Un altro carcere deve essere possibile
Articolo di Michela Di Biase pubblicato da Huffington Post.
Sono tornata al carcere di Regina Coeli, un carcere che sorge nel pieno centro della città di Roma, nel quartiere di Trastevere. Nulla della storica facciata, né le mura altissime che lo cingono, lasciano trapelare cosa il carcere sia.
Chiarisco subito perché ho deciso di raccontare queste mie visite: è un diritto ma prima ancora un dovere di una parlamentare andare in carcere ed io intendo onorare entrambe le prerogative. Per dare conto di ciò che vedo, per tenere alta l’attenzione su questa realtà, sugli uomini e le donne che vi abitano: dai detenuti al personale carcerario, a quello sanitario, a coloro che nel carcere fanno volontariato. Regina Coeli è un carcere nato per ospitare i nuovi giunti, non un luogo dove scontare la pena definitiva. Il termine sovraffollamento è terribilmente pertinente: a fronte dei 615 posti oggi nel carcere ci sono circa mille detenuti. Condizione questa che pesa tanto anche sulla polizia penitenziaria che deve gestire situazioni estremamente complesse e di rischio. Del carcere una volta usciti ti rimane nella testa il rumore, dei grandi portoni di ferro che si chiudono alle tue spalle, delle grida dei detenuti del repartino (qui sono internati i detenuti con patologie psichiatriche e diciamolo, il regime carcerario non è compatibile con le condizione di salute di queste persone) delle urla da un piano all’altro delle sezioni per comunicare con altri detenuti.
Ogni sezione ha problemi comuni alle altre, celle piccolissime, in alcune vi abitano fino a tre uomini che dormono su letti a castello alti anche due metri. In altre ci sono le gelosie alle finestre, delle lastre di ferro che non fanno passare né luce né aria. La pena deve tendere alla rieducazione del condannato ed è del tutto chiaro che il sistema sanzionatorio non può esaurirsi in una mera privazione della libertà. Eppure entrando nel carcere si ha l’impressione che l’aspetto rieducativo sia del tutto marginale rispetto a quello punitivo. Gli studi liceali hanno riportato alla memoria Dante: “Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente.”
Ieri ho conosciuto padre Vittorio Trani, un francescano che da quarant’anni lavora in carcere per alleviare le sofferenze di questi uomini. Da quarant’anni , ogni giorno come se fosse il primo. Li ascolta, gli porta da mangiare, li conforta. Ecco della mia visita di ieri vorrei raccontare anche questo: che ci sono uomini come padre Vittorio che senza clamore, con misericordia si dedicano agli ultimi della terra e nel farlo sono da esempio per tutti noi.
Sono tornata al carcere di Regina Coeli, un carcere che sorge nel pieno centro della città di Roma, nel quartiere di Trastevere. Nulla della storica facciata, né le mura altissime che lo cingono, lasciano trapelare cosa il carcere sia.
Chiarisco subito perché ho deciso di raccontare queste mie visite: è un diritto ma prima ancora un dovere di una parlamentare andare in carcere ed io intendo onorare entrambe le prerogative. Per dare conto di ciò che vedo, per tenere alta l’attenzione su questa realtà, sugli uomini e le donne che vi abitano: dai detenuti al personale carcerario, a quello sanitario, a coloro che nel carcere fanno volontariato. Regina Coeli è un carcere nato per ospitare i nuovi giunti, non un luogo dove scontare la pena definitiva. Il termine sovraffollamento è terribilmente pertinente: a fronte dei 615 posti oggi nel carcere ci sono circa mille detenuti. Condizione questa che pesa tanto anche sulla polizia penitenziaria che deve gestire situazioni estremamente complesse e di rischio. Del carcere una volta usciti ti rimane nella testa il rumore, dei grandi portoni di ferro che si chiudono alle tue spalle, delle grida dei detenuti del repartino (qui sono internati i detenuti con patologie psichiatriche e diciamolo, il regime carcerario non è compatibile con le condizione di salute di queste persone) delle urla da un piano all’altro delle sezioni per comunicare con altri detenuti.
Ogni sezione ha problemi comuni alle altre, celle piccolissime, in alcune vi abitano fino a tre uomini che dormono su letti a castello alti anche due metri. In altre ci sono le gelosie alle finestre, delle lastre di ferro che non fanno passare né luce né aria. La pena deve tendere alla rieducazione del condannato ed è del tutto chiaro che il sistema sanzionatorio non può esaurirsi in una mera privazione della libertà. Eppure entrando nel carcere si ha l’impressione che l’aspetto rieducativo sia del tutto marginale rispetto a quello punitivo. Gli studi liceali hanno riportato alla memoria Dante: “Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente.”
Ieri ho conosciuto padre Vittorio Trani, un francescano che da quarant’anni lavora in carcere per alleviare le sofferenze di questi uomini. Da quarant’anni , ogni giorno come se fosse il primo. Li ascolta, gli porta da mangiare, li conforta. Ecco della mia visita di ieri vorrei raccontare anche questo: che ci sono uomini come padre Vittorio che senza clamore, con misericordia si dedicano agli ultimi della terra e nel farlo sono da esempio per tutti noi.