C’è spazio per un Ulivo 2.0?
Il dibattito che in questi giorni si è aperto intorno al cosiddetto “nuovo Ulivo” è a dir poco surreale: se è comprensibile la nostalgia di Romano Prodi per un periodo storico che lo vide protagonista e che effettivamente segnò un importante tappa del riformismo italiano ed europeo, un po’ meno comprensibile è la serie di malintesi – se non di vere e proprie mistificazioni – che sta accompagnando questo dibattito.
In sintesi: l’Ulivo nacque nel 1995 come alleanza delle forze di centrosinistra, ma da subito fu attraversato dalla dialettica fra chi, come la maggioranza delle due principali forze che lo componevano, Partito popolare e PDS, riteneva che esso fosse appunto una semplice alleanza fra forze politiche che dovevano rimanere ben distinte. Lo pensava soprattutto Massimo D’Alema, allora Segretario del PDS, conscio che nessun esponente di un partito che era stato comunista fino a sei anni prima poteva credibilmente candidarsi alla guida del Paese. Al contrario, Prodi, il suo stretto collaboratore Arturo Parisi, e una minoranza del PPI e del PDS (in cui spiccava Walter Veltroni) vedevano nell’Ulivo il germe di un nuovo soggetto politico unitario del centrosinistra che già fin da allora veniva designato come “partito democratico”.
La diatriba andò avanti con alti e bassi, anche perché la versione “partitista” cara a D’Alema si doveva scontrare con l’evidente incapacità del PDS e poi dei DS di schiodarsi dal 20% (a volte anche meno) a livello elettorale, mentre il PPI sprofondava ancora più in basso e per sopravvivere, insieme ad altre forze centriste, dava vita alla Margherita, soggetto politico che già in qualche modo prefigurava il PD. Fu l’inattesa, amplissima partecipazione popolare alle primarie del 2015, e la larga vittoria di Prodi, a forzare in qualche modo la dirigenza di DS e Margherita a costituire liste unitarie per l’anno successivo e ad aprire alla prospettiva del Partito democratico, che si costituì nell’ottobre 2007 sotto la guida di Veltroni.
Alle elezioni anticipate della primavera successiva il PD non ripropose l’alleanza larga con le forze alla sua sinistra in nome della “vocazione maggioritaria” evocata da Veltroni e, pur perdendo contro la coalizione berlusconiana, ottenne un significativo 33%. L’anno successivo, Veltroni, logorato da una feroce campagna di delegittimazione interna, si dimise dalla guida del PD e alla successiva tornata congressuale venne sostituito da Pierluigi Bersani che invece sosteneva la necessità di ricostruire il partito su basi tradizionali e di tornare ad una politica di alleanze, oscillando fra la riproposizione di un modello di unità a sinistra già sperimentato e su di un’eterna apertura al centro (anche qui sulla base delle suggestioni politicistiche di D’Alema, il quale giunse ad affermare, nel 2011, di trovare meno significativa la storica elezione di Giuliano Pisapia a Sindaco di Milano piuttosto che quella di un esponente dell’UDC, col sostegno del PD, alle elezioni provinciali di Macerata…).
Sta di fatto che alle elezioni politiche del 2013 il PD, fallito ogni tentativo di accordo con Monti e con Casini, presentatosi per conseguenza in un’alleanza molto spostata a sinistra con SEL di Nichi Vendola, non solo rischia di perdere contro la coalizione berlusconiana, ma, con un misero 25% solo per un pugno di voti dall’estero, riesce a mantenere il primato sul Movimento Cinquestelle che per la prima volta si presenta a livello nazionale.
La sensazione, al di là del dato storico, è che qualcuno confonda più o meno deliberatamente l’Ulivo con l’Unione. L’Ulivo doveva essere la casa comune dei riformismi italiani, da quello socialdemocratico a quello cattolico democratico fino a quello ambientalista, superando la storia dei singoli soggetti politici senza rinnegarla, ma anche senza coltivare indebite ed inutili nostalgie, e così presentandosi come soggetto abilitato a governare a pieno titolo in un contesto maggioritario. In questo senso l’Ulivo non ha mai cessato di esistere, solo che ora ha trovato la sua forma definitiva nel Partito Democratico che nei suoi documenti costitutivi si richiama direttamente a quell’esperienza politica.
L’Unione invece era l’alleanza elettorale fra le forze riformiste e quelle della cosiddetta sinistra radicale, prima fra tutte Rifondazione comunista, e fallì la sua prova di governo nel giro di due anni, dal 2006 al 2008, sia per la sua eterogeneità che per l’immaturità a governare di molte forze che la componevano. Soprattutto fallì per la scissione totale fra la guida del Governo e quella delle forze politiche che la sostenevano: ciò era indubbiamente riflesso della particolare natura di Prodi, ottimo amministratore ma a disagio nella veste di capo politico, ma era anche un’evidente negazione del meccanismo in uso pressoché in tutte le democrazie europee, dove leadership di partito e di governo coincidono (e dove ci sono nelle coalizioni anche i leader degli “junior partner” di governo che fanno i Ministri).
Richiamare l’Ulivo contro il PD significa, di fatto, negare la natura stessa del partito, aprendo una ricerca di alleanze in tutte le direzioni che era giustificata nel momento in cui la sinistra radicale, ed in particolare Rifondazione comunista, era una forza politica di rilievo, ma del tutto irrealistica ora che a sinistra del PD si colloca solo un pulviscolo di atomi litigiosi.
Senza contare poi che questo dibattito così inequivocabilmente politicista e ripiegato sulle questioni interne a gruppi dirigenti smarriti e a personalità del passato in cerca di improbabili rivincite appare all’opinione pubblica come un’intollerabile digressione rispetto ai problemi reali del Paese, gonfiando una volta di più le vele del consenso alle forze populiste e reazionarie.
Forse sarebbe meglio utilizzare queste energie, come ha scritto Roberto Roscani, ad investire di nuovo nell’idea di “un partito nuovo, inclusivo, che non abbandona la sua costituency sociale (i più deboli) ma al tempo stesso allarga il suo sguardo, è aperto, non immagina l’elettorato come ‘noi e loro’ in cui per di più ‘noi e loro’ restino sempre gli stessi”.
Il dilemma è tutto qui, e ovviamente trascende le persone che ricoprono pro tempore gli incarichi di vertice, e tocca da vicino anche le organizzazioni sociali che cercano ansiosamente interlocutori istituzionali forti e credibili.