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Parlare di pace non è un patto con il diavolo

Written by Romano Prodi.

Intervista di Avvenire a Romano Prodi.

Ai saluti finali, Romano Prodi si concede una battuta, amara: «Vorrei tanto che questa intervista non uscisse mai. Vorrebbe dire che tutto si è magicamente risolto». Invece, così non è. Come prevedibile e previsto, la guerra si protrae stancamente (ma sempre tragicamente, fra vittime innocenti e massacri) da un anno e mezzo esatto, sempre meno presente nei discorsi degli italiani e negli spazi sui mass-media.
La novità, semmai, è nelle sfumature, oggi più attenuate, di chi dalla prima ora ha usato toni solo ed esclusivamente bellicisti. La realtà dice invece che il gran dispiego di armi e munizioni a sostegno di Kiev sta portando mutamenti minori di quelli attesi e sperati. Il patto con il Prof, ex presidente del Consiglio ed ex capo della Commissione Europea, è di toccare un unico argomento: la guerra, senza fine, sferrata dalla Russia all’Ucraina. E la pace da costruire per porvi fine. Comunque e contro ogni evidenza. Perché, confida Prodi (che sta chiudendo questa sua estate dolorosa passando qualche giorno in Sicilia con quella che definisce «la mia tribù di 18 tra figli e nipoti»), «la mia preoccupazione è la stessa del 24 febbraio 2022, ma l’intensità del dolore è ogni giorno più forte».
Professore, oggi siamo più vicini o più lontani a una prospettiva di pace?
Forse più lontani. Anche perché le vantate controffensive hanno dato luogo soltanto a una guerra di trincea che comporta una moltiplicazione delle sofferenze, senza né vincitori né vinti. Come ha detto domenica scorsa il cardinal Matteo Zuppi al Meeting, avremmo tanto bisogno di un grande intervento di pace della Ue. Ma le divisioni interne lo impediscono. E allora ci ritroviamo in guerra e senza un’evidente mediazione.
Quella della Santa Sede, con il prossimo viaggio del cardinal Zuppi a Pechino, cosa è?
Su input di papa Francesco, il cardinale si appresta giustamente a visitare, dopo Ucraina, Russia e Usa, il quarto Paese protagonista di questo frangente della storia: la Cina, appunto. Non la si può definire una vera mediazione di pace. Ma il grande contenuto di umanità apportato dal cardinale è certamente l’unica premessa possibile per allargare la speranza di pace, finora troppo flebile.
Come si può uscire da questo conflitto nel cuore dell’Europa?
Dispiace essere monotono, ma non ho da cambiare una sillaba rispetto a quel che dissi il primo giorno: cioè che non vi sarebbe stata nessuna possibilità senza un’intesa fra Stati Uniti e Cina, e così è ancora oggi. Bisogna riconoscere che il re è nudo e prendere atto della superiorità americana e cinese nel mondo: la pace la fa chi comanda.
Non sarebbe interesse di tutti la pace?
Sì, dal punto di vista politico e anche economico. Guardi cosa succede: questa situazione ha diminuito le prospettive di crescita per tutti i Paesi e ha reso molto più difficile l’elaborazione di una politica per l’Africa e le aree più povere del pianeta. Ogni guerra produce tragedie infinite e ogni giorno rischiamo la possibilità di un’escalation. Anche se molti analisti i rischi di vera tensione li vedono più ancora a Taiwan, dove appunto è in gioco la Cina.
In questi 18 mesi, quando si è evocata la pace si è sempre stati tacciati di «posizioni filo-russe» o «filo-putiniane». E’ sbagliato parlare di pace?
La pace ha sempre la sua validità nella storia. Uno degli errori commessi finora è stato proprio quello di assimilare questa parola a una sorta di patto col diavolo. E si è persino cercato di definire ingenui coloro che parlano di pace. Il nostro obiettivo deve essere quello di riflettere su quali sono le condizioni per una possibile pace giusta e duratura.
Ecco, le condizioni, nodo difficilissimo da affrontare per ogni mediatore.
Ci sono infinite ipotesi che si possono prendere in considerazione e che comprendono tutti gli interventi possibili che in ogni caso debbono essere condotti sotto una forte supervisione internazionale. Il problema è di metodo: non occorre partire da un’idea e cercare di imporre quella, ma bisogna sedersi a un tavolo e valutare la compatibilità fra di loro dei vari interventi, pur distinguendo sempre fra aggressore e aggredito. Anni fa, l’esempio virtuoso che citavo sempre, era l’Alto Adige con l’accordo De Gasperi-Gruber. Ma oggi, coi territori ancora invasi, ha una validità minore. Nella storia ci sono punti di partenza che sembrano invalicabili, ma nulla lo è. Si deve tener sempre presente che la situazione in cui stiamo, intanto, è la peggiore possibile.
Perché l’Europa non riesce a favorire un processo di pace?
Sull’Europa io ho sempre avuto idee molto semplici e per questo, forse, difficili da realizzare. Ha bisogno di dare un assetto definitivo ai propri confini. E i Paesi balcanici appartengono all’Europa. E’ chiaro che questo comporta il dover fare una riforma istituzionale dell’Unione, perché già oggi i Paesi membri sono troppi e vanno promosse perciò le cooperazioni rafforzate e le maggioranze qualificate.
E come regolarsi con gli Stati "limitrofi", quelli che possono creare problematiche maggiori?
Sin dal 2002 insisto sulla via che definii di un “anello dei Paesi amici” da stringere con tutti gli Stati limitrofi, che potrebbero trattare accordi bilaterali con l’Unione, differenti l’uno dall’altro, per valorizzare il proprio singolo ruolo in modo da creare una politica di vicinato che garantisca stabilità. L’Europa ha bisogno di essere diversa dalle altre potenze mondiali proprio per la diversità della storia attraverso cui ci siamo formati, passando già per due guerre tragicissime. Per questo non capisco perché la Francia abbia, nel recente passato, bloccato i negoziati per l’adesione all’Unione Europea dell’Albania e della Macedonia del Nord. Noi abbiamo la necessità, non più rinviabile, di dotarci di una vera politica estera e di una difesa comuni. Eppure è possibile fare come con l’euro, quando si partì solo in 12 Stati, e successivamente è stato allargato.
Vuole dire che esiste in qualche modo un “nodo Francia” nell’evoluzione del processo europeo?
Sì. Tutto questo lo si potrebbe fare in un giorno se solo la Francia mettesse a disposizione dell’Europa l’arma nucleare e il suo diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Invece non lo fa, rimanendo sola davanti ai suoi guai crescenti con i Paesi africani dell’ex impero.
E questo porta allo scarso peso dell’Europa?
L’Europa deve attrezzarsi invece per un ruolo futuro. Lo storico, importante riarmo della Germania cambierà per sempre la natura del nostro continente, che finora è stato guidato dal motore franco-tedesco con un ruolo non così marginale – in fondo - dell’Italia. “Bon gré” o “mal gré”, di questo passo l’Europa in futuro avrà invece un unico leader: la Germania. Non lo può essere il Regno Unito, uscito e oggi pentito della Brexit. E non lo può più essere la Francia. Mi viene in mente quella definizione sugli ex imperi, che sono come un autista che guida guardando solo lo specchietto retrovisore…
Le prossime elezioni americane, con una probabile nuova sfida fra Joe Biden e Donald Trump, possono influire e condizionare discorsi di pace?
Influiranno certamente, ma non so dirle come. Certo quando si entrerà nel vivo della campagna elettorale Usa, grosso modo dal prossimo autunno, parlare di pace diventerà ancora più difficile. Il tempo è poco. Una finestra è adesso, bisognerebbe sbrigarsi. Altrimenti ci attende un altro anno almeno di guerra, lutti e devastazioni.
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