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Il coraggio, uno se lo può dare

Written by Mario Delpini.

Discorso alla Città di Mario Delpini nella Basilica di Sant’Ambrogio

La mediocrità e la viltà possono essere giustificate e raccomandate come una forma di prudenza, come una pratica di realismo, come un consiglio per il quieto vivere. La figura di don Abbondio nel romanzo I promessi sposi, nel dialogo imbarazzante con il cardinal Federigo, giustifica il proprio comportamento nell’esercizio del suo ministero di parroco e nella sua responsabilità pubblica: «Torno a dire, monsignore - rispose adunque - che avrò torto io… Il coraggio, uno non se lo può dare».
Noi celebriamo la festa di sant’Ambrogio, patrono della Chiesa Ambrosiana, della città di Milano e della Regione Lombardia, e considerando la sua vita cerchiamo ispirazione per reagire alla mediocrità e alla rassegnazione. Sentiamo la responsabilità di essere persone fiduciose nell’esercizio dei compiti che ci sono stati affidati e sentiamo il dovere di prenderci cura di quel bene comune che è la fiducia.
Mentre don Abbondio crede di essere saggio pensando che il coraggio, uno non se lo può dare, specie in un contesto difficile di prepotenze, ingiustizie impunite, inaffidabilità delle istituzioni, noi crediamo che sia saggio darsi ragioni e condizioni per avere coraggio e praticare la fiducia.
Per una comunità, per una città, per un Paese la fiducia è una condizione irrinunciabile per una coesistenza pacifica delle persone, delle culture, delle religioni. La fiducia è un atteggiamento necessario per affrontare le sfide di oggi e per andare verso il futuro. La fiducia è l’antidoto desiderabile per contrastare il declino della nostra civiltà. La fiducia è il rimedio all’epidemia della paura.

Come un’epidemia, la paura si diffonde dappertutto, contagia tutte le età e tutti gli ambienti.
È un virus abbastanza ben conosciuto, ma il vaccino per prevenire il contagio non è stato ancora trovato. La paura è un modo di sentire, di guardare al presente e al futuro, di considerare se stessi e gli altri. La paura si aggira per le strade con il suo corteo di sospetti che isolano, rabbia che aggredisce, sfiducia che trattiene dal decidere, dall’intraprendere, dal donare.
I sintomi preoccupanti della paura si riconoscono in una cautela irrazionale.
Si avverte la bellezza e il fascino di una proposta, ma alla fine si declina l’invito: «E se poi? Meglio non rischiare!».
La cautela irrazionale alimentata dalla paura è uno dei fattori che dissuade dal costruire rapporti affettivi stabili, legami matrimoniali in cui è desiderata l’indissolubilità, famiglie che vivano con naturalezza il succedersi delle generazioni.
Ma la paura di sposarsi e di fare famiglia è un principio di tristezza e di solitudine che contribuisce a rendere desolata la vita della società e genera un circolo vizioso che rende ancora più radicata la paura.
Il desiderio della maternità e della paternità di molte donne e uomini è un segno della chiamata a costruire il futuro, a dare compimento alla voglia di vivere generando vita. L’amore di un uomo e di una donna che si riconoscono affidabili l’uno per l’altra alimenta il desiderio di avere bambini, come esperienza della maturità dell’amore.
Ma il virus della paura scoraggia il sogno condiviso, induce a rimandare la decisione di avere bambini fino a che non ci siano tutte le garanzie che promettono di esorcizzare la paura, quindi le condizioni di lavoro, casa, salute, reddito. La crisi demografica che fa invecchiare e forse contribuirà al declino, se non alla scomparsa, della nostra civiltà, ha una delle sue radici nella paura.
L’intuizione di una missione da compiere che alimenta i sogni e la gioia di molti ragazzi e ragazze è uno dei segni più affascinanti della giovinezza. C’è una predisposizione a fare il bene, a prestare soccorso ai bisogni degli altri, a condividere la propria fede e la propria speranza che attira verso il futuro. I discepoli di Gesù vi riconoscono la sua voce che invita a seguirlo per dare compimento alle sue promesse. Molti giovani vi riconoscono l’indecifrabile e persuasivo fascino di un ideale.
Ma la cautela imposta dalla paura suggerisce di percorrere strade meno impegnative, di ridurre il fare il bene a qualche impegno a scadenza. Che la vita sia “vocazione” e perciò che la vita abbia come compimento desiderabile una consacrazione lunga come la vita, una dedizione per sempre, si presenta come un’idea improbabile e una via impraticabile o quanto meno temibile, piuttosto che motivo di gioia. La paura, infatti, suggerisce di sospettare che la vocazione sia una illusione, che la risposta sia una imprudenza. «Dio, infatti, dov’è? Come si può credere che mi chiami e mi accompagni attraverso tanti prevedibili e temibili pericoli e contrasti?»; «Io, infatti, come posso farcela? Dove posso mai trovare la forza e la serenità della perseveranza, io così fragile e incostante?».
L’assunzione di responsabilità in ambito sociale, nelle amministrazioni locali, in politica, nella propria professione si può considerare come uno dei modi di vivere dell’uomo e della donna adulti che mettono le loro capacità a servizio della società in cui vivono. L’essere chiamato a un ruolo di responsabilità nel lavoro, l’essere indicati come responsabili di associazioni, di iniziative che rendono viva e generosa la società e il Paese, la città e il villaggio, l’essere chiamati a impegnarsi nell’amministrazione comunale e regionale, nell’ambito politico, sono un riconoscimento delle doti e allettanti anche per legittime ambizioni personali. Ma molti si sottraggono alle responsabilità, specie quando si tratta di ambiti della società civile e della comunità cristiana che chiedono impegno senza promettere potere o guadagni. Di fronte alle responsabilità si insinua la paura dei contrasti, dell’insostenibile fatica delle mediazioni, dell’aggressività delle critiche e delle diffamazioni. La paura consiglia di starsene cauti nel proprio privato e lasciare agli altri di curarsi del bene comune, della vita della comunità, delle opere innumerevoli di solidarietà e cultura che caratterizzano i nostri ambienti. «Una mano la do volentieri, se posso, ma assumere la responsabilità non me la sento.»
Desidero esprimere la mia vicinanza e comprensione per coloro che si sentono inquieti di fronte alle scelte importanti e alle responsabilità gravose: ci sono infatti molti fattori che incrinano la fiducia, che spengono l’entusiasmo e fanno venir meno il coraggio.
La paura e la sfiducia hanno anche buoni argomenti, quando l’esperienza è segnata dalla delusione per legittime aspettative frustrate, quando il rapporto con gli altri è spezzato da tradimenti e imbrogli, quando il rapporto con le istituzioni diventa esasperante per lungaggini e inadempienze.
Ho però buone ragioni per invitare a pensare, a reagire, a contrastare quel sentire la paura che genera sfiducia. Con la paura si invoca l’immunità, per difendersi dall’altro. Con la fiducia invochiamo la comunità, che è difesa dell’altro.

La paura si diffonde come un’epidemia. Invece che essere riconosciuta come una malattia, è giustificata come una forma di realismo. Chi convince che avere paura sia una forma di buon senso?
Non è giusto colpevolizzare in modo generalizzato categorie o comportamenti. Ma credo sia legittimo affrontare la domanda e chiamare al confronto i seminatori di paura. La creazione di un “clima” non è un evento “naturale”, piuttosto è frutto di scelte, di consuetudini, forse anche di interessate programmazioni. Dunque, per contrastare la sfiducia, si possono anche compiere altre scelte, interrompere consuetudini, cambiare le programmazioni.
La “visione del mondo”, la percezione della realtà si configurano come un processo complesso in cui interagiscono esperienze dirette, notizie ricevute, stati d’animo personali, chiacchiere condivise.
Un contributo determinante per farsi un’idea di quello che succede è dato dalle notizie, dalla comunicazione.
Per farsi un’idea di che cosa stia succedendo nel mondo, ma anche in città, sono decisive le notizie che i media scelgono e diffondono. Se i media, di tutto quello che succede, comunicano preferibilmente le notizie di episodi tragici, di comportamenti pericolosi, di problematiche spaventose, di prospettive preoccupanti, è comprensibile che l’immagine della realtà che si condivide, l’atteggiamento personale e il clima che si respira siano malati di paura.
C’è, quindi, una responsabilità indeclinabile di coloro che operano nel campo della comunicazione.
Anche i discorsi quotidiani, le chiacchierate in famiglia, tra gli amici, nell’ambiente di lavoro contribuiscono a “creare il clima” che si respira. Se i genitori quando parlano tra loro accumulano lamentele, sfogano malumori, esprimono risentimenti a proposito dell’ambiente di lavoro, delle relazioni tra parenti, dei comportamenti dei vicini di casa, possono i figli che ascoltano evitare di avere paura dell’ambiente di lavoro e dei rapporti con le persone?
C’è, quindi, una responsabilità di ciascuno nel contribuire a trasmettere messaggi che fanno paura e nel promuoverne la diffusione.
Se coloro che hanno responsabilità educative nell’ambito scolastico, ecclesiale e nelle forme diffuse di attività sociali e culturali professano un pessimismo abituale, un malumore radicato, una sfiducia generalizzata, un sospetto sistematico, è comprensibile che bambini e bambine, ragazzi e ragazze siano contagiati dal malumore, dalla sfiducia, dalla paura.
C’è, quindi, una specifica responsabilità degli educatori in ogni ambito nell’incrementare il contagio della paura.
Non si può evitare di domandarsi a chi giovi diffondere la paura: quali comportamenti si intendono promuovere seminando spaventi e diffidenza? Forse ci sono interessi che suggeriscono di pensare anzitutto a se stessi per difendersi da un contesto pericoloso. Forse l’accumulo di beni, il sottrarsi alle responsabilità, il convincersi che la politica sia una cosa sporca, che dedicarsi al bene comune sia un esporsi a pericoli e linciaggi mediatici, insomma queste abitudini congeniali a un radicato individualismo giovano ai mercanti e alle ambizioni autoritarie.
Nei nostri giorni, dinanzi agli eventi drammatici che sconvolgono molte parti del mondo, viene da pensare che la guerra è la reazione alla paura dell’altro popolo, è l’esito di un pessimismo sulla possibilità di convivere pacificamente. Come ogni persona di buon senso può riconoscere, la guerra è rovinosa per tutti. Gli unici che ne hanno dei vantaggi sono i mercanti di armi.

Per quanto l’insidia della paura sia un assedio continuo e minaccioso, si deve riconoscere che la vita quotidiana è possibile a motivo di una fiducia che la comunicazione, la chiacchierata quotidiana, i discorsi pubblici stentano a nominare.
In questo momento solenne, perciò, voglio dichiarare che l’umanità merita fiducia. Per esempio, io ho fiducia in chi guida i mezzi pubblici. So che mi porteranno a destinazione. Io ho fiducia nel panettiere e nel fruttivendolo: so che mi venderanno prodotti sani. Ho fiducia nel cuoco e nel cameriere, so che mi preparano e mi servono un ottimo risotto alla milanese. Ho fiducia nelle forze dell’ordine, so che dedicano tempo, intelligenza, fatica per garantire ordine e sicurezza in città. Ho fiducia nel sindaco e nel tecnico del Comune, so che fanno in modo che la città funzioni. Ho fiducia nei preti, so che sono dedicati a prendersi cura delle persone loro affidate. Ho fiducia nei passanti e nei turisti che incrocio in piazza Duomo, so che passano accanto forse senza sorridere e senza salutare, tanto vanno di fretta, ma anche senza disturbare. Ho fiducia nelle persone e se non conosco una via e chiedo informazioni, so che, se sanno rispondere, rispondono con gentilezza e precisione.
L’umanità tutta, merita fiducia. Non sono ingenuo. So anche che sulla terra si aggirano imbroglioni e truffatori, persone disturbate che possono disturbare, persone disoneste che dedicano il tempo a progettare furti e cattiverie, persone stupide che scrivono sui muri e rovinano la segnaletica. Sì, ci sono anche loro. Ma forse anche loro meritano attenzione perché possano essere recuperati alle regole della buona educazione e dell’onestà.
In ogni caso si deve dire che noi viviamo, sostanzialmente, di fiducia. E perché, dunque, c’è tanta gente sfiduciata?

Ricordiamo sant’Ambrogio, ricordiamo uomini e donne che hanno segnato la storia della nostra terra e ci sembra di ascoltare una provocazione, un invito che viene da volti amici, da vicende familiari, da racconti di santità e di eroismo, di una concezione seria e serena della vita, di una intraprendenza lungimirante che coltiva la sostanza piuttosto che l’immagine.
Guardiamo con ammirazione alla testimonianza di uomini del nostro tempo che sono parola ed esempio di fiducia e, primo fra tutti, a papa Francesco e raccogliamo le sue parole di incoraggiamento, di chiamata alla responsabilità.
È come se una parola corale ci raggiungesse per chiamarci: «Ci saranno ancora, a Milano, uomini e donne che si fanno avanti per seminare fiducia? Ci saranno ancora, a Milano, uomini e donne, che seminano fiducia perché meritano fiducia? Ci saranno uomini e donne che aiutano la città a cambiare aria perché sono onesti, sinceri, dediti al bene comune, affidabili nelle parole che dicono, trasparenti nel loro operare, virtuosi senza esibizionismi, costanti senza testardaggine, pronti alle responsabilità senza arrivismi? Ci saranno uomini e donne pronti a contribuire al presente e al futuro della città nella sua dimensione metropolitana praticando e promuovendo un umanesimo della fiducia, che non si curano per prima cosa di rendere attraente la città dando fiducia agli investitori, ma sono convinti che la città avrà un futuro se avrà abitanti, se avrà bambini, se custodirà rapporti di solidarietà, di buon vicinato, di corresponsabilità?».
E noi questa sera siamo qui per dire: «Sì, noi ci siamo! Sì, noi siamo desiderosi di farci carico dell’impresa di seminare fiducia, anzitutto meritando fiducia! Sì, noi ci facciamo avanti con fierezza e modestia, con una sorta di letizia insieme con un vivo senso di responsabilità. Sì, noi ci siamo, noi ci incarichiamo di essere seminatori di fiducia!».
È quindi con immensa gratitudine che riconosco in voi qui presenti, responsabili delle istituzioni regionali, provinciali, comunali, della città metropolitana, uomini e donne che si sono fatti avanti per dire: «Sì, noi ci siamo! Noi ci facciamo avanti volentieri per essere seminatori di fiducia e contrastare i mercanti che spacciano paura, scoraggiamento, depressione nella nostra terra. Noi ci facciamo avanti e diciamo alla città metropolitana e a tutta la nostra terra: potete contare su di noi. Saremo seminatori di fiducia!».

Viviamo di fiducia. Deve perciò essere arginata e contrastata l’ostinazione della paura e di chi la diffonde e ci convince che il sospetto sia più saggio della fiducia, che la solitudine sia più rassicurante dell’impegno in comunità, che il risentimento sia più motivato della gratitudine e del perdono, che sia meglio essere indifferenti e astenersi persino dal giudizio e dal voto, piuttosto che coinvolgersi e farsi avanti.
Come si può vivere con fiducia? Non basta raccogliere qualche buona notizia, non basta fare buoni propositi, non basta dire qualche parola di incoraggiamento a chi attraversa un momento particolarmente difficile. Si tratta, invece, di assumere una visione realistica della realtà che dà buone ragioni per darsi il coraggio necessario a vivere con fiducia. Un fondamento trascendente per la fiducia
La fiducia ha un fondamento irrinunciabile nel confidare in Dio. Il fondamento trascendente della vita di ogni persona e della vicenda storica è censurato come un fastidio dall’ingenua presunzione del pensiero che si presenta come critico, ma che si deve riconoscere come riduttivo. Il riferimento a Dio è stato decisivo per uomini e donne di ogni religione e di ogni credo che hanno segnato la storia dei popoli. La fiducia richiede un fondamento trascendente. Persone sagge e osservatori attenti della storia e della mentalità europee hanno riconosciuto un principio di disperazione e di sfiducia nella volontà di potenza e nella presunzione di autosufficienza che dichiarano inutile e, anzi, mortificante il riferimento a Dio.
Non sono pochi gli uomini e le donne che, animati da una fede convinta e sostenuti da una preghiera costante, hanno contribuito in modo molto significativo a infondere la fiducia necessaria perché Paesi distrutti dalla guerra potessero ricostruire condizioni di libertà, di solidarietà, di passi promettenti verso il futuro.
Per i cristiani il riferimento a Gesù, alla sua missione e al suo messaggio deve ispirare una fiducia che può essere invincibile, se la pratica cristiana non è troppo superficiale e convenzionale. Gesù accompagna i suoi discepoli anche nelle tempeste della vita con la sua presenza che infonde coraggio e fiducia: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,27; Mc 6,50).

La ragionevolezza del dialogo tra le persone ragionevoli
La fiducia, che rende possibile la collaborazione, prende forma, riconosce i limiti e le difficoltà, intravede vie praticabili nel confronto tra le persone, sia come singoli sia come rappresentanti di organismi, partiti, forme associate di presenza sociale. Chi ha responsabilità sperimenta che il dialogo, la trattativa, l’incontro, sul presupposto della stima vicendevole, rendono possibile comprendere le ragioni di chi è d’accordo e di chi si oppone. In realtà non c’è alternativa alla ricerca di una soluzione dei conflitti. Lo spettacolo desolante delle guerre con quello che comportano di distruzione di vite e di Paesi, di odio e di risentimenti che diventano inestirpabili deve convincere tutte le persone di buon senso a ostinarsi nel dialogo e nella trattativa.
Molte volte il percorso è meno arduo di quanto si possa immaginare. L’arte della mediazione, la buona disposizione a comprendersi, le motivazioni alte e nobili che animano gran parte delle persone che hanno responsabilità rendono possibile cercare la soluzione ai conflitti e soprattutto trovare risposte alle sfide. Talora la soluzione è un compromesso di cui ci si deve accontentare, talora è un passo avanti affascinante e promettente.
Chi occupa posti di responsabilità, che si tratti dell’amministrazione comunale o dell’amministrazione di un condominio, sa quanto sia talora arduo dialogare e confrontarsi: ci sono infatti dinamiche che scatenano una irragionevole aggressività. Eppure, non si può mai rinunciare in modo definitivo al dialogo, con la fiducia che la ragionevolezza, prima o poi, si riattiva anche nelle personalità meno disponibili.

Le alleanze costruttive
La responsabilità di fronte alle situazioni complesse e alle problematiche inquietanti del nostro tempo è un peso che nessuno può portare da solo, nonostante le tentazioni di protagonismo che insidiano le persone del potere e le tentazioni di delega che insidiano le persone che non vogliono fastidi.
Le alleanze costruttive sono la buona pratica che coinvolge le persone e i corpi intermedi e rende abituale condividere pensieri, risorse, attività nella logica della sussidiarietà e della solidarietà. Ciò che rende alleati per il bene non è necessariamente la condivisione del punto di partenza, delle ideologie, degli interessi, ma piuttosto la persuasione di avere sfide comuni da affrontare. Se si concorda sul fine da raggiungere in un ambito specifico si trova il modo di essere alleati e di costruire insieme una risposta.
Animati dalla fiducia, coltivando una stima vicendevole, rispettando le diverse competenze, possiamo dichiararci alleati per affrontare le situazioni in cui ci troviamo e di cui abbiamo responsabilità. Per questo mi permetto qualche parola generica di incoraggiamento per alcuni ambiti che mi sembrano particolarmente significativi. La scelta di tre ambiti è una esigenza pratica, ma l’elenco potrebbe essere molto più articolato e preciso. Non si dovrebbero, per esempio, trascurare i capitoli decisivi della sanità, del lavoro, della pace, dell’ambiente. Nella recente pubblicazione Sette lettere per Milano (Centro Ambrosiano, Milano 2023), ho fatto cenno ad ambiti di grande importanza per la vita della città e del territorio in genere e ho riportato anche qualche riflessione provocando il sistema bancario a essere promotore di sviluppo, dando fiducia, attraverso il credito, a progetti e iniziative promettenti per tutta la comunità.

La crisi demografica
Se c’è un aspetto della nostra città e società che tutti riconoscono è che diventa una società vecchia, una città in cui i giovani non si trovano, con uno stile di vita poco disponibile per chi desidera avere figli.
La fiducia di persone che hanno ruoli di responsabilità deve motivare ad affrontare insieme la questione, a investire con coraggio su una politica della casa, della maternità, della scuola. Perché ci sia una mentalità aperta alla generazione e desiderosa di futuro, quindi di figli e figlie, non basta creare condizioni favorevoli, ma è necessaria una vera “rivoluzione culturale”. D’altra parte, la responsabilità degli amministratori è creare le condizioni favorevoli, nella speranza che una rivoluzione culturale salvi la nostra società dal declino, che ora appare inevitabile. Noi abbiamo fiducia che si possano aprire nuove stagioni per questa vecchia, saggia, ricca, sterile Europa.

La problematica educativa
I rapporti tra la generazione adulta e la generazione giovanile sembrano interrotti. Sembra che gli adulti non riescano più a trasmettere alle generazioni giovanili i valori in cui credono, i comportamenti raccomandabili, la sapienza conseguita con l’esperienza. In realtà, non è impossibile e forse gli adulti devono interrogare se stessi, per sapere se hanno qualche cosa da insegnare, se hanno una testimonianza da offrire, se custodiscono valori in cui credono al punto di ispirare il loro comportamento.
Chi ha responsabilità, in ogni ambito della vita, deve avere motivi di fiducia: non un ingenuo ottimismo, ma una determinazione a stabilire rapporti, a propiziare incontri, ad ascoltare e a farsi ascoltare. Le alleanze educative sono la via da percorrere perché non si spenga la speranza in coloro che custodiscono il futuro della nostra terra e della nostra società e si risvegli in tutti gli adolescenti e i giovani la persuasione che la vita è una vocazione e che il futuro è una responsabilità da affrontare, non una minaccia da temere.

Il fattore “migrazioni”
Le migrazioni sono interpretate come un inarrestabile fenomeno globale. Luoghi comuni e sentimenti diffusi, informazioni parziali e ideologie tendono a ridurre i migranti ai profughi, folla indistinta di poveracci che sono da temere come invasori o da accogliere come miserabili bisognosi di tutto.
In realtà, si tratta di un fenomeno complesso studiato e analizzato in molti modi. La tragedia delle guerre che devastano molti Paesi del mondo è tra le ragioni più drammatiche delle migrazioni. La difficoltà che l’Europa sperimenta nell’affrontare il tema è un segno preoccupante. La questione, infatti, è ineludibile per molti Paesi del continente africano, asiatico, americano. L’Europa potrebbe avere la fierezza e la genialità di una via più sapiente e lungimirante. Le nazioni d’Europa hanno risorse e competenze per incisive opere di pace, per promuovere sviluppo umano e alleanze internazionali, per contribuire a rendere possibile il diritto di restare e il diritto di partire e contrastare quel migrare disperato che espone a inimmaginabili sofferenze. Noi vorremmo essere cittadini di una Europa protagonista nell’opera di pace e di sviluppo dei popoli. Perciò sentiamo il dovere di vivere anche l’appuntamento elettorale della prossima primavera con responsabile partecipazione.
Coloro che hanno responsabilità sono chiamati ad affrontare con fiducia il fattore migrazioni per elaborare pensieri e non solo emozioni e paure, per propiziare l’incontro tra persone che, conoscendosi, possano stimarsi e aiutarsi, mentre temendosi possono soltanto evitarsi e respingersi.

Per ritornare alle pagine di Manzoni, ci può ispirare l’atto di compassione e di generosità di Renzo, fuggiasco:
Nell’uscire, vide, accanto alla porta, che quasi v’inciampava, sdraiate in terra, più che sedute, due donne, una attempata, un’altra più giovine, con un bambino… e ritto, vicino a loro, un uomo. Tutt’e tre stesero la mano verso colui [Renzo] che usciva [dall’osteria] con passo franco, e con l’aspetto rianimato: nessuno parlò. «La c’è la Provvidenza!» disse Renzo; e, cacciata subito la mano in tasca, la votò di quei pochi soldi; li mise nella mano che si trovò più vicina, e riprese la sua strada. La refezione e l’opera buona (giacché siam composti di anima e di corpo) avevan riconfortati e rallegrati tutti i suoi pensieri. Certo, dall’essersi così spogliato degli ultimi danari, gli era venuto più di confidenza per l’avvenire, che non gliene avrebbe dato il ritrovarne dieci volte tanti. Perché, se a sostenere in quel giorno que’ poverini che mancavano sulla strada, la provvidenza aveva tenuti in serbo proprio gli ultimi quattrini di un estraneo, fuggitivo, incerto anche lui del come vivrebbe; chi poteva credere che volesse poi lasciare in secco colui del quale s’era servita a ciò, e a cui aveva dato un sentimento così vivo di sé stessa, così efficace, così risoluto?
Vale la pena di ascoltare ancora la parola programmatica con cui san Giovanni Paolo II ha inaugurato il suo pontificato:
Non abbiate paura!
Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!
Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!
Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna.
In conclusione, riconosciamo che la fiducia è la virtù doverosa di coloro che interpretano la vita come una vocazione. È un dovere per noi tutti e in modo speciale per coloro che hanno responsabilità per il bene comune. La fiducia è un dono che chiede di essere reciprocamente offerto. Significa: volgere lo sguardo con benevolenza verso l’altro. Fidarsi, avvicinandosi all’altro, mettere nelle mani dell’altro la propria speranza. Esprimere gratitudine, credere alla promessa che l’altro è per te.
E io ringrazio tutti voi che siete qui presenti e tutti coloro che voi rappresentate, e ci sentiamo uniti nel dire: «Eccoci, noi ci facciamo avanti. Saremo seminatori di fiducia!».
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