Don Giovanni Minzoni cent’anni dopo
Articolo di Lorenzo Gaiani pubblicato da Il Sicomoro.
Il 23 agosto 1923, a meno di un anno dalla Marcia su Roma e dall’avvento al potere del fascismo, l’arciprete di Argenta don Giovanni Minzoni venne bastonato a morte da una squadraccia fascista.
Nato nel 1885 e ordinato prete nel 1909, don Minzoni era pienamente partecipe dei fermenti religiosi, culturali e sociali del suo tempo, che avevano trovato impulso nell’ enciclica di Leone XIII Rerum novarum, la quale a sua volta faceva sintesi di un lavorio che veniva da lontano. Giunto ad Argenta come cappellano, don Minzoni scelse di iscriversi e di addottorarsi presso la Scuola sociale fondata a Bergamo sotto gli auspici del Vescovo Radini Tedeschi, scegliendo come argomento della sua tesi finale la questione, all’epoca di indubbia modernità, del contrasto fra il Cristo della fede ed il Gesù storico. Chiamato alle armi come cappellano militare, ebbe la medaglia d’argento al valor militare per il suo ruolo accanto agli Arditi nella battaglia del Piave del giugno 1918. Rientrato ad Argenta si dedicò anima e corpo all’attività pastorale e sociale, sia nel campo dell’educazione della gioventù sia in quello della promozione sociale dei lavoratori, facendo del movimento cattolico una minoranza attiva di fronte alla preponderanza socialista e alla progressiva ascesa del movimento fascista, che fin dal 1921 aveva conquistato il potere a livello locale grazie alla pratica diffusa della violenza predicata dal ras ferrarese Italo Balbo. Don Minzoni maturò la convinzione che la difesa dei valori umani e cristiani potesse avvenire solo sulla base del sacrificio personale, arrivando a concepire un’avversione per il fascismo come espressione di violenza brutale e di dominio sulle coscienze che era inusuale nel mondo cattolico di allora. I fascisti cercarono di portarlo dalla loro parte, offrendogli, in nome del suo passato militare, la posizione di cappellano della Milizia, ma don Giovanni rifiutò, ed anzi esplicitò la sua adesione al PPI dopo che al Congresso di Torino della primavera del 1923, don Sturzo ebbe esplicitata la rottura dei rapporti col fascismo cui fece seguito l’estromissione dei rappresentanti popolari dal primo Governo Mussolini, il che ovviamente irritò ulteriormente i fascisti locali. La bastonatura -poi fatale- consigliata da Balbo, fu eseguita da due sgherri fatti venire da fuori: l’intenzione, a quanto sembra, non era quella di uccidere ma ovviamente ciò non ha importanza né sotto il profilo storico né sotto quello pena- le. La memoria di don Giovanni è uno stimolo, un appello per noi tutti: la secolarizza- zione ha evidentemente inciso anche sulle forme di impegno sociale dei credenti, e dopo cinquant’anni di egemonia politica di un partito di ispirazione cristiana ci troviamo oggi in una fase di diaspora che può preludere o all’insignificanza o a una capacità di rinascita attraverso canali nuovi ed inediti. Nell’omelia per il centenario dell’omicidio ad Argenta il card. Matteo Zuppi ha detto che “Per don Minzoni amore significava impegno di annuncio del Vangelo, legame con la sua comunità, ‘battaglie’ sociali per proteggere le persone, a partire dai più poveri. Egli fu martire dell’amore per la sua comunità, parroco senza riserve che volle una comunità parrocchiale aperta e sbilanciata sulla carità. Prendeva sul serio la parola del Vangelo e l’Eucaristia, la preghiera quotidiana che lo sosteneva e le sfide sociali che lo coinvolgevano, perché è proprio vero che chi prega “supera la paura e prende in mano il proprio futuro” “. Diciamo che anche oggi la città dell’uomo esige cristiani così.
Il 23 agosto 1923, a meno di un anno dalla Marcia su Roma e dall’avvento al potere del fascismo, l’arciprete di Argenta don Giovanni Minzoni venne bastonato a morte da una squadraccia fascista.
Nato nel 1885 e ordinato prete nel 1909, don Minzoni era pienamente partecipe dei fermenti religiosi, culturali e sociali del suo tempo, che avevano trovato impulso nell’ enciclica di Leone XIII Rerum novarum, la quale a sua volta faceva sintesi di un lavorio che veniva da lontano. Giunto ad Argenta come cappellano, don Minzoni scelse di iscriversi e di addottorarsi presso la Scuola sociale fondata a Bergamo sotto gli auspici del Vescovo Radini Tedeschi, scegliendo come argomento della sua tesi finale la questione, all’epoca di indubbia modernità, del contrasto fra il Cristo della fede ed il Gesù storico. Chiamato alle armi come cappellano militare, ebbe la medaglia d’argento al valor militare per il suo ruolo accanto agli Arditi nella battaglia del Piave del giugno 1918. Rientrato ad Argenta si dedicò anima e corpo all’attività pastorale e sociale, sia nel campo dell’educazione della gioventù sia in quello della promozione sociale dei lavoratori, facendo del movimento cattolico una minoranza attiva di fronte alla preponderanza socialista e alla progressiva ascesa del movimento fascista, che fin dal 1921 aveva conquistato il potere a livello locale grazie alla pratica diffusa della violenza predicata dal ras ferrarese Italo Balbo. Don Minzoni maturò la convinzione che la difesa dei valori umani e cristiani potesse avvenire solo sulla base del sacrificio personale, arrivando a concepire un’avversione per il fascismo come espressione di violenza brutale e di dominio sulle coscienze che era inusuale nel mondo cattolico di allora. I fascisti cercarono di portarlo dalla loro parte, offrendogli, in nome del suo passato militare, la posizione di cappellano della Milizia, ma don Giovanni rifiutò, ed anzi esplicitò la sua adesione al PPI dopo che al Congresso di Torino della primavera del 1923, don Sturzo ebbe esplicitata la rottura dei rapporti col fascismo cui fece seguito l’estromissione dei rappresentanti popolari dal primo Governo Mussolini, il che ovviamente irritò ulteriormente i fascisti locali. La bastonatura -poi fatale- consigliata da Balbo, fu eseguita da due sgherri fatti venire da fuori: l’intenzione, a quanto sembra, non era quella di uccidere ma ovviamente ciò non ha importanza né sotto il profilo storico né sotto quello pena- le. La memoria di don Giovanni è uno stimolo, un appello per noi tutti: la secolarizza- zione ha evidentemente inciso anche sulle forme di impegno sociale dei credenti, e dopo cinquant’anni di egemonia politica di un partito di ispirazione cristiana ci troviamo oggi in una fase di diaspora che può preludere o all’insignificanza o a una capacità di rinascita attraverso canali nuovi ed inediti. Nell’omelia per il centenario dell’omicidio ad Argenta il card. Matteo Zuppi ha detto che “Per don Minzoni amore significava impegno di annuncio del Vangelo, legame con la sua comunità, ‘battaglie’ sociali per proteggere le persone, a partire dai più poveri. Egli fu martire dell’amore per la sua comunità, parroco senza riserve che volle una comunità parrocchiale aperta e sbilanciata sulla carità. Prendeva sul serio la parola del Vangelo e l’Eucaristia, la preghiera quotidiana che lo sosteneva e le sfide sociali che lo coinvolgevano, perché è proprio vero che chi prega “supera la paura e prende in mano il proprio futuro” “. Diciamo che anche oggi la città dell’uomo esige cristiani così.