Milano verso la metamorfosi europea
La metamorfosi procede. Le imprese di Milano – e della Lombardia, intesa come agglomerazione urbana estesa – sono più innovative e più internazionalizzate. No, non è una informazione grossolana desunta da una cartolina auto-elogiativa. Si tratta, invece, della tendenza di lungo periodo rilevata dal rapporto “Le performance delle imprese europee: un’analisi benchmark”.
Lo studio, curato dal centro studi di Assolombarda, che ha aggiornato la sua periodica ricerca con gli ultimi dati disponibili, compone così lo scenario più articolato e preciso sul cuore tecnomanifatturiero italiano che - sempre più - sta diventando uno dei cuori industriali dell’Europa del nostro tempo.
«L’elemento interessante - nota il sindaco Giuseppe Sala - è che la dinamica positiva investe l’intero tessuto produttivo. E, in maniera differenziata ma secondo una unica direzione, permea il meccanismo di crescita in modo trasversale, spalmandosi su una città e su un sistema di imprese che ha un portafoglio di specializzazione produttive articolate e complementari».
Milano non è mai stata una One Company Town. Anche oggi il rischio della monospecializzazione è stato evitato dal connubio di medium tech e di produzione immateriale, di Made in Italy a forte connotazione estetica – dalla moda al design di interni – e dell’“altro Made in Italy” (la meccanica strumentale), di life sciences e di tutto ciò che circonda lo sviluppo immobiliare.
«Qui abbiamo per intero le filiere della sanità e della meccatronica – nota Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda – e pezzi fondamentali dell’industria del fashion, dei servizi innovativi e dell’agroalimentare, che è riduttivo definire soltanto come italiani, perché sono ormai davvero internazionali. Ma, soprattutto, Milano ha una capacità unica: quella di fare da punto di congiunzione da un lato fra i laboratori e le fabbriche, gli opifici della nuova modernità e gli atelier e, dall’altro lato, i mercati globali».
Tutto questo si riflette, appunto, in un codice genetico che ha nei suoi tratti portanti l’internazionalizzazione e l’innovazione. Facciamo un discorso complesso. Il tema dell’internazionalizzazione – nei suoi termini di dimensione congiunta di flussi di import export, di localizzazione di attività produttive all’estero e di ricollocazione di pezzi della catena del valore in Italia – fa profilare la versione aggiornata della Bazaar Economy di Hans Werner Sinn. In particolare, le imprese che, partendo da qui, partecipano in maniera intensa alle catene globali del valore hanno una produttività crescente: se nel 2013 il premio di produttività per esse era pari al 38,9%, adesso è del 48,3 per cento. E, questo, in totale controtendenza rispetto a quanti sostengono che il fenomeno della globalizzazione e dell’integrazione delle piattaforme industriali e dei flussi dei commerci sia – nel contesto contemporaneo - in arretramento.
«Il fattore fondamentale – sottolinea Ferruccio Resta, rettore del Politecnico di Milano – è rappresentato da una internazionalizzazione che ormai, soprattutto qui, si è emancipata dalla monodimensionalità dell’export». Facciamo un discorso semplice. Partiamo dal tema innovazione di prodotto-innovazione di processo, il codice strategico più elementare. Nel 2013, solo il 15,8% delle imprese realizzava l’una e l’altra. Adesso, questa quota è salita a 31,4 per cento. Il doppio, dunque di pochi anni fa. Un balzo in avanti rilevante. Che, soprattutto, ha portato il canone lombardo – nella sua accezione milanese, in particolare – a superare la media – il 31,1% - del campione di imprese composto anche da Baden-Württemberg, Bayern, Catalogna e Rhône-Alpes.
«L’innovazione di prodotto e di processo e la costante trasformazione del tessuto produttivo in un avanzato sistema iperconnesso – nota Bonomi – sono all’origine della spinta della Lombardia e del balzo di Milano. Basti pensare che, fra il 2014 e il 2016, il Pil italiano è cresciuto del 2,1%, quello lombardo del 2,4% e quello milanese del 3,9 per cento. Una velocità quasi doppia che, appunto, ci fa viaggiare al ritmo di Stoccarda, Monaco di Baviera, Lione e Barcellona».
Il problema resta l’innovazione formalizzata. In particolare la R&S. Se le imprese che hanno svolto attività di R&S erano nel 2013 pari al 39,9%, adesso sono salite al 49,8 per cento. La dinamica, dunque, è estremamente positiva. Ma lo zoccolo duro storico – sul tema dell’innovazione formalizzata – rimane duro da scalfire. Non a caso, la quota di fatturato destinata alla R&S è pari al 6,1 per cento. Soltanto la Catalogna, con il 5,3%, investe meno. Le imprese della Baviera sono al 6,9%, quelle del Rhône-Alpes all’8,4% e quelle del Baden-Württemberg al 14,1 per cento. Tuttavia, la propulsione dinamica è tutt’altro che irrilevante. E, soprattutto, in alcuni elementi essenziali, va a colmare il gap che divideva Milano dagli altri bastioni della manifattura continentale. Prendiamo le imprese che hanno utilizzato strumenti di protezione intellettuale. Nel 2013 erano il 7,6% - contro il 18,3% del benchmark europeo - , adesso sono quasi triplicati salendo al 19,1%, a un soffio dal 21,9% della media del meglio espresso dall’Europa manifatturiera. Non è uno sfalsamento nella percezione statistica legato a un solo elemento. Si tratta di una tendenza complessiva. Basta pensare al novero delle imprese che hanno richiesto almeno un brevetto nei tre anni precedenti. La Lombardia è passata dal 5,7% del 2013 – la metà del totale del campione europeo, pari all’11,2% - agli 11,9% di adesso, più del 10,5% europeo.
Numeri, peraltro, coerenti con la candidatura di Milano per l’Ema, l’agenzia del farmaco la cui nuova sede sarà definita e annunciata il 20 novembre. «Le statistiche – nota Bonomi – sono fondamentali. Ma, dietro a ogni numero, ci sono gli uomini. E questo sostanziale upgrading qualitativo e quantitativo nell’innovazione formalizzata non sarebbe stato possibile se, oltre ai crescenti investimenti delle imprese e al miglioramento della cultura industriale degli imprenditori, non ci fosse stato il capitale umano: dal 2008 al 2016, a Milano hanno trovato lavoro 210mila persone con la laurea in più».
Secondo il centro studi di Assolombarda, le imprese che adoperano meccanismi di protezione intellettuale hanno una produttività più alta del 12,5% rispetto a quelle che non le adoperano. In un contesto di lievitazione della componente innovativa, il processo di rivitalizzazione connesso allo smart manufacturing appare disomogeneo: sul campione complessivo hanno un livello medio e alto il 25% delle aziende, in Lombardia il 24%, in Catalogna il 15%, nel Rhône-Alpes il 22%, mentre nel Baden-Württemberg si sale al 30% e in Baviera al 33 per cento.
L’elemento negativo è rappresentato dalla rarefazione di uno specialista in digitalizzazione della produzione, presente nel 23,7% delle aziende milanesi, contro il 40,4% della media europea e a fronte del picco del 65,2% del Baden-Württemberg. «L’internazionalizzazione – riflette il rettore del Politecnico – non è soltanto un fenomeno di mercato. Riguarda anche la cultura di una impresa e la sua direzione strategica. Oggi il canone del capitalismo più avanzato è rappresentato dalla digitalizzazione e dalla Industry 4.0. Milano, con le specificità e le contraddizioni che riguardano ogni agglomerazione urbana, è in linea con questi nuovi standard».
La dimensione di Milano è, oggi, in toto europea. Le statistiche possono raccontare una maggiore o minore distanza rispetto agli altri centri di agglomerazione urbana. Ma Milano è Europa. Milano è un benchmark. «Proprio per questo – riflette Sala – appare corretto il ruolo di leadership civile ed economica che ha la nostra città nel nostro Paese. Milano ha un buon rapporto con Roma, intesa come piano del Governo nazionale. Abbiamo capacità negoziale, ma non manifestiamo ostilità. Non soffriamo di alcuna sudditanza, ma non abbiamo nemmeno complessi di superiorità. Confrontarsi costantemente con il resto dell’Europa aiuta la città a misurarsi con entusiasmo e con razionalità con le sfide che attendono tutti noi».