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I principali nodi da sciogliere per il futuro dell'Europa

Written by Patrizia Toia.

Articolo di Patrizia Toia.

Si avvicina il momento in cui si esprimerà la voce dei cittadini e saranno loro a scegliere il futuro dell'Europa e, con ciò, anche il nostro futuro italiano.
I due destini, quello nazionale e quello europeo, sono indissolubilmente intrecciati e, ormai, dovrebbero averlo capito tutti.
Intrecciati, secondo alcuni, per necessità perché nessuno Stato membro, neanche il più potente, può affrontare da solo le sfide globali di questo secolo.
Intrecciati per scelta e visione, secondo i sinceri e convinti europeisti, perché la strada dell'integrazione europea è una strada di pace (UNITI si è più liberi), di crescita (UNITI si è più forti), di uguaglianza e inclusione (UNITI si è più “uguali”).
Potremmo anche, volendo cercare riferimenti ideali, riecheggiare i valori e principi di molti movimenti culturali e di forze politiche della storia europea: dalla dottrina sociale della Chiesa (“Fraternité”) all’uguaglianza socialista (“Égalité”), al movimento del liberalismo, del socialismo e del cattolicesimo sociale e liberale (“Liberté”, per tutti questi movimenti).
Potremmo anche riassumere così: persone, comunità, solidarietà, libertà civili ed economiche, equità e inclusione!
Questo non è solo un patrimonio del passato per gli europeisti, è semmai la chiave per interpretare le molte ragioni, oggi anche geopolitiche e di ordine mondiale, che ci fanno dire che l’Europa è la nostra “comunità di destino”.
È importante avere chiaro che, a giugno, i cittadini dovranno esprimersi per queste prospettive di futuro, non per confermare le leadership o i “pesi politici nazionali”.
Per questo passaggio così cruciale voglio proporre qui alcune riflessioni su DUE NODI che ritengo ineludibili.
IL PRIMO NODO: quale sviluppo per l’Europa nella sfida della doppia transizione e quali le risorse necessarie?
La strategia europea per il GREEN DEAL e tutta la legislazione conseguente (Fit For 55, Climate Law, Repower EU, etc.) sono stati e sono la direttrice fondamentale dell’azione di questa legislatura.
Tuttavia oggi, dopo l’entusiastica adesione quasi generale per questo impegno europeo, che potremmo definire una vera e propria “bandiera” della lotta al cambiamento climatico verso l’obiettivo di un’economia decarbonizzata al 2050, è subentrata una generale e ingiustificata critica, accompagnata da un vero e proprio tentativo di rifiuto e di cambiamento di tutto l’impianto normativo e programmatoria.
È una posizione che sfiora una “ideologia negazionista” e che non si basa su analisi e dati di fatto, ma è soprattutto mossa da un intento di strumentalizzazione politica in vista delle prossime elezioni.
La nostra posizione rifugge da ogni demagogia, guarda al futuro e al presente della realtà economica, sociale e produttiva e vuole conciliare visione di prospettiva e concretezza di strumenti.
Noi dobbiamo riconoscere la positività della strategia del Green Deal:
come scelta indispensabile per garantire la sostenibilità del nostro sviluppo, perché la transizione ambientale risponde ad un impegno inderogabile contro la lotta al cambiamento climatico e ci aiuta a salvaguardare la nostra salute; come occasione per una grande innovazione e un salto tecnologico del nostro sistema produttivo e dell’economia.
È miope la posizione di chi nega la necessità di questo cambiamento, perché il mondo va in quella direzione e, anche nei Continenti più inquinati e inquinanti (pensiamo alla Cina), avanzano programmi di cambiamento fortissimi e si punta con determinazione a tutto l’ambito delle energie rinnovabili e della mobilità elettrica, per fare solo alcuni esempi.
Dobbiamo riconoscere però che l’impianto normativo europeo va “messo a punto”, da una parte completato e dall’altra modulato diversamente nei tempi e nelle indicazioni: non è quindi il Green Deal che va cambiato, ma semmai va rivista la tempistica e vanno rivalutati i target.
Infine, è cruciale affrontare tre temi indispensabili che io da tempo – anche a nome del Partito Democratico – sottolineo come prioritari e che solo recentemente hanno visto le prime decisioni concrete della Commissione.
Queste priorità sono:
Le risorse adeguate (quanto costa la transizione e dove trovare i finanziamenti?);
Gli strumenti necessari, sia europei che nazionali;
Le implicazioni e le ricadute sociali (sia occupazionali che di coesione sociale e territoriale).
Qualcuno sostiene che la legislazione sia stata troppo ridondante (rischio di over regulation) e che le ambizioni non siano sempre state accompagnate dai mezzi indispensabili. Per tutto questi motivi siamo noi, non i “negazionisti ambientali”, a sostenere che il realismo e la fattibilità concreta debbano diventare i criteri basilari su cui misurare la bontà delle nostre scelte.
La scelta della sostenibilità e dunque della doppia transizione, ambientale e digitale, sarà uno degli elementi cardine della campagna elettorale, che vedrà le forze di destra all’attacco contro l’Europa e a cui dobbiamo invece rispondere sostenendone il valore.
Dobbiamo sostenerne il valore perché la richiesta di preservare e migliorare le nostre condizioni di vita viene da gran parte della società, in particolare dai giovani.
E perché è un valore anche per l’economia e la crescita, perché le economie più avanzate si muovono in questa direzione, quindi se vogliamo che l’Europa mantenga una posizione rilevante sul piano della competitività occorre che si collochi al livello più avanzato dell’innovazione tecnologica, digitale e ambientale.
Sono scelte irreversibili: chi illude le imprese e l’opinione pubblica che si possa “tornare indietro” non aiuta certo a superare le difficoltà che il percorso della transizione ambientale ed energetica oggettivamente portano con sé.
Il nodo dunque è: come può essere l’Europa all’altezza delle sue ambizioni?
Come può accompagnare il suo sistema produttivo (siamo un continente manifatturiero e dobbiamo continuare ad esserlo) nell’attraversamento della “valle del cambiamento”?
Io voglio indicare sette proposte:
Una semplificazione delle norme e anche un’armonizzazione delle stesse;
Uno stanziamento adeguato di risorse pubbliche e una mobilitazione di risorse private;
Un potenziamento delle capacità di ricerca e di applicazione delle scoperte tecnologiche (soprattutto in campo ambientale);
Una diffusione e un’innovazione continua nell’ambito digitale con infrastrutture, strumenti e centri di competenza e ricerca adeguati;
Un grande piano di formazione delle competenze per il capitale umano, indispensabili in questa transizione, che per altro offre molte opportunità;
Una valutazione costante dei costi sociali, sostegno all’occupazione fragile e un grande piano di riqualificazione (reskilling);
Una politica industriale collegata alla politica ambientale (un GREEN INDUSTRIAL ACT).
La “rivisitazione” del Green Deal nella prossima legislatura perciò dovrà essere un COMPLETAMENTO e una armonizzazione degli strumenti su 3 piani paralleli:
Ambientale
Industriale (con grande attenzione a Ricerca e Innovazione)
Formazione, capitale umano e implicazioni sociali (pensiamo ai green jobs)
I primi pilastri della politica industriale sono già stati definiti in questa ultima fase di legislatura:
Chips Act: per garantire in Europa buona parte della produzione di microprocessori e dei loro componenti necessari (alla nostra industria) e quindi superare la dipendenza oggi pesante da pochissimi paesi come la Corea e Taiwan;
Raw Material Act: per garantire un approvvigionamento adeguato delle materie prime critiche attraverso l’eventuale ripresa dell’estrazione in Europa, una politica commerciale capace di creare canali di fornitura privilegiati, una capacità maggiore di trasformazione, il recupero di queste materie dai processi di riciclo e da una eco progettazione più intelligente, la ricerca per trovare delle sostituzioni a queste materie prime critiche;
STEP: la creazione di una piattaforma di sostegno e di finanziamento per le tecnologie strategiche (tecnologie digitali e per l’innovazione, tecnologie pulite ed efficienti sotto il profilo delle risorse e biotecnologie);
Horizon Europe: utilizzo del programma e delle possibilità dello EIT (European Institute of Innovation and Technology) per il sostegno alle start-up e alle imprese che vanno in questa direzione sotto la creazione di un fondo sovrano per l’industria;
European Innovation Council: creato per sostenere, anche finanziariamente, tutte le start up più innovative.
L’Europa oggi si deve misurare con le strategie industriali molto impegnative ed “interventiste” degli altri grandi continenti, dai finanziamenti diretti della Cina alle sue imprese (che oggi sbarcano in Europa con investimenti in produzioni molto avanzate) al programma IRA (Inflation Reduction Act) degli Stati Uniti, che sostiene con una cifra enorme le imprese che operano con tecnologie ambientali avanzate, senza guardare la “nazione” della proprietà, purché producano in America.
Di fronte a questi grandissimi sostegni, l’Europa rischia di essere limitata e di avere un gap competitivo pericoloso, per questo occorre un intervento molto forte che dia ancora più valore alle azioni già definite.
Questo passo avanti non può che essere un FONDO SOVRANO PER L’INDUSTRIA che garantisca un volume di risorse pubbliche, da affiancare a quelle private, sia delle imprese che del mercato dei capitali. Proprio per rimarcare l’importanza di questo argomento ho scritto un articolo qualche giorno fa sul Sole 24 Ore.
Il punto chiave però è che questi soldi nell’attuale bilancio non ci sono e non è pensabile trovarli. Ecco perché anche questa necessità si riaggancia al tema istituzionale, di cui parleremo nella seconda parte della newsletter, per creare un fondo sovrano occorrerà ritrovare il coraggio e la visione che si è avuta davanti al Covid, anche se la minaccia ora non sembra così evidente e palpabile.
Un nuovo debito europeo può nascere solo se c’è una grande unità politica e quindi una vera solidarietà che consenta di scommettere su un destino comune. Io sono convinta che una nuova politica industriale possa essere solo europea, accompagnata poi ovviamente da interventi nazionali adeguati.
Occorre infatti una dimensione almeno continentale, con una massa critica di risorse e con una politica commerciale coerente, per rispondere alle sfide presenti e future.
In questa prospettiva si potrà forse favorire anche la nascita di grandi progetti europei, come fatto con Airbus e Galileo, e anche il ritorno di grandi soggetti e di qualche “campione” europeo.
Abbiamo parlato di risorse pubbliche, da trovare nel bilancio europeo, sia per finanziamenti diretti che per forme di garanzia, ma dobbiamo anche pensare a modalità nuove di coinvolgimento della BEI e degli organismi finanziari e bancari e alla tanto auspicata riforma della UNIONE DEI CAPITALI, per poter raccogliere anche sul mercato finanziario altre disponibilità.
Dopo decenni di crescita europea rivolta maggiormente al quadro interno, perché la condizione internazionale sembrava garantire certezze e stabilità, dopo l’ultimo quinquennio in cui l’Europa ha fatto scelte straordinarie per rispondere a minacce altrettanto straordinarie, oggi ci troviamo davanti a una scelta molto forte e impegnativa: Quale Europa scegliamo per il futuro e quali strumenti le costruiamo perché sia in grado di fare ciò che tutti le chiedono e si aspettano?
Non è tempo di normalità, è tempo di rendere stabile e continua la speciale capacità che abbiamo dimostrato di fronte alle crisi più recenti.
È tempo di rendere ordinaria la straordinarietà.
Il SECONDO NODO: quale Europa e quali riforme per un nuovo assetto istituzionale?
L'Europa è un progetto incompiuto perché:
in parte, sarà sempre un cantiere “in fieri” che di fronte a sfide sempre mutevoli deve trovare nuove “costruzioni”/modalità istituzionali e nuove “cassette degli attrezzi”,
in parte perché per molti anni – dopo la grande spinta data dal tentativo di approvare una “Costituzione europea” – si è smarrito lo spirito dell’unità politica e molte decisioni sono state rimandate. Queste decisioni però oggi diventano essenziali per l’efficacia dell’azione comune.
L'attuale assetto istituzionale europeo non configura né una vera Federazione né una Confederazione.
I trattati hanno creato un’istituzione con competenze, organi e modalità di funzionamento che oggi reggono a fatica davanti alla complessità e alla vastità dei problemi, risultando spesso inefficaci e indebolendo l’Europa e la sua azione, sia all’interno che sul piano esterno.
Tra le molte proposte di riforma, vorrei indicarne alcune prioritarie:
Un rafforzamento dell’unità europea attraverso scelte di integrazione politica e istituzionale;
La definizione di nuove competenze, come ad esempio quelle di politica industriale, politica della difesa e politica sociale integrandole nelle basi giuridiche;
La creazione di un’Europa della salute, come già chiesto dai cittadini nella Conferenza sul Futuro dell’Europa, per avere alcuni standard comuni di servizi e prestazioni minime (siamo davvero tutti cittadini europei se abbiamo situazioni sanitarie così antitetiche?);
Una maggiore unione in questo campo permetterebbe di avere una comune e più incisiva capacità di Ricerca e Innovazione, anche per affrontare i possibili rischi futuri.
La decisione, in attesa delle riforme giuridiche, di esercitare in comune alcune competenze.
Ciò avverrà a 27, se tutti gli Stati Membri saranno d’accordo, o con cooperazioni rafforzate tra quegli Stati che intendono esercitarle insieme. Questa strada, la cooperazione rafforzata, lascia “aperta la porta” anche a chi può aderire in un secondo momento ed è una buona alternativa al modello dell’Europa a due velocità, che renderebbe più cristallizzata e modificabile la situazione.
Un rafforzamento del ruolo del Parlamento attribuendo potere di iniziativa legislativa;
Il superamento del principio dell’unanimità nel Consiglio. Non è più accettabile andare avanti alla velocità del più “lento”, del più “pigro” o del più “egoista”, né permettere che un paese (vedi ad esempio l'Ungheria) blocchi gli atti col suo dissenso o il suo veto.
In sostanza l'Europa può essere più pronta, più unita, più forte e più efficace su molte vecchie e nuove tematiche.
Si pensi alla tanto auspicata “autonomia strategica”, ad esempio nel campo industriale.
Per questa finalità si presuppone un’Europa capace di realizzare, attraverso progetti di INTERESSE COMUNE EUROPEO, infrastrutture fisiche o digitali che siano un Bene Comune Europeo, a prescindere dallo Stato membro in cui siano realizzate.
Ma chi avrà il potere e la forza di prendere queste decisioni senza una riconosciuta ed esclusiva competenza a livello di Commissione? Per capire quanto siamo inadeguati e lontani da questo basta fare il paragone tra i poteri della Commissione e del Governo Federale americano.
Per questo voglio ribadire che il ruolo più forte dell'Europa all'interno e all'estero presuppone un’istituzione con organi “federali” più forti e potenti.
In particolare, nel campo della politica estera comune e di sicurezza e difesa, questa carenza è quasi drammatica.
Oggi la politica estera europea è la somma, peraltro non armoniosa, delle scelte nazionali e questo impedisce che l’Europa sia protagonista autorevole e player globale sulla scena mondiale.
I modelli sono ormai due: quello Federale, con tutta la sua carica di unità e forza, e quello Confederale, che si limita ad un’aggregazione di Stati che condividono il minino comune indispensabile e quindi esaltano la concorrenza tra loro sfociando nel conflitto, laddove gli interessi siano divergenti.
Questa strada, la Confederazione, non è solo una soluzione minima, ma è oltretutto inefficiente perché, anziché creare massa critica di un mercato unico di 500 milioni di abitanti, lo frammenta in 27 mercati differenti, che indeboliscono, frammentandola, la forza dell’Unione.
In sintesi, occorreranno scelte sovranazionali, con risorse e prospettive sovranazionali. L’Europa ha già reagito con iniziative straordinarie di fronte alle terribili e impreviste crisi di questi anni.
L’ha fatto con Next Generation EU e con il debito comune, con SURE, senza il quale non sarebbe stato possibile pagare la CIG durante il periodo del Covid, con l’acquisto comune di vaccini, con la Strategia europea di diversificazione energetica di fronte alla guerra della Russia in Ucraina.
Ma se le risposte straordinarie una tantum devono essere stabilizzate e se gli strumenti eccezionali devono essere resi permanenti, ciò richiederà una legittimazione democratica, cioè un consapevole mandato di riforma e le elezioni sono proprio il modo e il luogo per questo.
Il prossimo Parlamento e le prossime Istituzioni avranno il compito di aprire l’impegnativo cantiere delle riforme, senza ulteriori ritardi, convocando una Convenzione e una Conferenza intergovernativa secondo l’art. 48 del Trattato vigente, così come ha già richiesto e deliberato formalmente il Parlamento Europeo.

Per seguire l'attività dell'On. Patrizia Toia: sito web - pagina facebook

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