L’Europa al bivio
Articolo di Piero Fassino.
L’Europa è a un bivio.
Per un verso è stata ed è protagonista del più avanzato progetto di integrazione sovranazionale: mercato unico, moneta comune, frontiere aperte, bilancio comunitario, politiche europee nei settori strategici, dalla politica estera alla transizione ecologica, dalla ricerca alla politica commerciale.
In nessuna regione del pianeta si è realizzata una così ampia integrazione che, anzi, ha sollecitato processi analoghi in ogni continente.
Al tempo stesso quella integrazione appare fragile in uno scenario internazionale segnato da anarchia, frammentazione e guerre alle porte di casa.
E se l’Europa vuole essere protagonista e non comprimario è chiamata a fare a un salto di qualità verso livelli di integrazione più intensi in ogni campo.
Non è ovviamente semplice dovendosi costruire politiche condivise tra 27 Stati, che nell’arco di qualche anno si estenderanno a 35 con l’allargamento a Balcani occidentali, Ucraina e Moldavia. Ce lo dimostra la difficoltà a realizzare una politica comune sull’immigrazione.
E tuttavia altra strada non c’è. Dal climate change all’intelligenza artificiale, dalle regole per i mercati globali alla stabilità internazionale, nessun tema strategico è gestibile solo sulla base di politiche nazionali. Il ripiegamento nazionalistico di ogni Stato nei propri confini sarebbe una illusione pagata a caro prezzo. In un mondo grande farsi piccoli riduce ancora di più la possibilità di far valere i propri valori e i propri interessi.
Tanto più per il venir meno di quei “paracadute” che a lungo hanno protetto l’Europa: gli Stati Uniti garantivano la sicurezza, la Russia assicurava l’energia, la Cina e gli emergenti offrivano i loro mercati. E l’Europa poteva così coltivare la sua crescita.
È uno scenario che sta alle nostre spalle e l’Europa è chiamata ad assumere in prima persona le responsabilità del proprio destino. E ogni Paese europeo deve scegliere come collocarsi.
Vale a anche per l’Italia che fin dalla fondazione è stata protagonista del progetto europeo, traendone benefici oggi troppo spesso dimenticati. Il boom economico che ha reso l’Italia una potenza industriale non sarebbe stato possibile senza il mercato europeo comune. Senza l’introduzione dell’euro l’Italia avrebbe continuato ad essere prigioniera di alta inflazione e continue svalutazioni della lira. Senza gli accordi di libero scambio tra UE e paesi terzi le nostre esportazioni avrebbero minori opportunità di affermarsi. Senza le risorse di Next Generation EU il nostro Paese non sarebbe in grado di superare i duri colpi inferti da Covid 19 a imprese e famiglie. E si potrebbe continuare con mille altri esempi.
Risulta perciò rischioso per gli interessi dall'Italia l’oscillante ambiguità del governo Meloni, ispirata dal motto “dall’Europa prendo solo quel che mi serve”. Un atteggiamento opportunistico che riduce il peso del nostro Paese e peraltro non tutela meglio i nostri interessi.
È, ad esempio, sconcertante che l’Italia - nonostante abbia sottoscritto con la Francia il Trattato del Quirinale e con la Germania il Patto di azione - non abbia ricercato con Parigi e Berlino un’intesa sul Patto europeo di stabilità, scegliendo di essere passiva spettatrice delle proposte franco-tedesche. E come si continui, per pura ostilità pregiudiziale, a procrastinare la sottoscrizione del MES, strumento di stabilità finanziaria di cui l’Italia, gravata da un alto debito pubblico, avrebbe più necessità di altri.
Così come anziché battersi per una politica condivisa sull’immigrazione, il governo italiano si sia inventato un accordo con l’Albania che con tutta evidenza è solo una foglia di fico per nascondere il fallimento della propria politica migratoria.
Oppure come per lo sviluppo dell’Africa si continui a evocare un “Piano Mattei” non solo privo di programmi e di risorse finanziarie, ma anche del tutto sganciato dalle strategie europee.
In questo scenario tra sei mesi tutti i cittadini europei saranno chiamati a eleggere il nuovo Parlamento europeo. Nel passato spesso il voto europeo era una sorta di elezione di medio termine in cui si misuravano, in ogni Paese, i rapporti di forza tra le forze politiche. Questa volta non sarà così. In gioco è il futuro dell’Europa. La scelta sarà tra chi vuole un’Europa più forte e integrata e chi la vuole ridurre a una sorta di solo coordinamento tra le politiche statali. E se nel passato gran parte delle forze politiche chiedeva un voto per più Europa, questa volta sono in campo forze che vogliono meno Europa. Il voto in Olanda, così come i consensi attribuiti in molti Paesi dai sondaggi alle forze nazionaliste e antieuropee dicono che l’insidia è molto forte.
E anche gli italiani saranno chiamati a scegliere.
L’Europa è a un bivio.
Per un verso è stata ed è protagonista del più avanzato progetto di integrazione sovranazionale: mercato unico, moneta comune, frontiere aperte, bilancio comunitario, politiche europee nei settori strategici, dalla politica estera alla transizione ecologica, dalla ricerca alla politica commerciale.
In nessuna regione del pianeta si è realizzata una così ampia integrazione che, anzi, ha sollecitato processi analoghi in ogni continente.
Al tempo stesso quella integrazione appare fragile in uno scenario internazionale segnato da anarchia, frammentazione e guerre alle porte di casa.
E se l’Europa vuole essere protagonista e non comprimario è chiamata a fare a un salto di qualità verso livelli di integrazione più intensi in ogni campo.
Non è ovviamente semplice dovendosi costruire politiche condivise tra 27 Stati, che nell’arco di qualche anno si estenderanno a 35 con l’allargamento a Balcani occidentali, Ucraina e Moldavia. Ce lo dimostra la difficoltà a realizzare una politica comune sull’immigrazione.
E tuttavia altra strada non c’è. Dal climate change all’intelligenza artificiale, dalle regole per i mercati globali alla stabilità internazionale, nessun tema strategico è gestibile solo sulla base di politiche nazionali. Il ripiegamento nazionalistico di ogni Stato nei propri confini sarebbe una illusione pagata a caro prezzo. In un mondo grande farsi piccoli riduce ancora di più la possibilità di far valere i propri valori e i propri interessi.
Tanto più per il venir meno di quei “paracadute” che a lungo hanno protetto l’Europa: gli Stati Uniti garantivano la sicurezza, la Russia assicurava l’energia, la Cina e gli emergenti offrivano i loro mercati. E l’Europa poteva così coltivare la sua crescita.
È uno scenario che sta alle nostre spalle e l’Europa è chiamata ad assumere in prima persona le responsabilità del proprio destino. E ogni Paese europeo deve scegliere come collocarsi.
Vale a anche per l’Italia che fin dalla fondazione è stata protagonista del progetto europeo, traendone benefici oggi troppo spesso dimenticati. Il boom economico che ha reso l’Italia una potenza industriale non sarebbe stato possibile senza il mercato europeo comune. Senza l’introduzione dell’euro l’Italia avrebbe continuato ad essere prigioniera di alta inflazione e continue svalutazioni della lira. Senza gli accordi di libero scambio tra UE e paesi terzi le nostre esportazioni avrebbero minori opportunità di affermarsi. Senza le risorse di Next Generation EU il nostro Paese non sarebbe in grado di superare i duri colpi inferti da Covid 19 a imprese e famiglie. E si potrebbe continuare con mille altri esempi.
Risulta perciò rischioso per gli interessi dall'Italia l’oscillante ambiguità del governo Meloni, ispirata dal motto “dall’Europa prendo solo quel che mi serve”. Un atteggiamento opportunistico che riduce il peso del nostro Paese e peraltro non tutela meglio i nostri interessi.
È, ad esempio, sconcertante che l’Italia - nonostante abbia sottoscritto con la Francia il Trattato del Quirinale e con la Germania il Patto di azione - non abbia ricercato con Parigi e Berlino un’intesa sul Patto europeo di stabilità, scegliendo di essere passiva spettatrice delle proposte franco-tedesche. E come si continui, per pura ostilità pregiudiziale, a procrastinare la sottoscrizione del MES, strumento di stabilità finanziaria di cui l’Italia, gravata da un alto debito pubblico, avrebbe più necessità di altri.
Così come anziché battersi per una politica condivisa sull’immigrazione, il governo italiano si sia inventato un accordo con l’Albania che con tutta evidenza è solo una foglia di fico per nascondere il fallimento della propria politica migratoria.
Oppure come per lo sviluppo dell’Africa si continui a evocare un “Piano Mattei” non solo privo di programmi e di risorse finanziarie, ma anche del tutto sganciato dalle strategie europee.
In questo scenario tra sei mesi tutti i cittadini europei saranno chiamati a eleggere il nuovo Parlamento europeo. Nel passato spesso il voto europeo era una sorta di elezione di medio termine in cui si misuravano, in ogni Paese, i rapporti di forza tra le forze politiche. Questa volta non sarà così. In gioco è il futuro dell’Europa. La scelta sarà tra chi vuole un’Europa più forte e integrata e chi la vuole ridurre a una sorta di solo coordinamento tra le politiche statali. E se nel passato gran parte delle forze politiche chiedeva un voto per più Europa, questa volta sono in campo forze che vogliono meno Europa. Il voto in Olanda, così come i consensi attribuiti in molti Paesi dai sondaggi alle forze nazionaliste e antieuropee dicono che l’insidia è molto forte.
E anche gli italiani saranno chiamati a scegliere.