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I giovani adesso vogliono contare

Written by Alessandro Rosina.

Articolo di Alessandro Rosina pubblicato da Avvenire.

I dati dell’edizione 2023 del Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo ci dicono soprattutto che i giovani italiani vorrebbero scegliere e vorrebbero poter contare, ma forse mai come in questo momento storico si trovano in difficoltà a farlo. Come società sappiamo bene come e dove vogliamo che i giovani siano.
Li vogliamo trovare nelle scuole, nelle aziende, nelle organizzazioni impegnate nel sociale, nei luoghi di culto, nei seggi elettorali, nella condizione di persone autonome, nella formazione di nuovi nuclei familiari, nell’esperienza genitoriale. Quello che è certo è che tutti tali luoghi sono sempre meno popolati dalle nuove generazioni. Un motivo strutturale è ben noto, chiama in causa la bassa natalità che caratterizza in particolare il nostro Paese e che sta alla base del processo di degiovanimento.
Le stesse trasformazioni demografiche vanno soprattutto considerate una questione di rinnovo generazionale. Gli squilibri nel rapporto quantitativo tra giovani e anziani sono la conseguenza dell’indebolimento dei meccanismi qualitativi che regolano il ricambio tra vecchie e nuove generazioni. Nessuna società può funzionare senza essere generativa verso il futuro, ovvero senza dar vita alle generazioni successive, metterle nelle condizioni di: crescere in un contesto sano e sicuro; formarsi bene; trovare sostegno nella capacità, a propria volta, di generare valore. Ciò che non aiuta chi è nella fase giovanile a compiere in modo solido la transizione scuola-lavoro, a fare esperienze di valore sociale che rafforzano senso di appartenenza e fiducia in sé stessi, a conquistare una propria autonomia abitativa e a formare una propria famiglia, rende più deboli i progetti di vita delle nuove generazioni. Il degiovanimento quantitativo è, quindi, a sua volta, soprattutto conseguenza di un degiovanimento qualitativo, ovvero della bassa presenza di giovani nei contesti in cui si apprende e agisce il cambiamento come soggetti attivi, responsabili e consapevoli. Ma basta, allora, fare in modo che i giovani siano dove ci aspettiamo, come società, che debbano trovarsi? Non è più così, ci dicono le analisi del Rapporto Giovani 2023, o comunque lo è molto meno che in passato.
Basta che essi siano a scuola? Se vogliamo che ci rimangano di più è sufficiente spostare a 18 anni l’obbligo scolastico? No, non basta come contrasto alla dispersione scolastica (ovvero l’abbandono precoce del percorso formativo) e ancor meno per ridurre la dispersione implicita (ovvero il conseguimento del diploma ma con livelli di preparazione e competenza molto bassi, insufficienti per affrontare con successo la vita e il mondo nelle società moderne avanzate). Serve di più. Serve che i ragazzi scelgano di stare a scuola e di investire sul proprio percorso formativo. Ma questo significa creare ambienti stimolanti e motivanti, riconoscere i mutamenti nelle modalità di apprendimento delle nuove generazioni, andare incontro alle specificità dei singoli, mettere in relazione ciò che si impara a scuola con il proprio essere e fare nel mondo.
Basta, poi, per aumentare la presenza nel mondo del lavoro, rendere più facili le modalità di assunzione dei giovani da parte delle aziende? La flessibilità intesa come forma per poter assumere manodopera a basso costo e potersene facilmente disfare quando non più funzionale non si è certo rivelata una soluzione efficace per migliorare la condizione lavorativa delle nuove generazioni. Il timore di intrappolamento in percorsi di basso sviluppo professionale ha reso i giovani italiani, anche quelli ben preparati, ipercauti e diffidenti rispetto alla domanda di lavoro. A questa richiesta di adattamento continuo al ribasso, che limita la capacità di dare il meglio di sé nel lavoro e frena i progetti di vita, i giovani sono diventati sempre più insofferenti. L’impatto della pandemia ha, inoltre, accelerato un mutamento di fondo sulle priorità da dare alla propria vita e sull’idea di lavoro. La flessibilità di cui le nuove generazioni hanno bisogno è, allora, quella che consente di fare esperienze positive, di scegliere se rimanere in un’azienda o di cambiare per migliorare continuamente le proprie competenze professionali e sociali.
Non basta, detto in altre parole, formare bene i giovani, potenziare i servizi per l’impiego e dare incentivi per l’occupazione (tutti aspetti comunque più carenti in Italia rispetto ai Paesi con cui ci confrontiamo): è necessario anche essere attrattivi nei loro confronti e saper valorizzare al meglio il loro specifico contributo. Nei membri della Generazione Zeta è forte il desiderio di essere riconosciuti nella propria specificità. Sentono come riduttivo che venga chiesto di portare solo le competenze di cui l’azienda ha bisogno, mentre vorrebbero, prima di tutto, portare quello che sono. Il fenomeno della Great resignation è espressione di questo mutamento qualitativo di fondo. Se non sentono di crescere in termini sia di proprio sviluppo umano sia di contributo nello sviluppo dell’azienda con il proprio valore distintivo, perdono motivazione e lasciano. La chiamata che li ingaggia non è quella di sostituire un lavoratore andato in pensione o coprire una mansione richiesta, ma generare valore con la novità che rappresentano. Questo non vale solo nel mondo del lavoro ma anche in molti altri campi, compreso quello della partecipazione politica e sociale.
Su quest’ultimo fronte non basta, allora, aumentare i posti di Servizio civile, come non basta abbassare a 18 anni l’età al voto al Senato. I dati disponibili sembrano indicare che nonostante tali misure la presenza dei giovani nel volontariato e nei seggi elettorali non sia aumentata. Riguardo al Servizio civile, perché sia davvero “universale” deve diventare effettivamente accessibile a ciascun giovane. Questo significa chiedersi continuamente come renderlo attrattivo (capace di farsi scegliere) e come migliorare continuamente le condizioni perché sia vissuto come esperienza trasformativa (che rafforza la capacità di sentirsi soggetti attivi del mondo che cambia). Su come farlo non ci sono risposte definitive e risultati scontati. Quello che i dati dicono è, in ogni caso, che non è diminuita l’offerta di partecipazione e tantomeno la voglia di protagonismo. C’è, in particolare, un forte desiderio di esserci dove le cose accadono, dove ci sono questioni considerate centrali per il proprio tempo, dove serve la propria spinta per superare limiti e storture di sistema.
Lo si è visto recentemente nella mobilitazione spontanea a favore delle zone alluvionate, lo si riscontra sui temi dell’ambiente e dei diritti, lo si è osservato nella protesta per gli alti affitti universitari. L’elemento comune è il sentire una chiamata a farsi soggetti attivi in modo collettivo nel migliorare una realtà critica con il proprio contributo distintivo, portando le proprie sensibilità e istanze. A differenza delle generazioni socializzate nei primi decenni del secondo dopoguerra, lo stesso voto alle elezioni risulta sempre meno una pratica a cui si attribuisce un valore in sé e, di conseguenza, è sempre meno una scelta scontata. È l’interesse verso l’esito atteso che porta le nuove generazioni a “prendere parte”. Ed è, poi, il riscontro che fornisce l’esperienza fatta che le porta poi a riconoscerne utilità e valore, rafforzando anche il senso di appartenenza. Vale, in generale, per il lavoro e le scelte professionali, per la partecipazione sociale e politica, ma vale, sempre più, anche per la scelta di avere un figlio (che da desiderio deve farsi esperienza di valore che rafforza il senso di comunità).
Ma tutto questo, per evolvere nella direzione più virtuosa, ha bisogno di due condizioni. La prima è il rafforzamento della capacità di scegliere – o meglio, di discernere – da parte dei giovani, ovvero di rendere coerenti le proprie aspirazioni con le proprie effettive capacità e in relazione con ciò che la realtà offre (non solo per adattarsi ma anche per cambiarla positivamente). La seconda è che i luoghi nei quali i giovani possono diventare soggetti attivi e generativi siano attrattivi: questo non significa solo saper offrire un’esperienza positiva ma essere disposti anche a mettersi in discussione con la novità che portano, in grado di riconoscere la specificità del contributo dei singoli e, allo stesso tempo, far sentire di essere parte di un processo che genera valore condiviso. Condizioni entrambe fondamentali per non rassegnarsi a contare anno dopo anno sempre meno giovani in un Paese in cui i giovani contano sempre di meno.
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