Una nuova europolitica industriale
Articolo per Il Sole 24 Ore.
Dai 3 ai 4 milioni di lavoro persi e una produzione inferiore del 10%, una riduzione verticale del credito disponibile, sono i segnali più evidenti della crisi che si è abbattuta sul manifatturiero europeo, a fronte del quale invece è continuata la crescita in altri settori industriali. È una crisi che se non sarà "fronteggiata" in modo adeguato rischierà di far declinare l'apparato industriale europeo sotto la soglia critica, ingenerando, questo è il rischio, una fase irreversibile.
Oggi questa analisi è da tutti condivisa e la volontà di reagire si è consolidata negli Stati e, soprattutto, nell'Unione Europea, dove una vera centralità ha assunto la politica industriale e l'obiettivo di una vera reindustrializzazione è dichiarato in tutti i documenti economici ufficiali, al punto che un nuovo 20 si è aggiunto a quello della strategia 2020 ed è l'obiettivo di arrivare al 2020 con il 20% di Pil europeo dall'industria.
E la politica industriale sarà anche il tema per il semestre italiano, idea quanto mai utile e opportuna, vista la "capacità" e il profilo industriale del nostro Paese, secondo in Europa solo alla Germania. Se tanto abbiamo perso va anche evidenziato che comunque in Europa l'industria rappresenta ancora i 4/5 delle esportazioni europee e l'80% degli investimenti in ricerca e sviluppo del settore privato e che ancora 6 Stati membri della Ue sono tra i primi 10 Paesi industriali. Ma una politica industriale non si improvvisa, né ci si può limitare ad auspici e invocazioni, al contrario, deve essere una strategia, coordinata e completa di tutti gli elementi e i fattori che incidono sul tessuto industriale e deve diventare una policy, un programma, degli interventi e dei sostegni molto concreti. Il primo assunto è che non ci sarà sviluppo e ripresa dell'economia europea così indebolita e così succube delle turbolenze finanziarie e delle instabilità dei bilanci pubblici se non ci sarà ripresa dell'economia reale, a partire dalla produzione di beni e servizi e dall'incrocio tra industria e agricoltura.
Nessuna politica economica europea, fatta solo di manovre di finanza pubblica e di regole di finanza privata, potrà far uscire l'Europa dalla recessione e aprire sbocchi occupazionali ai giovani, oltre che ridurre la disoccupazione dei lavoratori più maturi.
Occorre, al contrario, che si semplifichino la complessa macchina della "governance" economica per dare strumenti e sedi istituzionali nel Consiglio Europeo ed una "governance dell'economia reale e della proprietà individuale europea". Il futuro comune è "dell'Europa regione industriale", ma ciò richiede una vera e propria offensiva di modernizzazione su almeno 4 piani: un rafforzamento dell'innovazione tecnologica e produttiva, con investimenti nella ricerca e nella competitività (vedasi Horizon 2020 e le Ket); una riduzione dei ritardi, delle opacità e della pesantezza della Pa; un rilancio delle infrastrutture informatiche e viarie adeguate (Connecting Europe Facility, Ten-T, Ten-E e Agenda Digitale); una circolazione di capitali che sia accessibile, faccia da leva per sollecitare e attirare risorse private e abbia anche obiettivi di investimento a medio termine. Per questo occorre però una nuova architettura finanziaria e nuovi prodotti finanziari finalizzati all'economia reale e alle sue esigenze (Cosme e ricapitalizzazione della Bce); una politica energetica che garantisca risorse sufficienti, sicure e a minor costo o a costo più omogeneo su uno scacchiere europeo integrato e interconnesso.