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Difendere l’Ucraina vuol dire difendere la nostra libertà

Written by Alberto Losacco.

Articolo di Alberto Losacco pubblicato da Linkiesta.

Fa una certa impressione entrare in un Parlamento e camminare tra sacchi di sabbia e altri sistemi di protezione disposti alla difesa di un eventuale attacco russo. E poi le sirene dell’allarme aereo, risuonate sei volte nel corso dei nostri lavori all’Assemblea parlamentare Nato a Kyjiv, con noi che ci guardavamo attoniti e gli ucraini che ci spiegavano che eravamo già in un luogo sicuro o, diversamente con la serenità che sviluppa l’abitudine, ci facevano strada nelle stanze adibite a rifugi.

E altrettanta impressione la si prova camminando per le strade dell’Ucraina, tra le macerie di palazzine bombardate e tutto quello che in ogni momento ricorda che siamo in un Paese in guerra. Sono trascorsi quasi due anni e mezzo dall’invasione russa, ma qui il tempo sembra essersi fermato. Lo shock e il dolore, ma soprattutto la voglia di combattere e resistere sono rimaste le stesse.
Visti da qui, certi discorsi che attraversano anche il dibattito italiano, appaiono lunari. Provatelo a dire agli ucraini che questa non è la loro guerra, ma quella degli americani per procura. Provate a raccontare il teorema secondo cui togliere gli aiuti militari significherebbe aumentare le possibilità di pace. Un disimpegno occidentale porterebbe Putin ad alzare le sue richieste o quantomeno a non spostarsi di una virgola da quelle finora avanzate.
In più sarebbe legittimato a pensare che la variabile tempo è quella che mette in scacco le democrazie: possono essere forti militarmente, economicamente, sotto il profilo delle sanzioni, ma nel medio-lungo termine non sono in grado di tenere fede ai loro intendimenti. Cosa che invece alle autocrazie riesce perfettamente, anche se più deboli e isolate dal consesso internazionale, perché non hanno opinioni pubbliche cui dover rendere conto.
E allora se c’è una lezione che si può trarre da questi giorni di confronto, è che il sostegno a Kyjiv deve camminare di pari passo a una chiara comunicazione all’opinione pubblica: che la posta in gioco non è cambiata. L’Ucraina non difende solo la propria sovranità e integrità territoriale, ma anche quei principi che hanno garantito in Europa la più lunga stagione di pace della sua storia.
Principi che noi oggi, come membri dell’Alleanza Atlantica e fondatori dell’Unione europea, siamo chiamati a sostenere per scongiurare il rischio, non così remoto, che dall’Ucraina si passi ad altri Paesi, con il fine ultimo di dividere l’Europa e trasformare i nostri Paesi in piccole e superflue comparse rispetto alle grandi sfide del futuro globale. Quale il ruolo dell’intelligenza artificiale nelle nostre vite, le questioni di autonomia e dipendenza energetica, le trasformazioni del continente africano, gli effetti asimmetrici della crisi climatica tra Paesi – come l’Italia – destinati a pagare un prezzo alto, e altri che ne beneficeranno, come proprio la Russia con lo scioglimento dei ghiacciai del Mar Artico.
La stanchezza per la questione ucraina è un sentimento che l’Europa e la Nato non possono permettersi. La prossima Commissione europea dovrà arginare gli egoismi nazionali per giungere finalmente alla difesa comune europea. E, contestualmente, dovrà mostrare maggiore attenzione per quelle porzioni del nostro continente in cui cresce il senso di marginalità sociale ed economica e che, alle ultime elezioni, ha ingrossato le file dei sovranisti, degli euroscettici, dei filo-putiniani. Un’Europa che, a dirla con una battuta, dovrà occuparsi di chi teme la fine del mese e chi la fine del nostro mondo.
È una sfida enorme, perché se le due crisi dovessero divaricarsi, ponendosi l’una contra l’altra, a soccombere sarebbe l’aspirazione europea per come l’abbiamo sempre immaginata. E allora non ci resterebbe altro che metterci ai margini del mondo e accettare quello che altri decideranno e disporranno per noi.
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