione di fede di Bianchi era essenzialmente laicale, ed egli spesso rivendicava come nelle questioni politiche e sociali la “grazia di stato” fosse propria dei laici e non dei chierici; tuttavia la sua vita di fede fu alimentata dalla formazione ricevuta dai sacerdoti incontrati nella sua giovinezza e dal confronto con alcune importanti figure di religiosi, fra cui ne spiccano in particolare tre. La prima è quella del gesuita Pio Parisi(1926-2011), accompagnatore spirituale delle ACLI nazionali, che aveva sviluppato una riflessione sul rapporto fra Vangelo e politica. Proprio rivolgendosi a Bianchi, Parisi annotava: «La vera politica è conversione e viceversa […], è resistenza, è andare contro corrente, è accettare di essere minoranza. La minorità è la grande scelta politica di S. Francesco, è la sequela di Gesù Cristo nel suo annientamento (la kenosis), è la scoperta della cattedra dei piccoli e dei poveri, è l’essere lievito e sale» (Parisi 2003, 140). La seconda figura essenziale per Bianchi fu Giuseppe Dossetti (1913-1996), padre costituente e ispiratore dei dibattiti conciliari, che egli conobbe di persona solo sul finire della vita del monaco reggiano, avendolo come “consigliere esterno” rispetto alle vicende che il Movimento aclista e la politica italiana stavano affrontando. Rileggendo il pensiero dossettiano, Bianchi rilevava che esso consisteva nel «pensare contemporaneamente la radicalità religiosa e praticare una politica che non fosse soltanto un modo di conquista [...]. Spiritualità e politica trovano tra loro una congiunzione ed insieme la misurazione di una distanza, e talvolta di una estraneità. Così la gratuità cristiana si confronta con la potenza del politico moderno. Potenza tragica e pessimistica dal momento che parte dalla constatazione o comunque dalla convinzione che il male, come la zizzania evangelica, non sia estirpabile ed eliminabile» (Bianchi e Trotta 2015, 40). La terza è quella di un altro gesuita, l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini (1927-2012), con cui Bianchi ebbe una consuetudine discreta negli anni del suo episcopato e anche in quelli successivi, soprattutto gli ultimi, trascorsi nella residenza di Gallarate. Ciò che affascinava Bianchi del messaggio del Cardinale era la sua intrinseca politicità, basata essenzialmente sulla categoria del “discernimento” inteso come lettura degli eventi storici a partire dalla Parola di Dio: «Quel che di Martini colpì più di tutto, credenti e non credenti, fu essenzialmente lo stile, la sua capacità inimitabile di porgere le verità di fede, senza mai dimenticare l’esistenza di dubbi laceranti, di nuove domande emergenti, di un diverso modo di intendere il rapporto con il sacro ed il divino rispetto ad una manualistica che, per sua natura, è sempre e comunque al di qua di quelli che sono i sentimenti ed i bisogni reali della persona umana» (Bianchi 2007, 49).
La profondità della fede di Bianchi venne messa a dura prova dalla scomparsa, nell’ottobre 2013, della figlia Sara, poco più che quarantenne, dopo una lunga e dolorosa malattia. Senza voler entrare nella dimensione privata di questo lutto, meritano di essere riportate alcune frasi pronunciate da Bianchi al termine della messa esequiale: «Tutti hanno fatto la loro parte, tranne Dio che non s’è fatto vedere. Lo chiedo da padre a padre: “Dov’eri quando le dicevo ‘ce la faremo Sara, ce la faremo’?”. E lei, strizzando l’occhio e alzando il pollice, rispondeva: “Certo che ce la faremo papà, ce la faremo”. Il credente che è in me parte dalle medesime circostanze. Ragazza mia, ci siamo affidati insieme alla scienza dei medici e allo sguardo di Dio. I medici si sono impegnati con grandissima professionalità, creando relazioni profondamente umane e sicuramente comunitarie. E il buon Dio? Certamente non vorrà farsi battere dai suoi figli nella cura delle sue creature. Noi continuiamo a crederlo. Sul senso dell’esistere, visto dal punto di vista della malattia, l’accordo tra noi era totale. Non un mondo governato da un grande disegno, magari divino, tutto giustificato nelle sue ragioni ed esatto nei suoi ritmi. Se lo tengano gli svizzeri. A noi importa un mondo anche disordinato dove però ti senti accolto ed amato. Un Dio attento e appassionato: solo questo funziona. Mai solo pura intelligenza sovrana» (Bianchi 2013).

I filoni della sua incessante ricerca culturale
La ricerca culturale di Bianchi è durata per tutta la vita e si è articolata in una serie di filoni che hanno prevalso a seconda delle fasi della sua vita e della sua militanza associativa e politica. È però possibile ricostruire alcune costanti di questo pensiero che si sono ripresentate ciclicamente e che indicano un modello di ricerca complesso, mai disgiunto dalla ricerca di soluzioni pratiche.
Innanzitutto l’attenzione ai problemi internazionali: Bianchi si era laureato in Scienze politiche all’Università Cattolica con una tesi sulla dimensione economica delle missioni cattoliche in Africa, da cui nacquero i suoi primi articoli pubblicati sul quotidiano cattolico L’Italia, allora diretto da Giuseppe Lazzati. La sua attenzione alle dinamiche esistenti a livello globale, andando oltre la logica della Guerra fredda, si esprimeva in una genuina passione per la dinamica fra il Nord e il Sud del mondo, con particolare attenzione per l’Africa, l’America Latina e il Medio Oriente. Negli anni successivi alla caduta del Muro di Berlino questa attenzione lo portò a impegnarsi personalmente, da Presidente delle ACLI prima e da parlamentare poi, nelle nuove dinamiche del movimento per la pace, attraverso le due Guerre del Golfo e la tragedia dell’ex Iugoslavia, mosso dalla consapevolezza che non c’è «opposizione tra movimento per la pace e movimento per la democrazia su scala internazionale» (Bianchi 1994, 101). Proprio per questo si impegnò come relatore della legge sulla remissione del debito estero nel 2000, rendendosi conto di come esso fosse un limite strutturale allo sviluppo dei Paesi del Sud del mondo.
Il secondo filone di ricerca era connesso alla questione della classe operaia, vissuta da Bianchi attraverso le vicende della propria città e, nella seconda metà degli anni ’60, attraverso l’esplosione delle grandi lotte operaie e l’emergere di nuove istanze critiche nei confronti sia del mondo cattolico ufficiale sia del Partito comunista, che sembravano preludere a profondi cambiamenti nella struttura sociale e politica del nostro Paese. Nella sua indagine gli fu particolarmente d’aiuto il rapporto con il teologo domenicano francese Marie-Dominique Chenu, che aveva elaborato la teoria del movimento operaio come “luogo teologico”, inserendo così la dinamica sociale e politica in una dimensione più ampia (Straniero 1997, 53).
Nel contesto del cambiamento della struttura della società italiana, che riduceva progressivamente la presenza non solo sociologica ma anche simbolica della classe operaia nel vissuto complessivo del Paese, la questione del lavoro veniva inserita in un orizzonte in cui riscoprire la dimensione del popolarismo e nello specifico il pensiero di Luigi Sturzo. Ciò che interessava Bianchi era il nucleo del pensiero sturziano, che puntava a una riforma dal basso della società, attraverso la costruzione di un programma di cui fosse portatore e insieme organizzatore il partito politico, strumento lungamente negato ai cattolici dopo l’Unità d’Italia. Quando Bianchi iniziò a elaborare i suoi studi nella metà degli anni ’80, si presentavano alla sua riflessione almeno due questioni fondamentali: il progressivo esaurimento del ruolo dei partiti politici che avevano contrassegnato la fase della cosiddetta “prima Repubblica”, sempre più ripiegati su una gestione del potere fine a se stessa, e l’immobilismo del quadro politico derivante dall’impossibilità di alternanza al Governo dovuta alla presenza, come maggiore forza di opposizione, di un partito comunista fra i più forti e radicati dei Paesi occidentali.
Riguardo al primo problema, Bianchi trovava in Sturzo un possibile modello di rigenerazione della forma-partito basata su tre criteri fondamentali: «piena autonomia del partito dallo Stato e dalla Chiesa; elaborazione di un programma che raccolga ed esprima il meglio del pensiero economico e sociale della crisi in una dimensione solidaristica e popolare; la mediazione è del sistema politico, non del partito che esalta così la sua agilità programmatica e preme verso l’efficacia di un esecutivo che sia di volta in volta verificato dall’elettorato» (Bianchi 1984, 95). Bianchi proponeva un “partito riformatore di massa” che, in una democrazia dell’alternanza, concorresse alla guida del Paese mettendo al centro non un’ideologia ma un programma. «Intorno ad un programma riformatore è possibile oggi ricollocare i partiti e rilanciare la democrazia nel Paese. Un programma che assume, proprio perché leva del futuro, un suo aspetto paradossale: l’essere cioè oltre questi partiti e insieme dentro i loro processi di crisi» (Bianchi 1989, 211).
Negli ultimi anni la sua riflessione sul popolarismo e sul cattolicesimo democratico si era in qualche modo connessa all’esplosione di nuove ideologie quali il neoconservatorismo e, più di recente, il cosiddetto “populismo”. Egli condivideva la definizione coniata dai politologi Daniele Albertazzi e Duncan McConnell, per i quali il populismo è «un’ideologia secondo la quale al “popolo” (concepito come virtuoso e omogeneo) si contrappongono delle “élite” e una serie di nemici i quali attentano ai diritti, i valori, i beni, l’identità e la possibilità di esprimersi del «popolo sovrano» (Albertazzi e McConnell 2008, 3). Tuttavia, se il modo di porsi dei populisti suscita ben a ragione non poche perplessità e preoccupazioni, è inevitabile rilevare che i loro successi dipendono dall’avere intercettato domande sociali che altrove non trovano risposta. Bianchi riteneva quindi che fosse necessario elaborare un’alternativa “popolare” al populismo, e che questo fosse possibile solo nell’incontro delle grandi culture riformatrici: «Ri-cominciare vuol dire anzitutto credere che le culture possano e debbano mischiarsi. Il meticciato non è una brillante metafora, né tantomeno un capriccio culturale. È esigito dalla presente fase storica. Nessun militante, sotto nessuna gloriosa bandiera, è più in grado di vivere dell’ideologia che gli sta alle spalle […] per questo tutte le forme di nostalgia e di ritorno al passato non sono che manifestazioni di velleità ed impotenza» (Bianchi 2015, 79).

Un militante appassionato
La vita di Giovanni Bianchi è stata essenzialmente quella di un militante, come hanno rilevato molti commentatori nei giorni della sua scomparsa (cfr, fra gli altri, Salvi 2017): militante – nel senso novecentesco di soggetto completamente immerso nella battaglia sociale e politica al punto tale di modellare su di essa la sua esistenza – del movimento cattolico e di quello operaio. Il radicamento nel territorio e nella vita di fede fecero però sì che questa militanza non diventasse mai smarrimento o disorientamento esistenziale nel momento in cui la storia costringeva a rivedere le ragioni immanenti del proprio impegno. In questo senso Bianchi, pur essendo attivamente impegnato come uomo di parte sia nelle ACLI sia in politica, fu sempre definito un elemento di moderazione e di riconosciuta correttezza. In lui, oltre a una naturale propensione all’equilibrio, possiamo dire che operasse anche la distinzione rilevata dal teologo Mario Cuminetti fra le due generazioni di credenti che vissero il doppio passaggio critico dell’evento conciliare e del Sessantotto: «C’è […] dietro alla generazione più anziana uno spessore teologico e una pratica religiosa più corposa, non facile da abbandonare, nonostante le contraddizioni quotidiane. Segno rivelatore che l’educazione cattolica ricevuta non era pura ideologia, come troppo facilmente si diceva in quel periodo, ma che vi era un patrimonio di valori autentici, un “sentire” cristiano, uno stile di vita» (Cuminetti 1983, 193-194). Per questo Bianchi, più vecchio di dieci anni rispetto alla generazione “sessantottina” vera e propria, fu considerato da questa e da quelle successive un maestro naturale, capace di mettersi al fianco dei suoi allievi, di coinvolgerli nella ricerca, di aiutarli a percorrere i loro itinerari di crescita e di militanza.
Un segnale ulteriore del rifiuto da parte di Bianchi della logica settaria in cui spesso degenerarono i gruppi della contestazione ecclesiale fu la scelta di militare in un movimento di massa come le ACLI, proprio perché «teneva insieme […]: il radicamento operaio e l’anima ecclesiale» (Straniero 1997, 39). Era il 1972 quando egli entrò per la prima volta negli organismi delle ACLI milanesi; la sorte del Movimento era incerta a causa delle conseguenze della scelta operata tre anni prima di rompere il legame collaterale con la Democrazia cristiana2, a cui avevano fatto seguito il “ritiro del consenso” da parte della Conferenza episcopale italiana e la “deplorazione” da parte di Paolo VI. La qualità dell’apporto di Bianchi venne subito riconosciuta e quando nel settembre di quello stesso anno si verificò un chiarimento politico all’interno delle ACLI milanesi, egli si ritrovò sbalzato nel giro di ventiquattr’ore prima in Presidenza provinciale e poi alla guida della Presidenza regionale, incarico che ricoprì quasi ininterrottamente per tredici anni e che di fatto gli conferì ampia notorietà come dirigente politico e intellettuale.
In quegli anni Bianchi seppe chiamare a sé dalle diverse Province lombarde collaboratori di grandi capacità che lo affiancarono nelle fasi successive, con i quali condivise un ampio tratto di strada nella definizione del percorso che lo avrebbe portato prima alla vicepresidenza (1985) e poi alla presidenza (1987-1994) delle ACLI nazionali. Soprattutto importante fu la partnership intellettuale con Giuseppe (Pino) Trotta, personalità di grande spessore, decisivo per l’elaborazione della linea di pensiero neosturziana: «Vincemmo il congresso e partimmo per Roma, via Marcora 18/20. Le ACLI sono una associazione calabronica, non si capisce come riescano a volare, costrette in ogni fase storica a reinventarsi un mestiere per vivere. Il popolarismo, cultura del territorio e degli enti intermedi (spina dorsale di una autentica democrazia), ci consegnava un orizzonte possibile. […] La flebo del popolarismo entrò immediatamente nelle vene degli aclisti» (Bianchi 2007, 18).
L’applicazione concreta del popolarismo alla vita delle ACLI fu declinata nella prospettiva della “politicità del civile”, ossia della capacità delle realtà associative di esprimere istanze politiche proprie, superando la dimensione di collateralismo politico in cui quasi tutte erano nate, e arrivare a pensarsi come soggetti che, pur rimanendo al di qua dello spazio dei partiti, potessero contribuire con le proprie peculiarità al rinnovamento di un quadro politico immobile. Anche per questo le ACLI sotto la guida di Bianchi aderirono ai referendum del 1991 coordinati da Mario Segni per la riforma elettorale in senso maggioritario, intravedendo in ciò la possibilità di dare nuovo respiro alla dialettica politica e di rendere possibile la nascita di quel “soggetto riformatore” di cui si diceva.
Il punto più alto della parabola di Bianchi nelle ACLI fu il XIX Congresso straordinario svoltosi a Chianciano Terme nel 1993, in cui, oltre ad adottare provvedimenti per il rinnovamento della struttura del Movimento, si definiva, nell’imminenza delle prime elezioni di stampo maggioritario, la prospettiva di uno schieramento riformatore in cui le forze del neonato Partito popolare si affiancassero a quelle della sinistra democratica per dar vita a un cartello dei riformisti e dei democratici, di cui Bianchi nella sua replica finale indicò in Romano Prodi il possibile unificatore.
L’irruzione di Silvio Berlusconi nella vita politica italiana scompaginò molti equilibri; Bianchi passò alla politica attiva divenendo prima deputato del Partito popolare (PPI) alle elezioni del 1994, e successivamente suo presidente (1994-1996) in una fase di tensione con l’ala destra del partito, capeggiata dal segretario nazionale Rocco Buttiglione, che sfociò un anno dopo in una nuova scissione sul tema delle alleanze e della linea politica del partito. Proprio Bianchi fu fra le personalità decisive a orientare la scelta della maggioranza del PPI verso la nascita di quello che sarebbe stato l’Ulivo, favorendo la leadership di Prodi.
In generale, come uomo di partito e delle istituzioni, Bianchi fu attento e attivo, svolgendo spesso ruoli delicati che non gli vennero riconosciuti a sufficienza, al punto che la sua stessa fuoriuscita dal Parlamento nel 2006 sorprese molti. Egli scelse comunque di mettersi al servizio delle diverse evoluzioni del progetto politico in cui credeva, assistendo prima all’esaurirsi del percorso del PPI e alla nascita della Margherita e infine alla creazione del Partito democratico (PD), di cui fu il primo segretario metropolitano milanese nel 2007, come sintesi di tutte le forze riformiste italiane.
Pur essendo stato fra i primi a esprimersi sulla necessità della nascita del PD, Bianchi fu sempre critico riguardo alle fasi dei suoi primi dieci anni di vita. Tuttavia, egli non indulse mai ad atteggiamenti nostalgici e catastrofisti e ancora recentemente rilevava che «il cattolicesimo democratico […] nel PD va sperimentando le modalità di una sopravvivenza e di quella coniugalità che pare inerire alla sua multiforme cultura ed alla sua irrinunciabile prassi. Perfino i suoi limiti sono tali da richiamare quello sturziano della politica, a partire dal quale si dà tutta l’elaborazione del popolarismo nel nostro Paese. In questo senso, non si vede altro luogo ideologico dal quale tentare un’analisi e valutare una prospettiva politica concreta» (Bianchi 2015, 74-75).
Bianchi non fece mai coincidere la militanza con il ricoprire cariche importanti e mai si distanziò dallo sforzo della ricerca e dell’insegnamento – il suo mestiere originario –, considerandoli parte integrante del suo impegno politico e sociale. In questo senso, dovendo trovare una cifra riassuntiva (e inevitabilmente riduttiva) della sua personalità così ricca e complessa, credo sia giusto definirlo uomo del dialogo, dove si intende che «dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune. […] Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo» (papa Francesco 2015). È certo questo il modo migliore per ricordare un uomo che non ha mai cercato la propria “fetta”, ma ha lavorato con efficacia e intelligenza per costruire il bene comune.
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