No alla spinta verso le elezioni
Caro direttore, per governare serve stabilità, per programmare il futuro servono serenità e tempo adeguato. Mai come oggi di emergenza in emergenza si rischia di soffocare. O, peggio, si finisce nella demagogia inconcludente. Vale per chi sta al governo del Paese, come vale per chi fa il sindaco. L’Italia si è sostanzialmente fermata per mesi intorno a un referendum, pur certamente di grande rilevanza. Il risultato è costato le dimissioni al Presidente del Consiglio, che, a mio avviso, avrebbe fatto meglio a separare il destino del suo governo dall’esito referendario, come ebbi a dire già nella scorsa estate.
Ora c’è il governo Gentiloni e c’è ancora un anno di legislatura; forte però è la spinta affinché tutto precipiti al più presto verso una nuova competizione elettorale. Ebbene, io non credo che questa sia una scelta né scontata né opportuna. Vedo almeno tre elementi che consigliano di utilizzare diversamente questo periodo.
Ora c’è il governo Gentiloni e c’è ancora un anno di legislatura; forte però è la spinta affinché tutto precipiti al più presto verso una nuova competizione elettorale. Ebbene, io non credo che questa sia una scelta né scontata né opportuna. Vedo almeno tre elementi che consigliano di utilizzare diversamente questo periodo.
Prima di tutto, ci sono temi importanti che non possono aspettare ancora mesi e mesi per essere affrontati. Un esempio: le città metropolitane. Intuizione giusta, ma oggi si trovano in condizioni di immobilismo e sostanziale inutilità. Serve al più presto una norma che ne chiarisca poteri e risorse, perché non possiamo continuare ad essere un Paese di riforme annunciate e lasciate a metà. Non farlo (e non farlo subito) è atto di grande stupidità politica e di scarsa cognizione di cosa serve nel XXI secolo per governare realtà amministrative di questo tipo. E dico di più: Milano e Roma, nelle loro differenze, hanno ulteriori esigenze specifiche di cui si dovrebbe tenere conto. Lo dimostra la battaglia per portare la sede dell’Ema (l’European Medicines Agency) a Milano. Le probabilità di successo dipendono certamente da una seria iniziativa da parte della città, ma innanzitutto da una solida attività del governo. Come possiamo giocare questa partita di enorme rilevanza se immersi nell’ennesima sanguinosa sfida elettorale proprio mentre a Bruxelles si decide?
Il secondo punto riguarda la legge elettorale. La governabilità è un valore, certo. Ma lo è anche la rappresentanza, a maggior ragione in uno schema a tre-quattro poli. Non si può pensare di affrontare in qualche modo un tema così delicato pur di andare velocemente alle urne. Auspico per la nuova legge elettorale uno schema capace di aggregare, non di dividere. Aggregare in modo solido, non artificiale come avvenuto in passato attraverso coalizioni spesso nate solo per interpretare furbescamente la legge elettorale. Vorrei qui ricordare che nessun Parlamento al mondo conosce il numero di «cambi di casacca» del nostro, segno di una pessima qualità di collegamento tra quanto proposto agli elettori e quanto realmente nella testa di eletti e movimenti politici. Questa funzione la possono tendenzialmente svolgere due impostazioni. La prima è di natura «proporzionale» con soglia di sbarramento. La seconda è con uno schema di ballottaggio, di impianto logico alla francese, che in Italia usiamo da tempo per eleggere i sindaci. Nel primo caso si aggrega dopo il voto, nel secondo caso prima. Va però ricordato che il metodo a ballottaggio ben si adatta per elezioni dirette, mirate a candidature di persone, come avviene nelle città. Ci si ragioni bene e poi si scelga. Ma non si dia l’impressione agli italiani che le regole della rappresentanza possano essere merce di scambio sulla strada del voto, subito e a qualsiasi costo. Ne va di mezzo la credibilità della nostra democrazia e dei suoi organi costitutivi.
C’è poi un terzo punto, il più delicato dal punto di vista politico. La durissima lezione del referendum deve essere metabolizzata e dibattuta. Il paradosso è che, in termini di principio, gli italiani si dichiarano a favore dei più rilevanti cambiamenti proposti dal referendum. Così ha sottolineato una recente analisi che ha rielaborato il sentiment sulle singole componenti del quesito referendario di dicembre (mi riferisco in particolare alla riduzione del numero dei parlamentari e al superamento del bicameralismo perfetto). Eppure ha vinto il no, e in larga misura. Qualcosa si è rotto e riguarda anche, o forse soprattutto, la credibilità stessa della politica, dei suoi partiti e movimenti, delle sue figure più rappresentative. Il centro-sinistra ha bisogno di un robusto momento di riflessione, anche per ritrovare il senso di una proposta di «cambiamento» che Matteo Renzi ha interpretato con coraggio. Tutto ciò è patrimonio importante, ma va portato in garage per una accurata messa a punto, prima di competere nuovamente. Il centrosinistra rivendichi dunque a gran voce la propria capacità di governo portando a compimento la legislatura e preparando da ora la campagna elettorale del 2018. In giro vedo poco altro in grado di dedicarsi con risultati dignitosi a questo compito. Penso che Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi e Matteo Renzi alla segreteria del Pd possano fare un grande lavoro, completando una legislatura che ancora può fare cose utili. Il che è importante nella creazione di un vero consenso.
E poi un anno in più può servire anche alla maturazione delle altre forze politiche, a cominciare dal Movimento 5 Stelle. E ai cittadini per misurarne con più elementi oggettivi la loro capacità.