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Sono un uomo fortunato

Written by Roberto Vecchioni.

Intervista di Vanity Fair a Roberto Vecchioni.

«No, la roccia della famiglia è lei, Daria, mia moglie». È deciso Roberto Vecchioni, quando gli si chiede se si sente lui quello forte, in casa. Lo abbiamo appena visto in lacrime, sabato 24 febbraio, nella trasmissione di Massimo Gramellini, In altre parole: si era commosso parlando degli studenti che manifestavano per la Palestina, pestati a Pisa dalla polizia.
«Lacrimare è un'azione che conosco, mi è successo milioni di volte nella vita, nel bene e nel male, sentendo una canzone di Guccini o de André. Lì in Tv mi è venuto un colpo al cuore, pensando all'ingiustizia del mondo creato e pensato dagli uomini», spiega. Lo scorso aprile la perdita del figlio Arrigo, bipolare, gli 80 anni compiuti a giugno, il ritorno a Sanremo a inizio febbraio con Alfa e l'uscita, il 27 febbraio, dell'ultimo libro: Tra il silenzio e il tuono (Einaudi), in cui alterna 53 lettere di un ragazzo al nonno, e le lettere di questo nonno a vari personaggi storici e inventati. «Il ragazzino sono io che racconto la mia vita, ma anche il nonno sono un po' io». Ci sono, tra le altre cose: la diagnosi di sclerosi multipla del figlio minore, Edoardo, la crisi con la moglie e il ritorno dell'amore, le operazioni, il vecchio tumore al rene e l'asportazione della prostata due anni fa. Decidiamo di parlarne con il professore, che risponde al telefono, allegro.
Sanremo con Alfa, lei 80 anni, lui 20: che dialogo ha con quella generazione?
«Il papà di Andrea (De Filippi alias Alfa, ndr) faceva il piano bar e ha sempre suonato molte mie canzoni. Quindi quando lui ha espresso il desiderio di fare il duetto con me ho accettato volentieri: Sogna ragazzo sogna era la canzone adattissima per far intrecciare le generazioni, fare un passaggio del testimone di alcuni valori. Mi piaceva molto la figura di questo ragazzo, poi, che ho ascoltato e ho capito essere lontano dalle perturbanze di certi cantanti rap o indie: era all'antica ma con parole moderne. E i sogni non hanno età».
Lei ha quattro nipotine, più piccole. Si definisce un nonno presente?

«Sì, assolutamente, ma direi piuttosto un nonno innamorato perdutamente, e corrisposto. Le prime, gemelle, hanno 11 anni, poi ce n'è una di 10 e un'altra di 6. Sono bambine, per me, intelligentissime: perché l'intelligenza è curiosità, voler sapere perché una cosa è colì e l'altra colà. Le più grandi si sono appassionate ai miti greci, e mi hanno chiesto di raccontarglieli, perché sanno che li insegnavo. Li ho spiegati in forma ridotta, adatta per la loro età, ma non come favole: soprattutto calandoli nella loro vita, spiegando che sono cose che si ritrovano anche oggi negli uomini, sono lezioni di vita. Chiedo: tu ti comporteresti come Ettore e come Andromaca? Come Prometeo o come Zeus?».
Quanta gioia le danno?

«Tantissima. Sono diversissime l'una dall'altra, non si assomigliano fisicamente né spiritualmente. Hanno modi e atteggiamenti e gusti diversi, una briosità della vita tutta loro. Sono anche delle grandi disordinate, ma per questo sono geniali».
A 80 anni si è già fatto tutto e visto tutto. Con che energia si va avanti?

«Io, dico la verità, sono entusiasta per qualsiasi cosa. Ogni giorno in più non vale uno, ma venti giorni di vita in più, nel senso dello spirito, non del tempo. L'età la sento, certamente, ma continuare a vivere significa potere avere altre gioie, costruire altri ricordi».
C'è un pensiero che la fa alzare dal letto?

«È andata bene anche oggi, mi sono svegliato. Parto sempre ottimista, non ho preoccupazioni, penso a che cosa deve fare, se devo andare a trovare qualcuno. Ho davanti dieci o dodici ore per fare qualcosa di nuovo».
Ha scritto un nuovo libro: racconta le crudeltà del destino e le felicità imprevedibili, gli alti e i bassi. C'è una lettera che la rappresenta di più?

«Il ragazzino del libro è pensoso, a volte solitario, umoristico, satirico, sa prendere in giro la vita. Ma le lettere in cui mi identifico di più sono quelle auto accusatorie: quella del mio senso di colpa per avere trascurato mio figlio, mascherata dal sogno del cavaliere che vuole essere ucciso. E poi ci sono quelle in cui spiego la mia doppiezza: sotto il palco una persona normale, con la paura di sbagliare, sul palco invece un altro, sicuro, spensierato e padrone del mondo».
Nel libro racconta di quando vi hanno chiamato dall'ospedale per Arrigo, morto ad aprile. Mi aveva detto anni fa del suo essere bipolare, già allora si dava delle colpe. Lo pensa ancora quindi?

«Meno, negli ultimi anni gli sono stato più vicino. Ma quando è morto devo dire che il destino e la sua volontà coincidevano, non c'era altro modo. Il mondo non si è accorto della sua bellezza, lui non doveva accorgersi della bellezza del mondo perché per lui era brutto, e quindi la sua è una scelta che va rispettata».
Non c'è una parola per chi perde un figlio, come «orfano» per chi perde i genitori. Come mai?

«Perché è una cosa così brutta e orribile, che nemmeno i greci se la sono inventata. Comunque “orfano” va bene anche per i genitori. Anche se c'è una differenza. Sono sicuro che soffre di più una madre. Mia moglie Daria da dieci mesi si è persa, si è ammalata».
Scrive: «Piangi perché vuol dire vivere: tenersela dentro, quella tempesta, è come darla vinta al destino». Che differenza c'è tra il suo dolore e quello di sua moglie?

«Io sto malissimo, mi sveglio di notte, lo sogno, ci penso. Poi ci sono volte che non mi viene in mente. Per lei Arrigo è un pensiero fisso, viene prima di tutto, e sotto succede tutto il resto. Quindi basta una parola, un gesto, un dettaglio e torna tutto in mente, lei cambia faccia, si vede».
Si sente la roccia della famiglia?

«No, la roccia è sempre stata e sarà lei, Daria, nonostante tutto. È una lottatrice, una donna incredibile, ha tappato tutti i buchi della mia vita».
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