Non torno al Pd delle correnti
Il suo ufficio: «Eccolo, spesso mi tocca passarci le giornate». La stanza dove dorme, metà studio-salotto e metà camera da letto: «Non sbirciate, c’è disordine...». La mitica Sala Verde, quella dei mega-incontri (ormai storia passata...) con sindacati e parti sociali: «Bella, no?». E poi la stanza nella quale c’è il telefono bianco sul quale è solito chiamarlo Barack Obama. È ora di pranzo e Matteo Renzi passeggia sotto i soffitti a volta del terzo piano di Palazzo Chigi accompagnando in una sorta di «visita guidata» Maurizio Molinari, direttore de «La Stampa». Appare in buona forma, nonostante tutto. Fa sport e nuota ogni mattina. E anche l’umore non è male, nonostante tutto.
«Mi viene da sorridere - conferma - a guardare la piccola folla che pensa di scendere dal carro del presunto sconfitto, con la stessa rapidità con la quale ci era salita», dice con la solita ironia. Ma sarebbe sbagliato immaginarlo superficialmente indifferente al voto (traumatico) dei ballottaggi di domenica scorsa. Il Pd, che riunisce oggi la Direzione, sembra una pentola in ebollizione: e attorno al segretario-premier - fuori e dentro il suo partito - sono in molti a intonare il de profundis, immaginandone l’imminente caduta. «È normale - dice -. Non mi sorprendo e non mi spavento. Ma al mio partito farò un discorso chiaro: un discorso che somiglierà ad una sfida».
Il senso sarà: se hanno proposte le avanzino. Ma se qualcuno pensa alle sue dimissioni o ad un ritorno alla stagione dei «caminetti» tra capicorrente, resterà deluso: «Se vogliono quello - dice - hanno una via dritta: trovarsi un nuovo segretario. Il Congresso non è lontano, possono provarci». Né intende accettare la lettura del voto che va per la maggiore: e cioè che il Pd arretra e perde in ragione di una politica di governo troppo poco di sinistra.
È un’idea che Matteo Renzi rifiuta. Così come non crede che siano state certe alleanze con Verdini a penalizzare il Pd oppure l’impostazione (personalistica, dicono) data al referendum costituzionale, del quale - per altro - offre una lettura nuova.
«Votare sì - spiega il premier - è la scelta più anti-establishment possibile, oggi: infatti, significa ridurre le poltrone alla politica e tagliarne notevolmente i costi. Magari i senatori Cinque Stelle voteranno no per conservare il posto: ma non vedo perché gli elettori di Grillo non dovrebbero dire sì. E in ogni caso - conclude - finita la nostra discussione interna io riprendo il giro d’Italia per far campagna sul referendum, che era e resta la madre di tutte le battaglie e di tutte le riforme».
Dunque è inutile attendersi correzioni di linea e di toni dopo la sconfitta ai ballottaggi?
«Intanto a me pare impossibile un giudizio uniforme e omogeneo sui due turni a livello nazionale. Se ci limitiamo ai ballottaggi, naturalmente, la lettura è chiara: una vittoria dei Cinque Stelle evidente, innegabile e netta. Ma il voto non è stato solo questo».
E cos’altro è stato?
«Si è votato in 1.500 comuni e in 20 hanno vinto i Cinque Stelle. In 7-800 comuni abbiamo vinto noi e negli altri, non pochi, l’ha spuntata il centrodestra, che dunque c’è. Il dato politico è che ha perso la Lega, mentre noi l’abbiamo spuntata in quella che era definita la battaglia-simbolo: Milano. Non è che solo perché lì abbiamo vinto allora quel voto diventa irrilevante... Ma capisco che la sorpresa negativa di Torino abbia cambiato il racconto possibile: che ora è totalmente impostato su un’altra linea, e cioè la crisi del Pd».
Per il quale lei invece non vede difficoltà?
«Di questo discuteremo appunto in Direzione, dove io porrò un problema che è anche di metodo. Nell’ultimo anno, infatti, il Pd è finito sui giornali soprattutto per questioni interne: ora, se qualcuno pensa che si possano conquistare voti con una costante presa di distanze dal segretario o dall’attività di governo, pensa una cosa stramba davvero».
Non può certo pretendere che tacciano e obbediscano. Per altro, dal punto di vista della minoranza interna al suo partito, il reato di cui è accusato è grave: aver spostato a destra l’asse del Pd e del governo. E questo è quel che avreste pagato nel voto di domenica.
«Il Jobs Act è la cosa più di sinistra fatta negli ultimi anni, perché permette ai giovani di avere un lavoro a tempo indeterminato, che significa un mutuo, uscire di casa, affrancarsi. Ci sono 455 mila posti di lavoro in più da quando io sono presidente del Consiglio, è troppo poco, ma il numero è enorme. Aggiungo: per me è di sinistra la politica europea che abbiamo fatto, una linea apprezzata sull’immigrazione e lo stop a chi immaginava avventure militari in Libia... Noi abbiamo fatto la legge sui diritti civili, sul terzo settore, sull’autismo, sulla corruzione... Se alla fine mi si spiega che tutto questo non è di sinistra, io non so più che cosa dire».
Però è questo quel che le contestano, no?
«Sì. Ma il punto vero è che, comprensibilmente o meno, dentro l’anima profonda del gruppo dirigente che oggi sta nella minoranza c’è sempre il sentimento di una sorta di usurpazione: come se io mi fossi autoproclamato segretario o capo del governo, ignorando che ho vinto le primarie e che è stato il mio partito a chiedermi di fare il presidente del Consiglio».
Nemmeno la criticatissima alleanza con Verdini può esser oggetto di correzioni? Non è anche questa una virata a destra?
«E secondo lei la Valente si allea a Napoli con Ala e la conseguenza è che Fassino - sindaco bravissimo - perde il ballottaggio a Torino? Sono argomentazioni che non stanno in piedi. Servono a montare polemiche non solo inutili ma perfino dannose. Se noi stessi trasmettiamo agli elettori un’idea di inaffidabilità del Pd, mi pare complesso poi riuscire a vincere delle elezioni».
Magari queste polemiche sono giustificate dall’altra accusa che le viene mossa: aver abbandonato il Partito democratico al suo destino, non curando l’organizzazione sui territori.
«È dieci anni che il Pd discute di se stesso, della forma partito, con chi lo vuole solido e chi lo vuole liquido. Io non ho toccato nulla di quel che ho trovato, ho fatto campagna elettorale ovunque, sono tutte le domeniche alla scuola di partito... Il punto è: qual è l’alternativa al modello organizzativo attuale? Io porrò il problema in Direzione in modo molto franco. Abbiamo una rete sul territorio eccezionale: ma questa rete va usata, e non sempre avviene. Non solo: questo partito, in passato, aveva smesso di funzionare ed era diventato ostaggio delle correnti nazionali, per cui il luogo della sintesi erano i “caminetti”. Dunque: finché io faccio il segretario del Pd, “caminetti” non se ne fanno. Volete il partito delle correnti? Allora cacciate me».
D’Alema, in verità, denuncia anche un altro rischio: che siano gli elettori ad andarsene. Infatti sostiene che lei stia rottamando anche loro...
«D’Alema è stato appena rieletto, anche con il nostro aiuto, presidente della Federazione che unisce tutte le fondazioni del socialismo europeo. Ecco, io spero che a Bruxelles i nostri amici socialisti europei non si siano accorti del fatto che, in piena campagna elettorale, tra il primo e il secondo turno faceva telefonate invitando intellettuali e uomini di cultura a dare una mano alla candidata che a Roma si opponeva al candidato del suo partito. Una candidata, per altro, immortalata dietro i banchetti no euro. Lasciamo stare... Ma se questo è il modello di Pd che hanno in testa, un partito che logora il suo segretario, facciano pure: io intanto parlo al Paese».
Romano Prodi le pone invece un’altra questione: quella delle crescenti disuguaglianze. È un tema che crede di aver sottovalutato come capo del governo e, più ancora, come segretario del Partito democratico? In fondo, è una delle cose che le vengono rimproverate «da sinistra», no?
«Quello della lotta alle diseguaglianze è un tema enorme, e certo non solo italiano. Pensi alla campagna elettorale americana, per esempio. Trump affronta la questione in maniera demagogica, Sanders l’ha fatto con proposte più classiche. E il Pd come intende affrontarla per provare a risolverla? Io penso con il Jobs Act e i nuovi diritti e strumenti che stiamo introducendo: non con il reddito di cittadinanza e uno stipendio assicurato a tutti. Si potrà non esser d’accordo, ma io credo alla società delle opportunità e non a quella della rendita. Ma certo se ogni volta che interveniamo e facciamo qualcosa veniamo tacciati come amici delle lobby, oggi i petrolieri e domani le banche, per dire, si torna al solito punto».
La sua sembra una linea di chiusura totale. Non cambierà nulla, dunque, nel Pd? Impossibile, per esempio, pensare a una gestione unitaria o a un vicesegretario unico?
«La gestione è giù unitaria, la segreteria è già unitaria. Vogliamo cambiare? Io non ho preclusioni. Ma è importante l’analisi di partenza: non siamo nella situazione di tracollo del Pd che viene descritta sui giornali o in Transatlantico. Certo, abbiamo perso comuni importantissimi, come Roma e Torino, abbiamo preso un colpo e brucia, fa male. Ma succede di perdere delle amministrative, non si può sempre vincere dappertutto. E dalle sconfitte si può imparare, comunque, se si vuole».
E a chi chiede un segretario che si occupi a tempo pieno del Pd cosa risponde?
«Che lo Statuto non lo prevede. Vogliono cambiare lo Statuto? Qualcuno si alzi, lo dica e spieghi qual è il modello alternativo che propone».
Insomma, lei non sembra preoccupato dall’esito del voto. Non lo considera un campanello d’allarme, anche in vista del referendum costituzionale?
«Il referendum non c’entra niente con le amministrative: ma approvare quella riforma è la condizione per la quale l’Italia può giocare la partita del futuro. Non sono in ballo io, ma davvero il domani del Paese. Anche se, naturalmente, confermo tutto quel che ho detto accadrà in caso di sconfitta».
Ma è vero che intende farlo slittare un po’ per permettere al fronte del sì di spiegare meglio le sue ragioni?
«E perché? Tempo ce ne è. Il referendum avrà la tempistica prevista dalla Cassazione. Punto e basta. Di che parliamo?».
Quindi, avanti tutta come prima? Come se niente fosse successo? Nessun aggiustamento né sul piano dell’azione di governo né sulla linea del partito? C’è perfino chi le chiede di cambiare atteggiamento, meno arroganza, battute, presunzione...
«Le ho appena detto che dalle sconfitte si può imparare molto. Io non dico facciamo finta di niente: dico discutiamo sul serio però, senza analisi strumentali e superficiali. Io accetto la sfida della riflessione, ma che sia in profondità. Non darò qualcosina a qualcuno, un dipartimento, un nuovo incarico di responsabilità, così che dicano “ha capito la lezione”. Io in Direzione dirò al Pd: discutiamo, ma poi tutti al lavoro sul territorio, nelle città, dietro ai banchetti. È una sfida».
E per quanto riguarda i suoi atteggiamenti un po’ guasconi? All’inizio forse piacevano, ora sembrano addirittura danneggiarla...
«Io una riflessione su di me e su come sono percepito la devo fare. Il fatto non mi sconvolge né mi preoccupa, perché penso sia fisiologico - dopo due anni - che uno che governa si prenda gli insulti. Una volta Obama mi ha detto una cosa divertente: fino a che sei al governo ti giudicano sulla base delle loro aspettative, ma quando ci sono le elezioni ti valutano sul piano delle alternative... Sì, vedo un rischio di personalizzazione: ma da parte delle opposizioni contro di me. In alcune persone vedo non solo personalizzazione, ma addirittura odio. Sei considerato il responsabile di ogni male, insomma. Devo cambiare qualcosa? Certamente ho qualcosa da cambiare anch’io. Magari nei toni, nello stile, vedremo...».
Magari smetterla con i gufi e i professionisti delle tartine potrebbe comunque aiutare, no?
«Ma io ho cambiato su questo. Ho smesso di insistere su questi aspetti, e non so è stato un bene o un male... Però ormai rinuncio alle battute. Detto questo, ammetto che se guardassi alcune tv e leggessi alcuni giornali, nemmeno io voterei per me, tante sono le critiche... Questo è un Paese dove, del tutto legittimamente, uno che si è messo a governare per cambiare le cose viene attaccato in continuazione. Ci sta. Certo, farei volentieri a meno di certo fuoco amico».
Torniamo alla polemica interna?
«Solo perché l’accusa di non aver fatto e di non fare politiche di sinistra non la digerisco. Ne voglio discutere, voglio sentire le loro proposte. Ma ripeto: seriamente. Il senso di quest’intervista potrebbe essere: il Pd viene sfidato in positivo dal suo segretario. E li avviso: se vogliono passare le giornate a continuare ad attaccarmi, facciano pure. Ma io, da dopo Brexit ed il Consiglio europeo, me ne andrò in giro per il Paese a fare iniziative per il referendum costituzionale. Quella riforma è la madre di tutte le battaglie. Peserà sul futuro dell’Italia. Potrà assicurare stabilità. E glielo dico oggi, proprio nel giorno in cui nell’Italia dei 63 governi dal dopoguerra ad oggi, il mio diventa il quinto per longevità. Il quinto, dopo appena 28 mesi. Ed è evidente che qualcosa non va».