Dalla Società della Convivenza al Mondo della Convivenza
Articolo di Marina Sereni.
Nei giorni scorsi ho partecipato ad una bella e interessantissima Conferenza promossa dalla Fondazione Nilde Iotti su “L’Italia della convivenza”. Vi propongo qui il testo del mio intervento su “Convivenza tra i popoli e nuovi equilibri geopolitici mondiali. Il ruolo dell’Europa”.
Ringrazio Livia Turco per l’invito a questo importante convegno. Il titolo della comunicazione che mi è stata assegnata è molto impegnativo e richiederebbe ben altre competenze. Cercherò di tratteggiare una riflessione che possa offrire qualche spunto per l’insieme della discussione di queste due giornate sulla “società della convivenza”.
Parto dalla fotografia del mondo nel quale viviamo che ci dice quanto difficile sia la convivenza tra i popoli.
Secondo ACLED (Armed conflict location and event data project) una ong specializzata nella raccolta, analisi e mappatura dei conflitti, sono attualmente 59 le guerre in corso, intendendo per “guerra” un conflitto aperto e dichiarato fra due o più stati, o in genere fra gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi condotto con l’impiego di mezzi militari. Un quadro non troppo dissimile emerge dall’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo che l’Associazione culturale “46° parallelo” pubblica ormai da più di un decennio, raccogliendo i contributi di molte altre Ong, associazioni ed esperti italiani.
D’altra parte, la cronaca quotidiana - che sia da Khartum, per raccontare l’esplosione drammatica degli scontri tra esercito e milizie in Sudan, o da Kiyv, per dare conto delle distruzioni e delle vittime civili causate dalla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, o ancora da Lampedusa, per raccontare l’ennesimo sbarco di persone disperate provenienti da Afghanistan, Etiopia, Ciad - si incarica di ricordarci quanto molti di questi conflitti siano vicini a noi e riguardino direttamente o indirettamente la nostra vita, la nostra concezione di “convivenza”.
Quando nel 1989 è caduto il Muro di Berlino ed è finita la guerra fredda, in molti avevamo sperato in un nuovo ordine mondiale più giusto, libero e pacifico. Quella speranza ahimè non si è avverata. La globalizzazione ha prodotto grandi cambiamenti e opportunità ma anche nuove contraddizioni, disuguaglianze, motivi di tensioni e conflitti. Nuovi muri sono stati alzati.
Sempre di più appare profetica l’espressione che Papa Francesco pronunciò nell’ormai lontano 2014 quando parlò per la prima volta di Terza Guerra Mondiale a pezzi. L’aggressione e il tentativo di invasione che la Russia ha messo in atto contro l’Ucraina, uno stato indipendente e sovrano nel cuore dell’Europa, rende ancora più forti quelle parole di allarme e di denuncia. Anche quando si riuscisse a far tacere le armi sul territorio ucraino e a creare le condizioni per avviare un negoziato che porti ad una pace giusta - e noi dobbiamo essere tra quanti lavorano incessantemente perché questo avvenga prima possibile – non sarà facile superare la rottura che questa guerra ha rappresentato in Europa e sul complesso delle relazioni internazionali.
Pensiamo all’Onu: il Consiglio di Sicurezza – a causa del potere di veto di cui godono le grandi potenze vittoriose nella Seconda Guerra Mondiale, tra cui la Russia – è stato ridotto all’impotenza più totale e, conseguentemente, l’Assemblea Generale è stata chiamata più volte a pronunciarsi su questa gravissima violazione del diritto internazionale. L’ultima risoluzione, quella in cui si chiede il ritiro delle truppe russe per raggiungere “una pace completa, giusta e duratura in Ucraina, in linea con la Carta delle Nazioni Unite” è stata approvata con 141 voti a favore, 7 contrari e 32 astenuti e questo ci consegna due dati, entrambi significativi. Il primo è l’isolamento internazionale della Federazione russa che ha avuto il sostegno di un numero davvero esiguo di stati (oltre alla Russia i no sono arrivati da Siria, Bielorussia, Eritrea, Corea del Nord, Nicaragua e, per la prima volta, Mali).
Il secondo riguarda la dimensione dei 32 Paesi astenuti, tra cui troviamo Cina, India, Sudafrica, Angola, Pakistan, Algeria, Zimbabwe… Positivamente dobbiamo segnalare a questo proposito come il Brasile con Lula abbia cambiato posizione rispetto al predecessore Bolsonaro, passando dall’astensione al voto a favore.
Siamo comunque di fronte ad un gruppo di Paesi, alcuni dei quali attori assai significativi sullo scenario globale, che complessivamente rappresentano la maggior parte della popolazione mondiale. Se l’astensione infatti da un lato testimonia una non adesione rispetto alla sciagurata azione bellica della Russia dall’altro mostra anche una freddezza verso le iniziative che una parte della comunità internazionale ha inteso assumere per sanzionare il comportamento dell’aggressore e sostenere l’aggredito.
Questo è uno dei nodi con cui l’Europa deve fare i conti. Occorre che l’Unione Europea dialoghi con tutti quegli attori - a cominciare dalla Cina, dal Brasile, dall’India - che possono contribuire a creare le condizioni per il cessate il fuoco e l’avvio di negoziati per una pace giusta. Non c’è, non può esserci contraddizione tra il sostegno all’Ucraina, anche nella sua capacità di difesa e resistenza, e la ricerca incessante della via diplomatica per la pace. Che è una ricerca complessa, faticosa, non priva di insidie.
Dobbiamo contrastare la falsa narrazione, alimentata da Putin, di una guerra dell’Occidente contro “il resto del mondo”. Questo richiede da parte europea - e certamente da parte dei progressisti europei - non solo uno sforzo straordinario di iniziativa politica e diplomatica ma anche una capacità di parlare “al resto del mondo” e trasmettere con comportamenti coerenti i nostri valori di libertà, rispetto dei diritti umani, solidarietà con i più deboli.
Proprio di fronte agli sconvolgimenti che l’aggressione russa in Ucraina sta producendo, l’Europa non può e non deve dimenticare cosa accade ai suoi confini meridionali, può e deve occuparsi seriamente delle crisi che attraversano il Mediterraneo, il Medio Oriente, il continente africano, crisi che non possono essere lette e affrontate solo attraverso la lente del fenomeno migratorio. Non può esistere un rapporto fattivo di collaborazione con i Paesi africani se non si rilancia l’iniziativa dell’Unione Europea per la cooperazione e lo sviluppo sostenibile.
Tutto questo richiede un’Europa con istituzioni comunitarie più forti, capaci di parlare con una voce sola nelle situazioni di conflitto e di crisi. Non in alternativa all’alleanza euro-atlantica, ma per rendere più forte ed efficace il nostro apporto a quel legame, l’Unione Europea non può non porsi l’obiettivo di una sua autonomia strategica sulla politica estera e della difesa. E per raggiungere quell’obiettivo è indispensabile che si approfondisca la dimensione comunitaria e che procedano le riforme necessarie.
Non saprei esprimere questo concetto con parole più chiare ed incisive di quelle usate dal Presidente della Repubblica Mattarella nella sua recente visita in Polonia: “Con lucidità va compreso che proporsi di salvaguardare la pace fra le nazioni, affrontare i rischi globali che interpellano tutto il mondo - missione da cui, colpevolmente, ci allontana, in questo momento, la furia bellicista russa - significa anzitutto respingere la tentazione della frammentazione della solidarietà fra Paesi liberi, cementata nella esperienza dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione Europea. Sicurezza europea e sicurezza euro-atlantica sono concetti indivisibili per potersi difendere insieme con determinazione e per garantire e sviluppare il modello democratico e sociale europeo. Come essere uniti? Jean Monnet, uno degli ispiratori del processo di unificazione europea, ci ricordava – come è noto - che l’Europa si sarebbe fatta nelle crisi e sarebbe stato il risultato delle soluzioni che avrebbe avuto la capacità di dare a quelle crisi. Dunque, ogni giorno è un banco di prova. Ma sarebbe del tutto inadeguato pensare a un’Europa frutto della affannosa rincorsa ad affrontare problemi dettati da altri, in un quadro internazionale deciso da altri.
In altri termini, l’esigenza di fare dell’Europa una protagonista non trova adeguata risposta nella visione di un’Unione come somma temporanea e mutevole di umori e interessi nazionali, quindi, per definizione, perennemente instabile.” Parole che sarebbero sicuramente piaciute a Nilde Iotti che fu, nel suo partito, tra i dirigenti più convinti del valore politico del progetto europeo.
A ben vedere la scelta che saremo chiamati a fare alle prossime elezioni europee sarà proprio sul futuro del progetto di integrazione europea. Di fronte al risorgere di nazionalismi e nostalgie imperiali, mentre la competizione tra Cina e Usa è sempre più gravida di rischi e tensioni, la strada che imboccherà l’Europa sarà in parte nelle mani di noi cittadine e cittadini europei. Ed è importante che i soggetti della politica e della cultura - e la Fondazione Iotti rappresenta entrambi questi mondi - si misurino con le domande di fondo di questo tempo inquieto.
Nella vita dell’umanità il conflitto è ineliminabile, così come nella vita di ciascuno di noi. Lavorare per la pace e la convivenza non passa dunque per l’eliminazione del conflitto quanto piuttosto per la sua gestione. Ho imparato molto in questi anni da due esperienze che voglio qui citare. La prima è l’Associazione Rondine “Cittadella della Pace” che ha costruito vicino ad Arezzo un luogo in cui vivono fianco a fianco ragazze e ragazzi provenienti da contesti di guerra: ucraini e russi, israeliani e palestinesi, armeni ed azerbaigiani. Ogni giorno per un anno lavorano insieme per capire gli uni le ragioni dell’altro, per imparare a gestire il loro conflitto. Tornano al loro Paese essendo divenuti persone diverse, leader di pace.
La seconda esperienza è quella del Network delle Donne Mediatrici del Mediterraneo, una iniziativa promossa dalla Farnesina insieme ad WIIS, una associazione di donne impegnate sui temi della politica estera e della sicurezza. La Rete riunisce oltre 60 donne provenienti da 21 paesi dell’area del Mediterraneo impegnate come mediatrici nelle situazioni di conflitto. E’ dimostrato che laddove le donne sono coinvolte nei processi di negoziato gli accordi di pace raggiunti sono più duraturi e solidi. Purtroppo, a fronte di questi dati, il numero delle donne coinvolte nelle trattative e nei processi di riconciliazione sono ancora troppo poche e dunque c’è ancora molto lavoro da fare.
E poi naturalmente c’è tutto il mondo della società civile impegnata nella cooperazione allo sviluppo - su cui qui non ho tempo di approfondire - sul quale però voglio richiamare la nostra attenzione. Da mesi la Presidente Meloni parla di Piano Mattei, evocando il nome di un grande italiano, senza mai chiarire di cosa si tratti. Intanto l’unico atto concreto è stato quello di ridurre le risorse destinate alla cooperazione allo sviluppo.
Parlare di pace, di dialogo tra diversi e di convivenza può sembrare in questo momento un esercizio ingenuo. Ma anche qui può venirci in aiuto il magistero del Santo Padre.
Padre Antonio Spadaro, nel libro “L’atlante di Francesco” scrive: “Occuparsi della politica internazionale di Francesco significa immergersi in una visione spirituale che si nutre di un profondo senso della catastrofe possibile e delle forze del male in azione, e nello stesso tempo di una fiducia unica nel mistero di Dio che porta ad accettare i piccoli passi, i processi, l’autorità mondana, i colloqui, le trattative, i tempi lunghi, le mediazioni.” “Ma tale accettazione – prosegue – si fonda sulla coscienza che il mondo non è diviso tra bene e male, tra buoni e cattivi…” e ancora più avanti aggiunge “Che cosa significa la misericordia come categoria politica, dunque? In estrema sintesi possiamo dire: non considerare mai niente e nessuno come definitivamente ‘perduto’ nei rapporti tra nazioni, popoli e Stati”.
Se vogliamo non solo una “società della convivenza” ma anche un “mondo della convivenza” la cultura e la politica laiche non possano non sentirsi sollecitate da queste parole.
Nei giorni scorsi ho partecipato ad una bella e interessantissima Conferenza promossa dalla Fondazione Nilde Iotti su “L’Italia della convivenza”. Vi propongo qui il testo del mio intervento su “Convivenza tra i popoli e nuovi equilibri geopolitici mondiali. Il ruolo dell’Europa”.
Ringrazio Livia Turco per l’invito a questo importante convegno. Il titolo della comunicazione che mi è stata assegnata è molto impegnativo e richiederebbe ben altre competenze. Cercherò di tratteggiare una riflessione che possa offrire qualche spunto per l’insieme della discussione di queste due giornate sulla “società della convivenza”.
Parto dalla fotografia del mondo nel quale viviamo che ci dice quanto difficile sia la convivenza tra i popoli.
Secondo ACLED (Armed conflict location and event data project) una ong specializzata nella raccolta, analisi e mappatura dei conflitti, sono attualmente 59 le guerre in corso, intendendo per “guerra” un conflitto aperto e dichiarato fra due o più stati, o in genere fra gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi condotto con l’impiego di mezzi militari. Un quadro non troppo dissimile emerge dall’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo che l’Associazione culturale “46° parallelo” pubblica ormai da più di un decennio, raccogliendo i contributi di molte altre Ong, associazioni ed esperti italiani.
D’altra parte, la cronaca quotidiana - che sia da Khartum, per raccontare l’esplosione drammatica degli scontri tra esercito e milizie in Sudan, o da Kiyv, per dare conto delle distruzioni e delle vittime civili causate dalla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, o ancora da Lampedusa, per raccontare l’ennesimo sbarco di persone disperate provenienti da Afghanistan, Etiopia, Ciad - si incarica di ricordarci quanto molti di questi conflitti siano vicini a noi e riguardino direttamente o indirettamente la nostra vita, la nostra concezione di “convivenza”.
Quando nel 1989 è caduto il Muro di Berlino ed è finita la guerra fredda, in molti avevamo sperato in un nuovo ordine mondiale più giusto, libero e pacifico. Quella speranza ahimè non si è avverata. La globalizzazione ha prodotto grandi cambiamenti e opportunità ma anche nuove contraddizioni, disuguaglianze, motivi di tensioni e conflitti. Nuovi muri sono stati alzati.
Sempre di più appare profetica l’espressione che Papa Francesco pronunciò nell’ormai lontano 2014 quando parlò per la prima volta di Terza Guerra Mondiale a pezzi. L’aggressione e il tentativo di invasione che la Russia ha messo in atto contro l’Ucraina, uno stato indipendente e sovrano nel cuore dell’Europa, rende ancora più forti quelle parole di allarme e di denuncia. Anche quando si riuscisse a far tacere le armi sul territorio ucraino e a creare le condizioni per avviare un negoziato che porti ad una pace giusta - e noi dobbiamo essere tra quanti lavorano incessantemente perché questo avvenga prima possibile – non sarà facile superare la rottura che questa guerra ha rappresentato in Europa e sul complesso delle relazioni internazionali.
Pensiamo all’Onu: il Consiglio di Sicurezza – a causa del potere di veto di cui godono le grandi potenze vittoriose nella Seconda Guerra Mondiale, tra cui la Russia – è stato ridotto all’impotenza più totale e, conseguentemente, l’Assemblea Generale è stata chiamata più volte a pronunciarsi su questa gravissima violazione del diritto internazionale. L’ultima risoluzione, quella in cui si chiede il ritiro delle truppe russe per raggiungere “una pace completa, giusta e duratura in Ucraina, in linea con la Carta delle Nazioni Unite” è stata approvata con 141 voti a favore, 7 contrari e 32 astenuti e questo ci consegna due dati, entrambi significativi. Il primo è l’isolamento internazionale della Federazione russa che ha avuto il sostegno di un numero davvero esiguo di stati (oltre alla Russia i no sono arrivati da Siria, Bielorussia, Eritrea, Corea del Nord, Nicaragua e, per la prima volta, Mali).
Il secondo riguarda la dimensione dei 32 Paesi astenuti, tra cui troviamo Cina, India, Sudafrica, Angola, Pakistan, Algeria, Zimbabwe… Positivamente dobbiamo segnalare a questo proposito come il Brasile con Lula abbia cambiato posizione rispetto al predecessore Bolsonaro, passando dall’astensione al voto a favore.
Siamo comunque di fronte ad un gruppo di Paesi, alcuni dei quali attori assai significativi sullo scenario globale, che complessivamente rappresentano la maggior parte della popolazione mondiale. Se l’astensione infatti da un lato testimonia una non adesione rispetto alla sciagurata azione bellica della Russia dall’altro mostra anche una freddezza verso le iniziative che una parte della comunità internazionale ha inteso assumere per sanzionare il comportamento dell’aggressore e sostenere l’aggredito.
Questo è uno dei nodi con cui l’Europa deve fare i conti. Occorre che l’Unione Europea dialoghi con tutti quegli attori - a cominciare dalla Cina, dal Brasile, dall’India - che possono contribuire a creare le condizioni per il cessate il fuoco e l’avvio di negoziati per una pace giusta. Non c’è, non può esserci contraddizione tra il sostegno all’Ucraina, anche nella sua capacità di difesa e resistenza, e la ricerca incessante della via diplomatica per la pace. Che è una ricerca complessa, faticosa, non priva di insidie.
Dobbiamo contrastare la falsa narrazione, alimentata da Putin, di una guerra dell’Occidente contro “il resto del mondo”. Questo richiede da parte europea - e certamente da parte dei progressisti europei - non solo uno sforzo straordinario di iniziativa politica e diplomatica ma anche una capacità di parlare “al resto del mondo” e trasmettere con comportamenti coerenti i nostri valori di libertà, rispetto dei diritti umani, solidarietà con i più deboli.
Proprio di fronte agli sconvolgimenti che l’aggressione russa in Ucraina sta producendo, l’Europa non può e non deve dimenticare cosa accade ai suoi confini meridionali, può e deve occuparsi seriamente delle crisi che attraversano il Mediterraneo, il Medio Oriente, il continente africano, crisi che non possono essere lette e affrontate solo attraverso la lente del fenomeno migratorio. Non può esistere un rapporto fattivo di collaborazione con i Paesi africani se non si rilancia l’iniziativa dell’Unione Europea per la cooperazione e lo sviluppo sostenibile.
Tutto questo richiede un’Europa con istituzioni comunitarie più forti, capaci di parlare con una voce sola nelle situazioni di conflitto e di crisi. Non in alternativa all’alleanza euro-atlantica, ma per rendere più forte ed efficace il nostro apporto a quel legame, l’Unione Europea non può non porsi l’obiettivo di una sua autonomia strategica sulla politica estera e della difesa. E per raggiungere quell’obiettivo è indispensabile che si approfondisca la dimensione comunitaria e che procedano le riforme necessarie.
Non saprei esprimere questo concetto con parole più chiare ed incisive di quelle usate dal Presidente della Repubblica Mattarella nella sua recente visita in Polonia: “Con lucidità va compreso che proporsi di salvaguardare la pace fra le nazioni, affrontare i rischi globali che interpellano tutto il mondo - missione da cui, colpevolmente, ci allontana, in questo momento, la furia bellicista russa - significa anzitutto respingere la tentazione della frammentazione della solidarietà fra Paesi liberi, cementata nella esperienza dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione Europea. Sicurezza europea e sicurezza euro-atlantica sono concetti indivisibili per potersi difendere insieme con determinazione e per garantire e sviluppare il modello democratico e sociale europeo. Come essere uniti? Jean Monnet, uno degli ispiratori del processo di unificazione europea, ci ricordava – come è noto - che l’Europa si sarebbe fatta nelle crisi e sarebbe stato il risultato delle soluzioni che avrebbe avuto la capacità di dare a quelle crisi. Dunque, ogni giorno è un banco di prova. Ma sarebbe del tutto inadeguato pensare a un’Europa frutto della affannosa rincorsa ad affrontare problemi dettati da altri, in un quadro internazionale deciso da altri.
In altri termini, l’esigenza di fare dell’Europa una protagonista non trova adeguata risposta nella visione di un’Unione come somma temporanea e mutevole di umori e interessi nazionali, quindi, per definizione, perennemente instabile.” Parole che sarebbero sicuramente piaciute a Nilde Iotti che fu, nel suo partito, tra i dirigenti più convinti del valore politico del progetto europeo.
A ben vedere la scelta che saremo chiamati a fare alle prossime elezioni europee sarà proprio sul futuro del progetto di integrazione europea. Di fronte al risorgere di nazionalismi e nostalgie imperiali, mentre la competizione tra Cina e Usa è sempre più gravida di rischi e tensioni, la strada che imboccherà l’Europa sarà in parte nelle mani di noi cittadine e cittadini europei. Ed è importante che i soggetti della politica e della cultura - e la Fondazione Iotti rappresenta entrambi questi mondi - si misurino con le domande di fondo di questo tempo inquieto.
Nella vita dell’umanità il conflitto è ineliminabile, così come nella vita di ciascuno di noi. Lavorare per la pace e la convivenza non passa dunque per l’eliminazione del conflitto quanto piuttosto per la sua gestione. Ho imparato molto in questi anni da due esperienze che voglio qui citare. La prima è l’Associazione Rondine “Cittadella della Pace” che ha costruito vicino ad Arezzo un luogo in cui vivono fianco a fianco ragazze e ragazzi provenienti da contesti di guerra: ucraini e russi, israeliani e palestinesi, armeni ed azerbaigiani. Ogni giorno per un anno lavorano insieme per capire gli uni le ragioni dell’altro, per imparare a gestire il loro conflitto. Tornano al loro Paese essendo divenuti persone diverse, leader di pace.
La seconda esperienza è quella del Network delle Donne Mediatrici del Mediterraneo, una iniziativa promossa dalla Farnesina insieme ad WIIS, una associazione di donne impegnate sui temi della politica estera e della sicurezza. La Rete riunisce oltre 60 donne provenienti da 21 paesi dell’area del Mediterraneo impegnate come mediatrici nelle situazioni di conflitto. E’ dimostrato che laddove le donne sono coinvolte nei processi di negoziato gli accordi di pace raggiunti sono più duraturi e solidi. Purtroppo, a fronte di questi dati, il numero delle donne coinvolte nelle trattative e nei processi di riconciliazione sono ancora troppo poche e dunque c’è ancora molto lavoro da fare.
E poi naturalmente c’è tutto il mondo della società civile impegnata nella cooperazione allo sviluppo - su cui qui non ho tempo di approfondire - sul quale però voglio richiamare la nostra attenzione. Da mesi la Presidente Meloni parla di Piano Mattei, evocando il nome di un grande italiano, senza mai chiarire di cosa si tratti. Intanto l’unico atto concreto è stato quello di ridurre le risorse destinate alla cooperazione allo sviluppo.
Parlare di pace, di dialogo tra diversi e di convivenza può sembrare in questo momento un esercizio ingenuo. Ma anche qui può venirci in aiuto il magistero del Santo Padre.
Padre Antonio Spadaro, nel libro “L’atlante di Francesco” scrive: “Occuparsi della politica internazionale di Francesco significa immergersi in una visione spirituale che si nutre di un profondo senso della catastrofe possibile e delle forze del male in azione, e nello stesso tempo di una fiducia unica nel mistero di Dio che porta ad accettare i piccoli passi, i processi, l’autorità mondana, i colloqui, le trattative, i tempi lunghi, le mediazioni.” “Ma tale accettazione – prosegue – si fonda sulla coscienza che il mondo non è diviso tra bene e male, tra buoni e cattivi…” e ancora più avanti aggiunge “Che cosa significa la misericordia come categoria politica, dunque? In estrema sintesi possiamo dire: non considerare mai niente e nessuno come definitivamente ‘perduto’ nei rapporti tra nazioni, popoli e Stati”.
Se vogliamo non solo una “società della convivenza” ma anche un “mondo della convivenza” la cultura e la politica laiche non possano non sentirsi sollecitate da queste parole.
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