Yes we can, yes we did, yes we can
A quasi dieci anni dal freddissimo 10 febbraio del 2007 in cui annunciò per la prima volta la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, Barack Obama martedì 10 gennaio – in Italia era la notte tra martedì 10 e mercoledì 11 – ha pronunciato il suo discorso di saluto da presidente degli Stati Uniti; il 20 gennaio, infatti, si insedierà ufficialmente alla Casa Bianca il suo successore, Donald J. Trump, che ha vinto le elezioni dello scorso 8 novembre. Barack Obama ha parlato da Chicago, la sua città di origine, a pochi chilometri dal parco in cui festeggiò la sua vittoria dopo le elezioni del 2008. Nel suo discorso, interrotto più volte dagli applausi e durante il quale si è commosso, Obama ha parlato dei risultati ottenuti nel corso dei suoi due mandati ma si è dedicato soprattutto a un tema, lo stato della democrazia americana, parlando del perché va preservata ed elencando quattro cose che la minacciano.
Obama non ha perso la fiducia nell’America, che resta un luogo eccezionale per la volontà di superarli e di continuare la costruzione di una unione più perfetta. “Non credete nel cambiamento che posso portare io, ma in quello che sta dentro di voi. Se qualcosa ha bisogno di essere aggiustato, mettetevi le scarpe, uscite e fatelo”.
Obama non ha perso la fiducia nell’America, che resta un luogo eccezionale per la volontà di superarli e di continuare la costruzione di una unione più perfetta. “Non credete nel cambiamento che posso portare io, ma in quello che sta dentro di voi. Se qualcosa ha bisogno di essere aggiustato, mettetevi le scarpe, uscite e fatelo”.
Ha parlato circa un’ora dopo la diffusione del nuovo dossier su Trump e la Russia, ma non ha fatto riferimenti a questa storia nel suo discorso. Obama ha usato alcune frasi che aveva pronunciato altre volte in altri importanti discorsi della sua carriera; davanti a sé aveva, oltre alla sua famiglia e a quella del vicepresidente Joe Biden, tantissime persone che avevano lavorato alle sue due campagne elettorali e poi nella sua amministrazione alla Casa Bianca.
Il momento più commovente è venuto quando ha salutato la moglie Michelle, e le figlie Malia e Sasha (rimasta a Washington perché oggi ha un esame a scuola). Obama si è dovuto asciugare una lacrima su viso, mentre diceva a Michelle: “Non sei stata solo la madre delle mie figlie, ma anche la mia migliore amica. Hai reso la Casa Bianca la casa di tutti, e ci hai resi orgogliosi”.
Il presidente ha chiarito che non lascerà la scena politica, perché “il titolo più importante in una democrazia è quello di cittadino, ed io continuerò ad esserlo fino alla fine dei miei giorni”. I leader del Partito democratico gli hanno chiesto di restare attivo per ricostruire dopo la sconfitta di Hillary Clinton, e lui ha accettato di diventare in pratica il capo dell’opposizione. Nella certezza che la democrazia americana saprà curare i suoi mali, come ha detto nell’ultima riga del discorso: “Yes we can, yes we did, yes we can”. Possiamo farlo, lo abbiamo fatto, e lo faremo ancora.
«Sono arrivato a Chicago quando avevo poco più di vent’anni, e cercavo di capire chi ero e cosa fare della mia vita. È stato in quartieri poco distanti da qui che ho cominciato a lavorare con i gruppi parrocchiali e a osservare il potere delle fede, e la silenziosa dignità dei lavoratori di fronte alle difficoltà. È stato qui che ho imparato che il cambiamento avviene solo quando le persone normali ne sono coinvolte e si uniscono per ottenerlo. Dopo otto anni da presidente, lo credo ancora. E non sono solo io.
È il cuore pulsante dell’idea americana, del nostro coraggioso esperimento di autogoverno. È la convinzione che siamo stati tutti creati uguali, dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, come la vita, la libertà e la ricerca della felicità. È l’insistenza che questi diritti, per quanto auto-evidenti, non si sono mai auto-rispettati; che siamo noi, il popolo, attraverso lo strumento della nostra democrazia, che possiamo formare un’unione sempre più perfetta. […] Sì, i nostri progressi sono stati squilibrati. Il lavoro della democrazia è sempre stato duro, controverso e a volte sanguinoso. Per ogni due passi avanti, spesso ci sembra di averne fatto uno indietro. Ma il lungo corso dell’America è stato definito dal movimento in avanti, dal costante allargamento del credo dei Padri Fondatori perché abbracciasse tutti e non solo alcuni».
[…]
Se otto anni fa vi avessi detto che l’America avrebbe invertito la sua grande recessione, rilanciato l’industria dell’auto e innescato il più grande periodo di creazione di posti di lavoro della nostra storia… se vi avessi detto che avremmo aperto un nuovo capitolo con il popolo cubano, fermato il programma nucleare iraniano senza sparare un colpo, e fatto fuori il regista dell’11 settembre… se vi avessi detto che avremmo ottenuto il matrimonio egualitario, e il diritto alle cure sanitarie per altri 20 milioni di nostri concittadini… avreste potuto pensare che avevamo messo l’asticella troppo in alto. Ma questo è quello che abbiamo fatto. Questo è quello che avete fatto. Voi siete stati il cambiamento. Avete risposto alle speranze delle persone e, grazie a voi, da quasi ogni punto di vista oggi l’America è migliore e più forte di quando abbiamo cominciato.
[…]
Pur con tutti i progressi che abbiamo fatto, sappiamo che non è ancora abbastanza. La nostra economia non funziona né cresce abbastanza quando pochi prosperano alle spese della nostra crescente classe media. E le grandi disuguaglianze corrodono anche i nostri principi democratici. Mentre l’uno per cento ammassava una ricchezza sempre più grande, troppe famiglie nelle città e nelle campagne sono state lasciate indietro – gli operai licenziati, la cameriera o l’infermiere che non riescono a pagare le bollette – e oggi pensano che il sistema funzioni contro di loro, che il governo sia al servizio dei potenti. La ricetta per aumentare il cinismo e la polarizzazione politica.
Non ci sono modi veloci per correggere questa tendenza di lungo periodo. Sono d’accordo che il commercio internazionale debba essere equo e non solo libero. Ma la prossima ondata di licenziamenti non verrà dall’estero. Verrà dal continuo progresso nell’automazione che renderà obsoleti molti posti di lavoro. E quindi dobbiamo formare un nuovo patto sociale, per garantire ai nostri figli l’istruzione di cui hanno bisogno, per dare ai lavoratori il potere di unirsi in un sindacato per chiedere paghe migliori, per aggiornare il nostro welfare così che sia adatto al modo in cui viviamo, per aggiornare il fisco così che sia le persone che le multinazionali che guadagneranno di più dalla nuova economia non evitino i loro doveri verso il paese che ha reso possibile il loro successo. Possiamo discutere sul come raggiungere questi obiettivi. Ma non possiamo metterli in discussione. Se non creiamo opportunità per tutti, la disaffezione e la divisione che ha fermato i nostri progressi non farà altro che aggravarsi.
[…]
C’è una seconda minaccia per la nostra democrazia, vecchia quanto la nostra nazione. Dopo la mia elezione qualcuno aveva parlato di una America post-razziale. Questo punto di vista, per quanto ben intenzionato, non è mai stato realistico. L’etnia è una forza potente e spesso divisiva nella nostra società. Ho vissuto abbastanza da sapere che le cose oggi vanno meglio di dieci, venti o trent’anni fa: non si vede solo nelle statistiche ma nel comportamento dei giovani americani di ogni orientamento politico. Ma non siamo ancora al punto in cui abbiamo bisogno di arrivare. Tutti noi dobbiamo fare di più. […] Niente di tutto questo sarà facile. Per molti di noi è diventato più comodo ritirarci nelle nostre bolle, che sia il nostro quartiere o il nostro college o la nostra chiesa o i social network, circondati da persone esattamente come noi con le nostre stesse idee politiche, e non metterci mai in discussione. La frammentazione dei nuovi media – un canale per ogni gusto – rende questo isolamento naturale, persino inevitabile. E ci sentiamo così sicuri dentro le nostre bolle che accettiamo solo informazioni compatibili con le nostre opinioni, vere o false, invece che basare le nostre opinioni sui fatti.
[…]
Questa è una terza minaccia per la nostra democrazia. La politica è una battaglia di idee. In un dibattito sano, daremo priorità alla discussione di certi obiettivi e dei diversi modi per raggiungerli. Ma senza una base comune di fatti, senza la volontà di ammettere l’esistenza di nuove informazioni, senza saper concedere che a volte il tuo avversario ha dei buoni argomenti, e che la scienza e la ragione sono importanti, continueremo a parlarci uno sull’altro, rendendo impossibile trovare un terreno comune e fare compromessi.
[…]
La nostra democrazia è minacciata ogni volta che la diamo per scontata. Tutti noi, a prescindere dal nostro partito, dovremmo darci da fare per ricostruire le nostre istituzioni democratiche. Visto che il nostro tasso di affluenza al voto è tra i più bassi tra le democrazie avanzate, dovremmo rendere votare più facile e non più difficile. Visto che la fiducia nelle nostre istituzioni è bassa, dovremmo ridurre l’influenza corrosiva del denaro nella nostra politica, e insistere sui principi di trasparenza ed etica. Visto che il Congresso non funziona, dovremmo disegnare i nostri collegi in modo da incoraggiare i politici a prendere decisioni di buon senso, e non posizioni estremiste.
Tutto questo dipende dalla nostra partecipazione: da ognuno di noi che accetta di avere delle responsabilità da cittadino, a prescindere dalle sue idee e da chi sia al potere. La nostra Costituzione è un regalo meraviglioso. Ma in realtà è solo una pergamena. Non ha potere di per sé. Siamo noi, il popolo, che le diamo potere con la nostra partecipazione e le nostre scelte. Col nostro difendere o no le nostre libertà. Col nostro rispettare e far rispettare o no lo stato di diritto. L’America non è fragile. Ma i grandi progressi che abbiamo fatto nel nostro viaggio verso la libertà non sono scontati. Li indeboliamo tutte le volte che permettiamo al dibattito politico di diventare così velenoso che le brave persone decidono di non impegnarsi in politica; così pervaso dal rancore che giudichiamo malevoli gli americani con cui non siamo d’accordo. Li indeboliamo tutte le volte che ci definiamo più americani di altri nostri concittadini; tutte le volte che pensiamo che tutto sia corrotto intorno a noi, e ne incolpiamo i leader politici senza prendere in considerazione il nostro ruolo nell’eleggerli.
Sta a tutti noi essere guardiani preoccupati e gelosi della democrazia; abbracciare con gioia questo compito per continuare a migliorare la nostra grande nazione. Perché per tutte le nostre differenze, condividiamo tutti lo stesso titolo: cittadini.
In fin dei conti, ce lo chiede la nostra democrazia. Non solo quando c’è un’elezione, ma nell’arco di tutta una vita. Se siete stanchi di discutere con degli sconosciuti su internet, cercate di parlare con qualcuno di persona. Se qualcosa dovrebbe funzionare meglio, allacciatevi le scarpe e datevi da fare. Se siete delusi dai vostri rappresentanti, raccogliete le firme e candidatevi voi stessi. Fatevi avanti, fatevi sotto. Perseverate. Qualche volta vincerete. Altre volte perderete. Presumere che ci sia del buono nel prossimo può essere un rischio, e ci saranno momenti in cui sarete molto delusi. Ma per chi di voi sarà fortunato abbastanza da riuscire a fare qualcosa, da vedere da vicino questo lavoro, lasciate che ve lo dica: può ispirarvi e darvi energia. E più spesso di quanto pensiate la vostra fiducia nell’America e negli americani sarà confermata. La mia lo è stata di certo.
[…]
Stasera sono qui alcune persone che erano con me nel 2004, nel 2008, nel 2012, e forse anche voi ancora non credete a quello che abbiamo fatto. Non siete i soli.
Michelle. Per gli ultimi venticinque anni sei stata non solo mia moglie e la madre dei miei figli, ma la mia migliore amica. Hai assunto un ruolo che non avevi chiesto e lo hai reso tuo con grazia e grinta e buon umore. Hai reso la Casa Bianca la casa di tutti. E oggi una nuova generazione si pone obiettivi ambiziosi anche perché ha te come modello. Mi hai reso orgoglioso. Hai reso orgoglioso tutto il paese.
Malia and Sasha, sotto le più strane delle circostanze, siete diventate due meravigliose giovani donne, intelligenti e bellissime, ma soprattutto gentili e riflessive e piene di passioni. Avete sopportato con facilità il peso di questi anni sotto i riflettori. Di tutto quello che ho fatto nella vita, la cosa di cui sono più orgoglioso è essere vostro padre.
Joe Biden, il ragazzino balbuziente di Scranton che è diventato il figlio prediletto del Delaware. Sei stato la prima scelta che ho fatto da candidato, e la migliore. Non solo perché sei stato un grande vice presidente, ma perché in questo affare io ho guadagnato un fratello. Vogliamo bene a te e a Jill come parte della nostra famiglia, e la nostra amicizia è una delle più grandi gioie della nostra vita.
Al mio formidabile staff. Per otto anni – e per alcuni di voi, molti di più – ho assorbito la vostra energia, e ho cercato di riflettere quello che voi mi mostravate ogni giorno: cuore, carattere e idealismo. Vi ho visti crescere, sposarvi, avere dei figli, e iniziare incredibili nuovi viaggi solo vostri. Anche quando le cose si sono fatte toste e frustranti, non avete mai lasciato che Washington si prendesse le cose migliori di voi. L’unica cosa che mi rende più orgoglioso di tutte le cose buone che abbiamo fatto insieme è il pensiero di tutte le cose formidabili che farete da qui in poi.
E a tutti voi lì fuori, ogni organizzatore che ha cambiato città durante una campagna elettorale per dare una mano, ogni volontario che ha bussato porta a porta, ogni giovane che ha votato per la prima volta, ogni americano che ha vissuto e respirato il duro lavoro del cambiamento: siete stati i migliori sostenitori che chiunque potesse sperare, e vi sarò grato per sempre. Perché sì, voi avete cambiato il mondo.
[…]
Ecco perché stasera lascio questo palco più ottimista per il nostro paese di quanto fossi quando abbiamo cominciato. Perché so che il nostro lavoro non solo ha aiutato molti americani; ha ispirato molti americani, soprattutto i più giovani, a credere che ognuno può fare la differenza; a legarci a un destino più grande del nostro destino individuale.
Cari americani, servirvi è stato il più grande onore della mia vita. Non ho intenzione di fermarmi: sarò accanto a voi, da cittadino, per tutti i giorni che mi rimangono. Per adesso, che siate giovani o giovani nel cuore, ho solo un’ultima richiesta per voi. La stessa cosa di otto anni fa, quando vi chiesi di fidarvi di me. Vi chiedo di crederci. Non nella mia abilità di cambiare le cose, ma nella vostra.
Vi chiedo di tenere viva la fiducia nell’idea che ci hanno tramandato i nostri Padri Fondatori: quell’idea che parlava agli schiavi e agli abolizionisti, quello spirito che cantavano gli immigrati e gli esploratori e chi marciava per ottenere giustizia; il credo di chi ha piantato bandiere su campi di battaglia stranieri e sulla Luna; il credo al centro di ogni americano la cui storia non è ancora stata scritta.
Si può fare.
Lo abbiamo fatto.
Si può fare.