Il futuro della Ue è arrivato a un bivio
Articolo della Stampa.
L'ex presidente del consiglio ed ex presidente della Bce, Mario Draghi, chiede di accelerare l'integrazione Ue non più con un metodo «tecnocratico» come nel caso della nascita dell'euro che «ha avuto successo» ma attraverso un «genuino processo politico dove l'obiettivo finale sia esplicito sin dall'inizio» e «sostenuto dai votanti nella forma di un cambio dei trattati europei».
Parlando alla Martin Feldstein Lecture a Cambridge (Massachusetts) ha sottolineato come questa strada sia «fallita a metà degli anni 2000 (con il no dei referendum in Francia e Olanda alla costituzione ndr) ma «ora c'è maggiore speranza».
Ecco una sintesi della Martin Feldstein Lecture 2023 tenuta dall’ex premier ed già presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, durante la conferenza estiva del National Bureau of Economic Research di Cambridge, Massachusetts.
La domanda più importante che dobbiamo porci è se l’Europa possa aprire una strada diversa in direzione dell’unione fiscale.
La Storia ci insegna che di rado i bilanci comuni sono stati creati come appendici all’integrazione monetaria, bensì per garantire obiettivi specifici nell’interesse comune. Fino a oggi l’Europa non ha mai dovuto far fronte a così tanti obiettivi sovranazionali, che non possono essere perseguiti dai singoli Paesi. Stiamo vivendo una serie di importantissime transizioni che richiedono ingenti investimenti comuni. La Commissione Europea ha fissato in più di 600 miliardi l’anno, da qui al 2030, il fabbisogno degli investimenti per la transizione verde. Il settore pubblico dovrà finanziare da un quarto a un quinto di questa cifra.
Stiamo vivendo anche una transizione geopolitica per la quale non possiamo più fare affidamento su Paesi poco amichevoli nei nostri confronti per i nostri approvvigionamenti basilari. Ciò comporta un considerevole cambiamento di indirizzo degli investimenti per aumentare le capacità produttive in patria o nei Paesi partner.
Nel corso della Storia dell’Ue, inoltre, i suoi valori fondanti di pace, democrazia e libertà non sono mai stati messi alla prova come adesso dalla guerra in Ucraina. Una delle prime conseguenze di ciò è che dobbiamo avviare un’altra transizione e dirigerci verso una Difesa europea comune molto più forte, se intendiamo rispettare il target delle spese militari dei Paesi della Nato pari al due per cento del Pil.
Così com’è, però, la compagine istituzionale europea non è adatta per queste transizioni, come evidenzia un paragone con gli Stati Uniti. Negli Usa possiamo constatare una maggiore attenzione per la cosiddetta “arte di governo”, in cui la spesa federale, le modifiche delle regolamentazioni e gli incentivi fiscali si allineano per perseguire gli obiettivi strategici fissati. L’Inflation Reduction Act, per esempio, accelererà simultaneamente la spesa per la transizione verde, attirerà investimenti esteri e ristrutturerà le catene di approvvigionamento a favore dell’America.
L’Europa, all'opposto, è priva di una strategia equivalente che integri la spesa a livello Ue, le direttive sui sussidi pubblici e i piani fiscali nazionali, come dimostra l’esempio del clima.
Una volta scaduto il Recovery Plan, non c’è una proposta per uno strumento federale in sua sostituzione, atto a portare avanti la necessaria spesa per il clima. Le normative sugli aiuti pubblici dei Paesi dell’Ue limitano la capacità delle autorità nazionali di perseguire attivamente una politica industriale verde.
Nell’inerzia, si rischia seriamente di non rispettare i nostri obiettivi climatici e, probabilmente, di perdere la nostra industria di base a beneficio di regioni che hanno meno vincoli. Questo lascia spazio a due opzioni.
Primo, è possibile allentare le normative sugli aiuti di stato e rilassare le regolamentazioni fiscali per assumerci l’onere di una spesa per gli investimenti in pieno. Così facendo, però, si creerà frammentazione, dato che i Paesi con un maggiore margine di bilancio potranno spendere più degli altri. Come abbiamo appreso dall’Accordo di Deauville, la frammentazione non ha senso quando l’obiettivo sovranazionale è tale che i singoli Paesi non possono raggiungerlo da soli. Proprio come l’euro non può essere stabile se vengono meno ingenti parti dell’unione monetaria, così il cambiamento del clima non può essere risolto se un Paese riduce le sue emissioni di anidride carbonica più rapidamente degli altri.
Questo significa che non abbiamo a disposizione che un’unica opzione, la seconda: cogliere l’occasione per ridefinire l’Ue, la sua struttura fiscale e il suo processo decisionale e renderli più adeguati alle sfide che ci troviamo davanti.
La sfida più importante per la zona euro è che per perseguire molteplici obiettivi diversi stiamo facendo affidamento su regolamentazioni fiscali a livello nazionale.
Tenuto conto del ruolo fondamentale di stabilizzazione dei bilanci nazionali, abbiamo bisogno di regolamentazioni che permettano alle politiche controcicliche di reagire agli shock locali. Abbiamo bisogno di garantire l’affidabilità a medio termine delle politiche fiscali nazionali in un contesto post-pandemico caratterizzato da un indebitamento elevatissimo. Garantire la credibilità fiscale implica necessariamente per le regolamentazioni di essere più automatiche e che vi sia meno discrezionalità. Poiché è impossibile mettere a punto regolamentazioni adatte a tutte le situazioni che si presenteranno in futuro, un maggiore automatismo vincolerà sempre la capacità dei governi di reagire a shock imprevisti.
Nello stesso modo, regolamentazioni accettabili richiedono aggiustamenti su orizzonti temporali non troppo lunghi. Il tipo di investimento che ci occorre oggi, però, implica impegni di spesa a lungo termine, molti dei quali proseguiranno ben oltre l’arco di vita dei governi che li sottoscrivono. La Commissione Europea ha cercato di risolvere questi compromessi proponendo una grande attenzione alla regola di spesa collegata alla traiettoria debitoria a medio termine di un Paese.
Poiché costituisce una decentralizzazione dei poteri al centro, l’automatismo normativo può funzionare soltanto se è eguagliato da un livello di spesa maggiore dal centro. Questo è ciò che possiamo vedere negli Stati Uniti, dove la devolution dei poteri nel governo federale rende possibile norme di bilancio perlopiù inflessibili per gli stati.
La zona euro probabilmente non potrà mai replicare una struttura del genere, tenuto conto di quanto sono più grandi i bilanci nazionali rispetto a quelli degli stati americani. Vi sono buoni motivi, tuttavia, per adottarne alcuni elementi.
Lo spazio fiscale asimmetrico europeo – dove alcuni Paesi sono in grado di spendere molto più di altri – è sprecato, in sostanza, quando si tratta di obiettivi condivisi come il clima e la Difesa. Se alcuni Paesi possono spendere liberamente a favore di questi obiettivi ma altri no, l’impatto di tutte le spese sarà in ogni caso inferiore, perché nessun Paese sarà in grado di arrivare alla sicurezza climatica o militare.
Una maggiore emissione di debito comune per finanziare questo investimento in teoria potrebbe espandere lo spazio fiscale collettivo che abbiamo a disposizione. Questo significa, quanto meno, che dovremmo garantire che gli stati membri più indebitati usino lo spazio fiscale per creare una spesa comune che migliori le loro prospettive.
Una possibilità, dunque, consiste nel procedere – come abbiamo fatto finora – con l’integrazione tecnocratica, apportando modifiche tecniche e sperando che le modifiche politiche seguano quanto prima. In definitiva, nel caso dell’euro questo approccio funzionò e l’Ue ne è uscita rafforzata. I costi di quella impresa, però, sono stati elevati, i progressi lenti.
Un’altra possibilità consiste nell’andare avanti con un iter politico vero e proprio, il cui fine sia chiaro dall’inizio e sia sottoscritto da tutti sotto forma di modifica del Trattato europeo. Questa strada non portò a nulla alla metà degli anni Duemila, e da allora i policymaker si sono astenuti dall’imboccarla un’altra volta. Tuttavia, io credo che oggi vi siano maggiori speranze di successo.
Quando l’Ue si allargherà per includere i Balcani e l’Ucraina, sarà indispensabile riaprire i Trattati per garantire di non ripetere gli errori commessi in passato espandendo la nostra periferia senza rafforzare il centro.
Il punto di partenza di qualsiasi cambiamento del Trattato in futuro dovrà essere il riconoscimento di un numero in costante incremento di obiettivi condivisi e la necessità di finanziarli insieme, il che richiede una forma diversa di rappresentatività e di processo decisionale centralizzato. A quel punto, diventerà più realistico incamminarci verso regolamentazioni più automatiche.
Io credo che oggi gli europei siano più pronti di vent’anni fa a imboccare questa strada, perché in verità hanno a disposizione soltanto tre opzioni: la paralisi, l’uscita dall’Ue o l’integrazione.
Dai sondaggi emerge chiaramente che i cittadini si sentono sempre più minacciati dall’esterno, non ultimo da quando è iniziata l’invasione russa. E questo rende la paralisi sempre più inaccettabile.
La Brexit ha tradotto in realtà le motivazioni teoriche a favore dell’uscita dell’Ue e, se i vantaggi di questa scissione appaiono ancora estremamente incerti, i costi sono fin troppo evidenti.
Se dunque la paralisi e l’uscita dall’Ue appaiono poco allettanti, i costi relativi di un’integrazione ulteriore appaiono minori.
Non potremo creare la capacità operativa dell’Ue senza rivedere l’assetto fiscale europeo. In conclusione, la guerra in Ucraina ha ridefinito profondamente la nostra Unione, non soltanto nella sua appartenenza o nei suoi obiettivi condivisi, ma anche nella consapevolezza che ha creato: il nostro futuro è interamente nelle nostre mani.
L'ex presidente del consiglio ed ex presidente della Bce, Mario Draghi, chiede di accelerare l'integrazione Ue non più con un metodo «tecnocratico» come nel caso della nascita dell'euro che «ha avuto successo» ma attraverso un «genuino processo politico dove l'obiettivo finale sia esplicito sin dall'inizio» e «sostenuto dai votanti nella forma di un cambio dei trattati europei».
Parlando alla Martin Feldstein Lecture a Cambridge (Massachusetts) ha sottolineato come questa strada sia «fallita a metà degli anni 2000 (con il no dei referendum in Francia e Olanda alla costituzione ndr) ma «ora c'è maggiore speranza».
Ecco una sintesi della Martin Feldstein Lecture 2023 tenuta dall’ex premier ed già presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, durante la conferenza estiva del National Bureau of Economic Research di Cambridge, Massachusetts.
La domanda più importante che dobbiamo porci è se l’Europa possa aprire una strada diversa in direzione dell’unione fiscale.
La Storia ci insegna che di rado i bilanci comuni sono stati creati come appendici all’integrazione monetaria, bensì per garantire obiettivi specifici nell’interesse comune. Fino a oggi l’Europa non ha mai dovuto far fronte a così tanti obiettivi sovranazionali, che non possono essere perseguiti dai singoli Paesi. Stiamo vivendo una serie di importantissime transizioni che richiedono ingenti investimenti comuni. La Commissione Europea ha fissato in più di 600 miliardi l’anno, da qui al 2030, il fabbisogno degli investimenti per la transizione verde. Il settore pubblico dovrà finanziare da un quarto a un quinto di questa cifra.
Stiamo vivendo anche una transizione geopolitica per la quale non possiamo più fare affidamento su Paesi poco amichevoli nei nostri confronti per i nostri approvvigionamenti basilari. Ciò comporta un considerevole cambiamento di indirizzo degli investimenti per aumentare le capacità produttive in patria o nei Paesi partner.
Nel corso della Storia dell’Ue, inoltre, i suoi valori fondanti di pace, democrazia e libertà non sono mai stati messi alla prova come adesso dalla guerra in Ucraina. Una delle prime conseguenze di ciò è che dobbiamo avviare un’altra transizione e dirigerci verso una Difesa europea comune molto più forte, se intendiamo rispettare il target delle spese militari dei Paesi della Nato pari al due per cento del Pil.
Così com’è, però, la compagine istituzionale europea non è adatta per queste transizioni, come evidenzia un paragone con gli Stati Uniti. Negli Usa possiamo constatare una maggiore attenzione per la cosiddetta “arte di governo”, in cui la spesa federale, le modifiche delle regolamentazioni e gli incentivi fiscali si allineano per perseguire gli obiettivi strategici fissati. L’Inflation Reduction Act, per esempio, accelererà simultaneamente la spesa per la transizione verde, attirerà investimenti esteri e ristrutturerà le catene di approvvigionamento a favore dell’America.
L’Europa, all'opposto, è priva di una strategia equivalente che integri la spesa a livello Ue, le direttive sui sussidi pubblici e i piani fiscali nazionali, come dimostra l’esempio del clima.
Una volta scaduto il Recovery Plan, non c’è una proposta per uno strumento federale in sua sostituzione, atto a portare avanti la necessaria spesa per il clima. Le normative sugli aiuti pubblici dei Paesi dell’Ue limitano la capacità delle autorità nazionali di perseguire attivamente una politica industriale verde.
Nell’inerzia, si rischia seriamente di non rispettare i nostri obiettivi climatici e, probabilmente, di perdere la nostra industria di base a beneficio di regioni che hanno meno vincoli. Questo lascia spazio a due opzioni.
Primo, è possibile allentare le normative sugli aiuti di stato e rilassare le regolamentazioni fiscali per assumerci l’onere di una spesa per gli investimenti in pieno. Così facendo, però, si creerà frammentazione, dato che i Paesi con un maggiore margine di bilancio potranno spendere più degli altri. Come abbiamo appreso dall’Accordo di Deauville, la frammentazione non ha senso quando l’obiettivo sovranazionale è tale che i singoli Paesi non possono raggiungerlo da soli. Proprio come l’euro non può essere stabile se vengono meno ingenti parti dell’unione monetaria, così il cambiamento del clima non può essere risolto se un Paese riduce le sue emissioni di anidride carbonica più rapidamente degli altri.
Questo significa che non abbiamo a disposizione che un’unica opzione, la seconda: cogliere l’occasione per ridefinire l’Ue, la sua struttura fiscale e il suo processo decisionale e renderli più adeguati alle sfide che ci troviamo davanti.
La sfida più importante per la zona euro è che per perseguire molteplici obiettivi diversi stiamo facendo affidamento su regolamentazioni fiscali a livello nazionale.
Tenuto conto del ruolo fondamentale di stabilizzazione dei bilanci nazionali, abbiamo bisogno di regolamentazioni che permettano alle politiche controcicliche di reagire agli shock locali. Abbiamo bisogno di garantire l’affidabilità a medio termine delle politiche fiscali nazionali in un contesto post-pandemico caratterizzato da un indebitamento elevatissimo. Garantire la credibilità fiscale implica necessariamente per le regolamentazioni di essere più automatiche e che vi sia meno discrezionalità. Poiché è impossibile mettere a punto regolamentazioni adatte a tutte le situazioni che si presenteranno in futuro, un maggiore automatismo vincolerà sempre la capacità dei governi di reagire a shock imprevisti.
Nello stesso modo, regolamentazioni accettabili richiedono aggiustamenti su orizzonti temporali non troppo lunghi. Il tipo di investimento che ci occorre oggi, però, implica impegni di spesa a lungo termine, molti dei quali proseguiranno ben oltre l’arco di vita dei governi che li sottoscrivono. La Commissione Europea ha cercato di risolvere questi compromessi proponendo una grande attenzione alla regola di spesa collegata alla traiettoria debitoria a medio termine di un Paese.
Poiché costituisce una decentralizzazione dei poteri al centro, l’automatismo normativo può funzionare soltanto se è eguagliato da un livello di spesa maggiore dal centro. Questo è ciò che possiamo vedere negli Stati Uniti, dove la devolution dei poteri nel governo federale rende possibile norme di bilancio perlopiù inflessibili per gli stati.
La zona euro probabilmente non potrà mai replicare una struttura del genere, tenuto conto di quanto sono più grandi i bilanci nazionali rispetto a quelli degli stati americani. Vi sono buoni motivi, tuttavia, per adottarne alcuni elementi.
Lo spazio fiscale asimmetrico europeo – dove alcuni Paesi sono in grado di spendere molto più di altri – è sprecato, in sostanza, quando si tratta di obiettivi condivisi come il clima e la Difesa. Se alcuni Paesi possono spendere liberamente a favore di questi obiettivi ma altri no, l’impatto di tutte le spese sarà in ogni caso inferiore, perché nessun Paese sarà in grado di arrivare alla sicurezza climatica o militare.
Una maggiore emissione di debito comune per finanziare questo investimento in teoria potrebbe espandere lo spazio fiscale collettivo che abbiamo a disposizione. Questo significa, quanto meno, che dovremmo garantire che gli stati membri più indebitati usino lo spazio fiscale per creare una spesa comune che migliori le loro prospettive.
Una possibilità, dunque, consiste nel procedere – come abbiamo fatto finora – con l’integrazione tecnocratica, apportando modifiche tecniche e sperando che le modifiche politiche seguano quanto prima. In definitiva, nel caso dell’euro questo approccio funzionò e l’Ue ne è uscita rafforzata. I costi di quella impresa, però, sono stati elevati, i progressi lenti.
Un’altra possibilità consiste nell’andare avanti con un iter politico vero e proprio, il cui fine sia chiaro dall’inizio e sia sottoscritto da tutti sotto forma di modifica del Trattato europeo. Questa strada non portò a nulla alla metà degli anni Duemila, e da allora i policymaker si sono astenuti dall’imboccarla un’altra volta. Tuttavia, io credo che oggi vi siano maggiori speranze di successo.
Quando l’Ue si allargherà per includere i Balcani e l’Ucraina, sarà indispensabile riaprire i Trattati per garantire di non ripetere gli errori commessi in passato espandendo la nostra periferia senza rafforzare il centro.
Il punto di partenza di qualsiasi cambiamento del Trattato in futuro dovrà essere il riconoscimento di un numero in costante incremento di obiettivi condivisi e la necessità di finanziarli insieme, il che richiede una forma diversa di rappresentatività e di processo decisionale centralizzato. A quel punto, diventerà più realistico incamminarci verso regolamentazioni più automatiche.
Io credo che oggi gli europei siano più pronti di vent’anni fa a imboccare questa strada, perché in verità hanno a disposizione soltanto tre opzioni: la paralisi, l’uscita dall’Ue o l’integrazione.
Dai sondaggi emerge chiaramente che i cittadini si sentono sempre più minacciati dall’esterno, non ultimo da quando è iniziata l’invasione russa. E questo rende la paralisi sempre più inaccettabile.
La Brexit ha tradotto in realtà le motivazioni teoriche a favore dell’uscita dell’Ue e, se i vantaggi di questa scissione appaiono ancora estremamente incerti, i costi sono fin troppo evidenti.
Se dunque la paralisi e l’uscita dall’Ue appaiono poco allettanti, i costi relativi di un’integrazione ulteriore appaiono minori.
Non potremo creare la capacità operativa dell’Ue senza rivedere l’assetto fiscale europeo. In conclusione, la guerra in Ucraina ha ridefinito profondamente la nostra Unione, non soltanto nella sua appartenenza o nei suoi obiettivi condivisi, ma anche nella consapevolezza che ha creato: il nostro futuro è interamente nelle nostre mani.