Se non ti occupi della politica, la politica si occupa comunque di te
Intervista di Vogue a Elly Schlein.
Elly Schlein ha fatto alla politica quello che i Måneskin hanno fatto alla musica italiana. L’ha svecchiata, demascolinizzata e proiettata in un agone internazionale. Da quando è stata scelta alla guida del Partito Democratico il 26 febbraio - prima donna a ricoprire questo ruolo - la 37enne ex-europarlamentare già vicepresidente della Regione Emilia-Romagna non ha concesso interviste ai magazine. Eppure (o forse proprio per questo) tutti la vogliono, tutti la inseguono, tutti desiderano capire dove porterà la sinistra.
Io sono riuscito a intercettarla brevemente alla manifestazione milanese per i diritti delle Famiglie Arcobaleno - una delle battaglie a cui tiene in modo particolare, come ha detto alla folla e ai cronisti. Da quel momento, in un continuo rollercoaster di eventi politici e no, Elly è volata a Bruxelles per discutere con i dirigenti socialisti europei, ha annunciato la nuova segreteria del Partito Democratico formata in parti uguali da uomini e donne (tra cui Marwa Mahmoud, di origine egiziana), e ha subito indirettamente l’outing alla sua compagna Paola Belloni, finora rimasta lontana dai media. Riesco a parlare con lei proprio all’indomani dell’annuncio della nuova segreteria, che è stato il frutto di una lunga trattativa.
Elly, come si vince una discussione?
Innanzitutto c’è bisogno di un ingrediente fondamentale, cioè l’essere molto convinti di quello che si dice. Bisogna avere approfondito gli argomenti. Non mi fido dei politici che fanno i tuttologi: ognuno di noi ha il suo percorso di studi e professionale, ed è competente su alcuni temi, sugli altri invece occorre documentarsi, e occorre farlo mettendosi anche nei panni di chi non la pensa come te. Bisogna spiegare le proprie ragioni non con le proprie parole, ma partendo da un punto di vista diverso da quello personale.
Il tuo approccio alla politica segna una discontinuità col passato e forse anche per questo piaci. Come si fa un discorso game-changer?
Io provo semplicemente a guardare bene chi ho davanti, quando parlo. In linea generale penso che dobbiamo riuscire a entrare in connessione con le persone che vogliamo rappresentare e dobbiamo farlo con un linguaggio inclusivo, che si rivolga a tutti e a tutte.
Ok, però ci sono sicuramente dei temi rivoluzionari, tra quelli che affronti…
Sta emergendo una nuova consapevolezza nella società e soprattutto nelle giovani generazioni. C’è una mobilitazione europea che tiene insieme la giustizia sociale e la giustizia climatica, passando per la dignità del lavoro, contro lo sfruttamento e il precariato e per l’uguaglianza nei diritti, nelle opportunità di partenza. Faccio un esempio “londinese”: qualche anno fa andai alla Women’s March on London, si era da poco insediato Trump e in piazza non c’erano solo i movimenti femministi. Partecipavano anche i movimenti ecologisti, i movimenti sindacali, quelli che si battono per il diritto allo studio, chi manifestava solidarietà ai migranti e per il contrasto alla povertà. Era come se tutte queste lotte fossero intrecciate.
In questo momento è molto comune aderire a forme di estremismo che rompono le prassi della comunicazione con metodi piuttosto forti. Come nuoti contro questa deriva politica?
Faccio spesso una battuta: non lasciamo l’internazionalismo ai nazionalisti. Lo dico perché nel mondo c’è ormai una specie di “internazionale di nazionalisti" e questo è un paradosso, cioè, il muro di Orban in qualche modo rafforza i porti chiusi di Salvini e di Meloni, le idee di Farage rimbalzano in quelle di Trump utilizzando la stessa retorica di odio, di intolleranza, scegliendo gli stessi nemici. Facciamoci caso: su cosa costruiscono la loro retorica i nazionalisti? Su un capro espiatorio, l’origine di tutti i mali è chi nelle nostre società fa più fatica. È sempre colpa di una persona “diversa”, di un migrante, di una persona Lgbtq+, di una donna troppo emancipata per i loro gusti. Sono questi i nemici contro cui cercano di costruire un facile consenso.
Come pensi di invertire questa rotta?
Beh, certo non rincorrendo a quel tipo di retorica, ma ribaltandola, e dimostrando che in realtà non c’è un “noi” e un “loro”: la grande avversaria dovrebbe essere la diseguaglianza. Te lo spiego con un’immagine. I nazionalisti puntano il dito verso il basso, cioè dicono: se stai male è perché arriva qualcuno che minaccia la tua situazione – di solito è una persona che sta peggio di te, che ti ruberà il lavoro, che prenderà lo spazio che non hai più tu, che avrà la casa popolare eccetera. Invece dobbiamo spostare quel dito verso l’alto. Si vedrebbe allora che in questi anni c’è chi ha continuato ad arricchirsi in modo sproporzionato, mentre larghe fasce della società si impoverivano. Il problema non è l’ultimo arrivato, magari con una barca attraversando il Mediterraneo, ma è chi ha fatto molti profitti evadendo ed eludendo il fisco, senza quindi contribuire in maniera proporzionata al benessere di tutti gli altri, e ridurre le diseguaglianze.
Come smascherare le ipocrisie che vedi in questa fase storica?
Ti faccio un esempio: quando ero europarlamentare ho lottato molto per riformare il regolamento di Dublino, ma nelle 22 riunioni di negoziati, quando si discuteva per condividere le responsabilità sull’accoglienza tra vari Paesi europei, non ho mai visto la Lega, non ho mai visto la destra che oggi è rappresentata da Giorgia Meloni.
Perché non c’erano?
Il motivo è che non hanno il coraggio di dire ai loro alleati nazionalisti, come Orban, che anche loro devono fare la propria parte nell’accoglienza. E ti faccio un altro esempio: in Europa abbiamo un problema di evasione ed elusione fiscale che sottrae risorse fondamentali agli investimenti per sostenere le imprese nella conversione ecologica, per l’istruzione, per la sanità. Perché lo dobbiamo accettare? Io vorrei vedere i sovranisti, quelli che difendono il diritto di ogni Stato ad agire autonomamente, spiegare come le differenze tra i sistemi fiscali europei concedano ad alcune multinazionali di ottenere delle aliquote prossime allo zero. Vorrei che i nostri nazionalisti andassero da lavoratrici e lavoratori a spiegare che quando difendono la sovranità nazionale stanno difendendo anche quella di alcuni Stati europei a creare delle agevolazioni fiscali enormi per le grandi multinazionali che pagano quasi zero tasse, quando loro, i lavoratori, sono tassati sopra il 40%. Ci sono delle contraddizioni forti in questo fronte di destra e nella sua narrazione. Bisogna avere gli argomenti per riuscire a spiegarlo.
Di sicuro la semplificazione quasi ridicola delle cose sembra avvantaggiare alcune forze politiche a discapito di altre.
Dobbiamo rendere comprensibile la complessità, smontando cioè quella costruzione di consenso tutta basata sulla paura e sulla divisione. Dobbiamo riuscire a contrapporre una speranza di emancipazione che è esattamente l’opposto, e che consiste nel dare a ciascuno una risposta proporzionata ai bisogni che esprime. Ecco un esempio: quando eravamo in mezzo alla pandemia abbiamo fatto delle politiche di supporto alla casa, cioè abbiamo dato dei contributi per l’affitto proporzionati al calo del reddito che le persone avevano avuto a causa del Covid, perché se diamo a ciascuno la risposta commisurata ai suoi bisogni leviamo il terreno a quella narrazione che mette gli uni contro gli altri, più fragili.
Nella tua vita ci sono molte vittorie. Ma qual è il modo migliore per superare un fallimento?
Innanzitutto bisogna accettare che possiamo perdere. Se non si sa perdere, non si può vincere. Detto ciò, quando mi butto con convinzione in una battaglia politica non do mai niente per scontato ma ci metto tutta me stessa. Se perdo, guardo bene in faccia la sconfitta senza negarla, anzi, provo con umiltà a capire come migliorare, come rialzarmi. Nel mondo delle startup ci sono persone ben più autorevoli di me che raccontano come il fallimento sia parte di un percorso che porta a una nuova opportunità. Mi hanno colpito le parole di uno studente di diciotto anni, a Cagliari, in uno degli appuntamenti della mia campagna delle Primarie del Partito Democratico: parlando della scuola e delle uguali opportunità d’accesso a un’istruzione di qualità per tutti i ragazzi, lui ha detto una cosa molto vera, molto forte: non siamo tutti delle eccellenze.
A proposito di eccellenze, tante persone cercano di mantenere livelli disumani di rendimento e poi vanno in burnout. Tu come eviti di “bruciarti”, in un periodo in cui sei tirata da tutte le parti?
Mah, guarda, non ho una ricetta chiara. I rischi ci sono quando hai un lavoro che ti assorbe molto e che magari implica anche una responsabilità verso gli altri. A volte ti senti schiacciato. Io provo a rimanere comunque sempre in contatto con me stessa, ad ascoltarmi, a capire quando sto tirando troppo e a difendere alcuni spazi. Poi la sera cerco di decomprimere guardandomi una serie tv oppure giocando alla PlayStation.
Quali sono le serie o i film più utili, in questo senso?
Come genere amo i gialli con ambientazioni scandinave, paesini di montagna, boschi… Ma sono anche una fan di serie di culto come Stranger Things, Vikings, The Crown.
Nell’adolescenza hai scritto recensioni di film. Quali sono i titoli e i registi che hanno costituito il tuo immaginario?
Premetto che cinematograficamente sono onnivora. Però ho amato molto il cinema di Kim Ki Duk, regista coreano purtroppo scomparso con il Covid. La mia formazione è legata alla frequentazione del Festival del Cinema di Locarno e l’anno che arrivò il suo film Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera io ero nella giuria giovani: l’abbiamo premiato. Il suo è un cinema molto delicato, denso, con una fotografia intensa. Tra gli altri preferiti ci sono i film di Tarantino, di Ken Loach e i classici del cinema italiano - come L’armata Brancaleone - che guardavo in casa grazie alla collezione di videocassette di mio babbo.
Una lezione imparata lavorando alle campagne di Obama?
Nella campagna del 2008 abbiamo iniziato a utilizzare in modo intelligente i social media, anche se eravamo agli albori. Si trattava di una Grassroots Campaign, ogni persona dava un proprio contributo come poteva, e io ero una volontaria. Quando ho partecipato alla seconda campagna, nel 2012, siccome avevo già esperienza, formavo i volontari e c’erano file di persone di ogni estrazione sociale che desideravano partecipare. La lezione più importante che ho imparato è proprio questa: se hai una visione a 360° del futuro che vuoi costruire per il tuo Paese, puoi attrarre persone e realtà molto diverse, che poi si incontrano. Ma ho anche realizzato, dopo la vittoria di Obama nel 2008, che le aspettative molto alte sono un’arma a doppio taglio, perché da un lato ti danno lo slancio, ma è anche facile deluderle, almeno parzialmente.
E tu, personalmente, come riesci a trasmettere fiducia nel futuro?
Tutte le battaglie che ho fatto in questo percorso politico un po’ strano – perché non avrei mai pensato di fare politica in modo così attivo – sono state rafforzate dal farle in maniera plurale, collettiva. È la non-solitudine che ti dà quella speranza e quella fiducia, è il condividere un’idea che ti aiuta a trasmetterla. Lo dico sempre: io non basto, non credo nell’uomo o nella donna soli al comando. Credo nella forza di una mobilitazione collettiva che può cambiare davvero le cose.
Un pensiero molto controcorrente in Italia.
Infatti, perché siamo circondati da partiti personali il cui destino è legato inscindibilmente a quello del leader. Se ho scelto di candidarmi alla guida del Partito Democratico, è perché mi sembra l’unico partito non personale in Italia e questa è la sua grande forza.
Qual è la differenza tra una leadership femminile e una leadership femminista?
Lo dico provocatoriamente verso Giorgia Meloni: non ci serve una premier donna se non si batte per migliorare le condizioni delle altre donne, perché il soffitto di cristallo non lo rompi da sola, è proprio fisica, non lo rompi con un solo punto di pressione. Se la maggioranza delle donne sono ancora discriminate nel lavoro, nell’accesso ai servizi, nel subire violenza di genere, e quindi neanche arrivano a vederlo quel soffitto… A cosa serve una premier donna?
Qual è il tuo processo per prendere decisioni difficili?
Non c’è un iter particolare, ma un metodo - che è quello dell’ascolto anche delle opinioni diverse. Io ho sempre voluto che nella mia squadra ci fosse qualcuno che non la pensava come me, che fosse un po’ più conservatore, così da decidere con equilibrio. Per esempio, durante la pandemia, in Emilia-Romagna, per i problemi dell’educazione ho creato un tavolo in cui sedevano i gestori degli asili, i pedagogisti, la sanità, i sindacati. Eravamo in 70, quindi facevamo discussioni di minimo quattro ore, però uscivamo con scelte molto equilibrate perché tenevano insieme dei punti di vista così preziosi.
Come si naviga in un ambiente di lavoro sciovinista?
Si resiste e soprattutto si cerca di non farsi cambiare, ricordandosi una cosa: non è che siccome “così fan tutti”, allora vuol dire che quello è il modo giusto di fare. Io sono parte di una generazione che aveva un rapporto fratturato con la politica, non ci sentivamo più rappresentati e quindi il primo istinto era dire: “Me ne sto alla larga”. Solo che poi abbiamo capito che in questo modo la davamo vinta a chi la pensava diversamente da noi. Non abbiamo alternative al rimboccarci le maniche e dire: “Io scelgo di essere parte del cambiamento che voglio generare nella società”. Perché se non ti occupi della politica, la politica si occupa comunque di te.
Quali sono tre cose che le persone oggi potrebbero fare per avere un impatto positivo nella loro comunità?
La prima: non cedere all’indifferenza davanti alle ingiustizie, perché le discriminazioni e l’odio trovano terreno fertile proprio nell’indifferenza. La seconda: partecipare. Guardiamoci intorno, siamo in un picco di astensionismo preoccupante, per le ultime elezioni regionali a Roma, nella capitale, ha votato solo il 33% degli aventi diritto, e alle elezioni politiche abbiamo avuto il più alto astensionismo della storia. La maggioranza delle persone che non vanno a votare sono quelle con i redditi bassi, quindi le nostre democrazie stanno rischiando di marginalizzare in modo permanente le fasce più povere delle nostre società. Terza cosa: avere la consapevolezza dell’emergenza climatica in cui siamo immersi, che dipende sì da politiche sbagliate ma anche dai nostri comportamenti individuali, quindi dalla cura che mettiamo verso il pianeta e verso le persone. Queste sono le questioni da tenere bene insieme: giustizia sociale e climatica.
Passando a un argomento più frivolo - ma forse non troppo visto che è parte importante della comunicazione, anche di quella politica - tu credi nel cosiddetto “power dressing”?
Allora, se sapessi che cos’è, ti potrei rispondere! Scherzi a parte, le mie scelte di abbigliamento dipendono sicuramente dalla situazione in cui mi trovo. A volte sono anticonvenzionale, altre volte più formale. In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio.
Parliamo di musica: c’è qualche canzone, qualche band che ti aiuta a darti la carica?
Ti faccio una confessione: sono una grande appassionata di musica e suono il pianoforte da quando avevo 5 anni, anche se non sono mai stata costante. Durante le lezioni di pianoforte facevo arrabbiare il maestro perché ogni tanto mi addormentavo sulla tastiera. Poi ho continuato, da autodidatta, senza grandi risultati, fino a quando ho comprato di nascosto coi miei risparmi una chitarra elettrica, avrò avuto 15 anni, per strimpellarla in qualche band. In questi ultimi tempi ho avuto poco tempo per ascoltare musica e ho capito che questo incide negativamente sulle mie giornate, sul mio umore. Come per il cinema, devo dirti che ascolto cose molto varie, ma soprattutto musica indie come i Mumford & Sons, i Radiohead e i canadesi Rural Alberta Advantage - una loro canzone, Four Night Rider, mi dà sempre la carica.
Come mai ti piacciono tanto?
Il batterista, Paul Banwatt, ha un modo di suonare molto particolare, tutto sincopato, è come se fosse una voce in più.
Li hai mai sentiti dal vivo?
Sì, una volta sono partita da sola, come una pazza, alla volta di Amsterdam per andare a un loro concerto, poi dopo lo show sono andata a cercarli e li ho conosciuti in un whisky bar di Amsterdam, dove abbiamo passato il resto della notte a chiacchierare ed è nata una cosa bella, ci siamo anche rivisti quando sono venuti a Varese a suonare. Ti svelo un altro ricordo, a cui sono molto legata: ero a Bologna, ai tempi dell’università, una mattina mi sveglio e guardo fuori nel mio cortiletto, tutto bianco, intonso, grazie a una nevicata pazzesca. Allora lego il cellulare a una pentola e la pentola alla finestra, perché allora non c’erano selfie stick e compagnia bella, e comincio a filmare, prendo la chitarra elettrica e suono proprio Four Night Rider nella neve, facendo cose pazze. Quel video ce l’ho ancora, mi piace riguardarlo.
A questo punto voglio proprio ascoltarmela, questa canzone! Ma invece, parlando di attivisti e leader politici, chi sono quelli che ammiri di più?
Sicuramente guardo con molta attenzione questa nuova generazione di leader femministe che si battono per la giustizia sociale e per la giustizia climatica. Ho molta stima di Alexandria Ocasio-Cortez, di Ayanna Pressley, Ilhan Omar e Rashida Tlaib – sono una squadra, c’è una leadership condivisa, plurale. Ho molto apprezzato Jacinda Ardern, la premier neozelandese che ha recentemente concluso la sua esperienza di governo. Credo che a un avanzamento sul terreno delle politiche di contrasto all’emergenza climatica abbiano contribuito le mobilitazioni di Fridays for Future partite da attiviste come Greta Thunberg e Vanessa Nakate. E vorrei ricordare un’altra attivista, la brasiliana Marielle Franco, purtroppo uccisa a causa della sua lotta per l’emancipazione delle persone che vivono nelle favelas.
So che tu non hai l’automobile. Parliamo di mobilità sostenibile, bicicletta, treno…
Uso molto la bicicletta, o meglio la usavo perché me ne hanno rubate due nel giro di sei mesi e sono rimasta un po’ traumatizzata. Viaggio spessissimo in treno. Ma soprattutto mi interessa capire quali politiche mettiamo in campo per sostenere questa svolta nei trasporti. Faccio un esempio. Durante la pandemia, in Emilia-Romagna, abbiamo investito per rendere gratuito il trasporto pubblico locale per i giovani fino ai 19 anni, soprattutto nelle fasce di reddito più basse. Questo significa tenere insieme giustizia sociale e climatica, perché facciamo risparmiare una famiglia e al contempo creiamo una cultura di mobilità sostenibile alternativa. L’Italia è un Paese che può investire moltissimo sul cicloturismo, ormai alla portata di tutti anche grazie alla mobilità elettrica. Chi pensa che sia un argomento di nicchia non ha visto le stime, secondo cui porterebbe un indotto di più di 40 miliardi di euro all’anno in Europa. Inoltre le ciclovie possono generare nuova occupazione: 1 km di pista ciclabile fatta bene può creare 4/5 posti di lavoro. Insomma, investire sul turismo sostenibile, sul turismo lento, è anche una via per fare buona impresa e sviluppare lavoro di qualità.
Cos’altro possiamo fare in concreto per combattere il cambiamento climatico su base individuale?
Possiamo ridurre l’utilizzo della plastica, fare la raccolta differenziata che sostiene l’economia circolare. Questi sono i principi importanti, ma bisogna essere facilitati da politiche pubbliche adeguate, che abbandonino la dipendenza dalle fonti fossili. L’Earth Overshoot Day, che segnala quando abbiamo già consumato le risorse naturali che possono essere rigenerate dal pianeta, ogni anno arriva sempre prima. Quindi dobbiamo riuscire a spingere sull’energia pulita e rinnovabile, sole, vento, acqua. In Italia abbiamo un grande potenziale, ma purtroppo non c’è ancora un piano industriale verde. Altro esempio concreto sono le comunità energetiche, poco conosciute ma molto efficienti: permettono alle persone, alle aziende, ai comuni, alle scuole di autoprodurre energia pulita e rinnovabile, magari con i pannelli solari sui tetti, per condividerla e scambiarla. Questo è un “win win”, perché realizza una doppia convenienza: da un lato si risparmia in bolletta, e dall’altra parte si riducono le emissioni.
Come trovi un equilibrio tra vita privata e vita pubblica?
Guarda, sono un disastro. Il crescente impegno politico ha implicato molte rinunce, per una come me che all’università, a Bologna, usciva praticamente tutte le sere. Ora questa parte è molto ridotta, cerco di difendere gli spazi di vita personale ma non è facile.
In effetti è successo che un magazine abbia invaso la tua privacy, pubblicando la foto della tua compagna. Come ti sei sentita quando è successo?
È stato un outing, che è sempre una forma di violenza come lei ha chiarito. Io concordo pienamente.
Come ti vuoi battere per i diritti Lgbtq+ in Italia?
Innanzitutto vorrei ridurre la distanza che ci divide dai Paesi del Nord Europa. Noi non abbiamo nemmeno una legge contro l’odio e la discriminazione, quella che ha portato avanti Alessandro Zan, con cui lavoriamo tutti i giorni, affossata dalla destra con quel vergognoso applauso nell’Aula del Senato. Lo ricordi?
Certamente.
Quello è, diciamo, un minimo sindacale. Poi naturalmente ci stiamo battendo per il matrimonio egualitario. Love is love: questo è lo slogan con cui accompagniamo le associazioni nella battaglia. Ma mancano anche i diritti delle figlie, dei figli delle coppie omogenitoriali, per cui abbiamo molti passi avanti da fare. E occorre farlo con una mobilitazione permanente, cercando il supporto dei sindaci e tentando di portare avanti questa battaglia in Parlamento.
Giugno, che è ormai alle porte, è anche il mese del Pride. Come lo celebri e cosa rappresenta per te?
È un mese di orgoglio e di rivendicazione. Come tante e tanti altri, lo celebro andando alle manifestazioni nelle città, molto partecipate non solo dalla comunità Lgbtq+, ma da tutti quelli che non vogliono vivere nel Medioevo dei diritti e andare verso l’Europa e verso il futuro.
Elly Schlein ha fatto alla politica quello che i Måneskin hanno fatto alla musica italiana. L’ha svecchiata, demascolinizzata e proiettata in un agone internazionale. Da quando è stata scelta alla guida del Partito Democratico il 26 febbraio - prima donna a ricoprire questo ruolo - la 37enne ex-europarlamentare già vicepresidente della Regione Emilia-Romagna non ha concesso interviste ai magazine. Eppure (o forse proprio per questo) tutti la vogliono, tutti la inseguono, tutti desiderano capire dove porterà la sinistra.
Io sono riuscito a intercettarla brevemente alla manifestazione milanese per i diritti delle Famiglie Arcobaleno - una delle battaglie a cui tiene in modo particolare, come ha detto alla folla e ai cronisti. Da quel momento, in un continuo rollercoaster di eventi politici e no, Elly è volata a Bruxelles per discutere con i dirigenti socialisti europei, ha annunciato la nuova segreteria del Partito Democratico formata in parti uguali da uomini e donne (tra cui Marwa Mahmoud, di origine egiziana), e ha subito indirettamente l’outing alla sua compagna Paola Belloni, finora rimasta lontana dai media. Riesco a parlare con lei proprio all’indomani dell’annuncio della nuova segreteria, che è stato il frutto di una lunga trattativa.
Elly, come si vince una discussione?
Innanzitutto c’è bisogno di un ingrediente fondamentale, cioè l’essere molto convinti di quello che si dice. Bisogna avere approfondito gli argomenti. Non mi fido dei politici che fanno i tuttologi: ognuno di noi ha il suo percorso di studi e professionale, ed è competente su alcuni temi, sugli altri invece occorre documentarsi, e occorre farlo mettendosi anche nei panni di chi non la pensa come te. Bisogna spiegare le proprie ragioni non con le proprie parole, ma partendo da un punto di vista diverso da quello personale.
Il tuo approccio alla politica segna una discontinuità col passato e forse anche per questo piaci. Come si fa un discorso game-changer?
Io provo semplicemente a guardare bene chi ho davanti, quando parlo. In linea generale penso che dobbiamo riuscire a entrare in connessione con le persone che vogliamo rappresentare e dobbiamo farlo con un linguaggio inclusivo, che si rivolga a tutti e a tutte.
Ok, però ci sono sicuramente dei temi rivoluzionari, tra quelli che affronti…
Sta emergendo una nuova consapevolezza nella società e soprattutto nelle giovani generazioni. C’è una mobilitazione europea che tiene insieme la giustizia sociale e la giustizia climatica, passando per la dignità del lavoro, contro lo sfruttamento e il precariato e per l’uguaglianza nei diritti, nelle opportunità di partenza. Faccio un esempio “londinese”: qualche anno fa andai alla Women’s March on London, si era da poco insediato Trump e in piazza non c’erano solo i movimenti femministi. Partecipavano anche i movimenti ecologisti, i movimenti sindacali, quelli che si battono per il diritto allo studio, chi manifestava solidarietà ai migranti e per il contrasto alla povertà. Era come se tutte queste lotte fossero intrecciate.
In questo momento è molto comune aderire a forme di estremismo che rompono le prassi della comunicazione con metodi piuttosto forti. Come nuoti contro questa deriva politica?
Faccio spesso una battuta: non lasciamo l’internazionalismo ai nazionalisti. Lo dico perché nel mondo c’è ormai una specie di “internazionale di nazionalisti" e questo è un paradosso, cioè, il muro di Orban in qualche modo rafforza i porti chiusi di Salvini e di Meloni, le idee di Farage rimbalzano in quelle di Trump utilizzando la stessa retorica di odio, di intolleranza, scegliendo gli stessi nemici. Facciamoci caso: su cosa costruiscono la loro retorica i nazionalisti? Su un capro espiatorio, l’origine di tutti i mali è chi nelle nostre società fa più fatica. È sempre colpa di una persona “diversa”, di un migrante, di una persona Lgbtq+, di una donna troppo emancipata per i loro gusti. Sono questi i nemici contro cui cercano di costruire un facile consenso.
Come pensi di invertire questa rotta?
Beh, certo non rincorrendo a quel tipo di retorica, ma ribaltandola, e dimostrando che in realtà non c’è un “noi” e un “loro”: la grande avversaria dovrebbe essere la diseguaglianza. Te lo spiego con un’immagine. I nazionalisti puntano il dito verso il basso, cioè dicono: se stai male è perché arriva qualcuno che minaccia la tua situazione – di solito è una persona che sta peggio di te, che ti ruberà il lavoro, che prenderà lo spazio che non hai più tu, che avrà la casa popolare eccetera. Invece dobbiamo spostare quel dito verso l’alto. Si vedrebbe allora che in questi anni c’è chi ha continuato ad arricchirsi in modo sproporzionato, mentre larghe fasce della società si impoverivano. Il problema non è l’ultimo arrivato, magari con una barca attraversando il Mediterraneo, ma è chi ha fatto molti profitti evadendo ed eludendo il fisco, senza quindi contribuire in maniera proporzionata al benessere di tutti gli altri, e ridurre le diseguaglianze.
Come smascherare le ipocrisie che vedi in questa fase storica?
Ti faccio un esempio: quando ero europarlamentare ho lottato molto per riformare il regolamento di Dublino, ma nelle 22 riunioni di negoziati, quando si discuteva per condividere le responsabilità sull’accoglienza tra vari Paesi europei, non ho mai visto la Lega, non ho mai visto la destra che oggi è rappresentata da Giorgia Meloni.
Perché non c’erano?
Il motivo è che non hanno il coraggio di dire ai loro alleati nazionalisti, come Orban, che anche loro devono fare la propria parte nell’accoglienza. E ti faccio un altro esempio: in Europa abbiamo un problema di evasione ed elusione fiscale che sottrae risorse fondamentali agli investimenti per sostenere le imprese nella conversione ecologica, per l’istruzione, per la sanità. Perché lo dobbiamo accettare? Io vorrei vedere i sovranisti, quelli che difendono il diritto di ogni Stato ad agire autonomamente, spiegare come le differenze tra i sistemi fiscali europei concedano ad alcune multinazionali di ottenere delle aliquote prossime allo zero. Vorrei che i nostri nazionalisti andassero da lavoratrici e lavoratori a spiegare che quando difendono la sovranità nazionale stanno difendendo anche quella di alcuni Stati europei a creare delle agevolazioni fiscali enormi per le grandi multinazionali che pagano quasi zero tasse, quando loro, i lavoratori, sono tassati sopra il 40%. Ci sono delle contraddizioni forti in questo fronte di destra e nella sua narrazione. Bisogna avere gli argomenti per riuscire a spiegarlo.
Di sicuro la semplificazione quasi ridicola delle cose sembra avvantaggiare alcune forze politiche a discapito di altre.
Dobbiamo rendere comprensibile la complessità, smontando cioè quella costruzione di consenso tutta basata sulla paura e sulla divisione. Dobbiamo riuscire a contrapporre una speranza di emancipazione che è esattamente l’opposto, e che consiste nel dare a ciascuno una risposta proporzionata ai bisogni che esprime. Ecco un esempio: quando eravamo in mezzo alla pandemia abbiamo fatto delle politiche di supporto alla casa, cioè abbiamo dato dei contributi per l’affitto proporzionati al calo del reddito che le persone avevano avuto a causa del Covid, perché se diamo a ciascuno la risposta commisurata ai suoi bisogni leviamo il terreno a quella narrazione che mette gli uni contro gli altri, più fragili.
Nella tua vita ci sono molte vittorie. Ma qual è il modo migliore per superare un fallimento?
Innanzitutto bisogna accettare che possiamo perdere. Se non si sa perdere, non si può vincere. Detto ciò, quando mi butto con convinzione in una battaglia politica non do mai niente per scontato ma ci metto tutta me stessa. Se perdo, guardo bene in faccia la sconfitta senza negarla, anzi, provo con umiltà a capire come migliorare, come rialzarmi. Nel mondo delle startup ci sono persone ben più autorevoli di me che raccontano come il fallimento sia parte di un percorso che porta a una nuova opportunità. Mi hanno colpito le parole di uno studente di diciotto anni, a Cagliari, in uno degli appuntamenti della mia campagna delle Primarie del Partito Democratico: parlando della scuola e delle uguali opportunità d’accesso a un’istruzione di qualità per tutti i ragazzi, lui ha detto una cosa molto vera, molto forte: non siamo tutti delle eccellenze.
A proposito di eccellenze, tante persone cercano di mantenere livelli disumani di rendimento e poi vanno in burnout. Tu come eviti di “bruciarti”, in un periodo in cui sei tirata da tutte le parti?
Mah, guarda, non ho una ricetta chiara. I rischi ci sono quando hai un lavoro che ti assorbe molto e che magari implica anche una responsabilità verso gli altri. A volte ti senti schiacciato. Io provo a rimanere comunque sempre in contatto con me stessa, ad ascoltarmi, a capire quando sto tirando troppo e a difendere alcuni spazi. Poi la sera cerco di decomprimere guardandomi una serie tv oppure giocando alla PlayStation.
Quali sono le serie o i film più utili, in questo senso?
Come genere amo i gialli con ambientazioni scandinave, paesini di montagna, boschi… Ma sono anche una fan di serie di culto come Stranger Things, Vikings, The Crown.
Nell’adolescenza hai scritto recensioni di film. Quali sono i titoli e i registi che hanno costituito il tuo immaginario?
Premetto che cinematograficamente sono onnivora. Però ho amato molto il cinema di Kim Ki Duk, regista coreano purtroppo scomparso con il Covid. La mia formazione è legata alla frequentazione del Festival del Cinema di Locarno e l’anno che arrivò il suo film Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera io ero nella giuria giovani: l’abbiamo premiato. Il suo è un cinema molto delicato, denso, con una fotografia intensa. Tra gli altri preferiti ci sono i film di Tarantino, di Ken Loach e i classici del cinema italiano - come L’armata Brancaleone - che guardavo in casa grazie alla collezione di videocassette di mio babbo.
Una lezione imparata lavorando alle campagne di Obama?
Nella campagna del 2008 abbiamo iniziato a utilizzare in modo intelligente i social media, anche se eravamo agli albori. Si trattava di una Grassroots Campaign, ogni persona dava un proprio contributo come poteva, e io ero una volontaria. Quando ho partecipato alla seconda campagna, nel 2012, siccome avevo già esperienza, formavo i volontari e c’erano file di persone di ogni estrazione sociale che desideravano partecipare. La lezione più importante che ho imparato è proprio questa: se hai una visione a 360° del futuro che vuoi costruire per il tuo Paese, puoi attrarre persone e realtà molto diverse, che poi si incontrano. Ma ho anche realizzato, dopo la vittoria di Obama nel 2008, che le aspettative molto alte sono un’arma a doppio taglio, perché da un lato ti danno lo slancio, ma è anche facile deluderle, almeno parzialmente.
E tu, personalmente, come riesci a trasmettere fiducia nel futuro?
Tutte le battaglie che ho fatto in questo percorso politico un po’ strano – perché non avrei mai pensato di fare politica in modo così attivo – sono state rafforzate dal farle in maniera plurale, collettiva. È la non-solitudine che ti dà quella speranza e quella fiducia, è il condividere un’idea che ti aiuta a trasmetterla. Lo dico sempre: io non basto, non credo nell’uomo o nella donna soli al comando. Credo nella forza di una mobilitazione collettiva che può cambiare davvero le cose.
Un pensiero molto controcorrente in Italia.
Infatti, perché siamo circondati da partiti personali il cui destino è legato inscindibilmente a quello del leader. Se ho scelto di candidarmi alla guida del Partito Democratico, è perché mi sembra l’unico partito non personale in Italia e questa è la sua grande forza.
Qual è la differenza tra una leadership femminile e una leadership femminista?
Lo dico provocatoriamente verso Giorgia Meloni: non ci serve una premier donna se non si batte per migliorare le condizioni delle altre donne, perché il soffitto di cristallo non lo rompi da sola, è proprio fisica, non lo rompi con un solo punto di pressione. Se la maggioranza delle donne sono ancora discriminate nel lavoro, nell’accesso ai servizi, nel subire violenza di genere, e quindi neanche arrivano a vederlo quel soffitto… A cosa serve una premier donna?
Qual è il tuo processo per prendere decisioni difficili?
Non c’è un iter particolare, ma un metodo - che è quello dell’ascolto anche delle opinioni diverse. Io ho sempre voluto che nella mia squadra ci fosse qualcuno che non la pensava come me, che fosse un po’ più conservatore, così da decidere con equilibrio. Per esempio, durante la pandemia, in Emilia-Romagna, per i problemi dell’educazione ho creato un tavolo in cui sedevano i gestori degli asili, i pedagogisti, la sanità, i sindacati. Eravamo in 70, quindi facevamo discussioni di minimo quattro ore, però uscivamo con scelte molto equilibrate perché tenevano insieme dei punti di vista così preziosi.
Come si naviga in un ambiente di lavoro sciovinista?
Si resiste e soprattutto si cerca di non farsi cambiare, ricordandosi una cosa: non è che siccome “così fan tutti”, allora vuol dire che quello è il modo giusto di fare. Io sono parte di una generazione che aveva un rapporto fratturato con la politica, non ci sentivamo più rappresentati e quindi il primo istinto era dire: “Me ne sto alla larga”. Solo che poi abbiamo capito che in questo modo la davamo vinta a chi la pensava diversamente da noi. Non abbiamo alternative al rimboccarci le maniche e dire: “Io scelgo di essere parte del cambiamento che voglio generare nella società”. Perché se non ti occupi della politica, la politica si occupa comunque di te.
Quali sono tre cose che le persone oggi potrebbero fare per avere un impatto positivo nella loro comunità?
La prima: non cedere all’indifferenza davanti alle ingiustizie, perché le discriminazioni e l’odio trovano terreno fertile proprio nell’indifferenza. La seconda: partecipare. Guardiamoci intorno, siamo in un picco di astensionismo preoccupante, per le ultime elezioni regionali a Roma, nella capitale, ha votato solo il 33% degli aventi diritto, e alle elezioni politiche abbiamo avuto il più alto astensionismo della storia. La maggioranza delle persone che non vanno a votare sono quelle con i redditi bassi, quindi le nostre democrazie stanno rischiando di marginalizzare in modo permanente le fasce più povere delle nostre società. Terza cosa: avere la consapevolezza dell’emergenza climatica in cui siamo immersi, che dipende sì da politiche sbagliate ma anche dai nostri comportamenti individuali, quindi dalla cura che mettiamo verso il pianeta e verso le persone. Queste sono le questioni da tenere bene insieme: giustizia sociale e climatica.
Passando a un argomento più frivolo - ma forse non troppo visto che è parte importante della comunicazione, anche di quella politica - tu credi nel cosiddetto “power dressing”?
Allora, se sapessi che cos’è, ti potrei rispondere! Scherzi a parte, le mie scelte di abbigliamento dipendono sicuramente dalla situazione in cui mi trovo. A volte sono anticonvenzionale, altre volte più formale. In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio.
Parliamo di musica: c’è qualche canzone, qualche band che ti aiuta a darti la carica?
Ti faccio una confessione: sono una grande appassionata di musica e suono il pianoforte da quando avevo 5 anni, anche se non sono mai stata costante. Durante le lezioni di pianoforte facevo arrabbiare il maestro perché ogni tanto mi addormentavo sulla tastiera. Poi ho continuato, da autodidatta, senza grandi risultati, fino a quando ho comprato di nascosto coi miei risparmi una chitarra elettrica, avrò avuto 15 anni, per strimpellarla in qualche band. In questi ultimi tempi ho avuto poco tempo per ascoltare musica e ho capito che questo incide negativamente sulle mie giornate, sul mio umore. Come per il cinema, devo dirti che ascolto cose molto varie, ma soprattutto musica indie come i Mumford & Sons, i Radiohead e i canadesi Rural Alberta Advantage - una loro canzone, Four Night Rider, mi dà sempre la carica.
Come mai ti piacciono tanto?
Il batterista, Paul Banwatt, ha un modo di suonare molto particolare, tutto sincopato, è come se fosse una voce in più.
Li hai mai sentiti dal vivo?
Sì, una volta sono partita da sola, come una pazza, alla volta di Amsterdam per andare a un loro concerto, poi dopo lo show sono andata a cercarli e li ho conosciuti in un whisky bar di Amsterdam, dove abbiamo passato il resto della notte a chiacchierare ed è nata una cosa bella, ci siamo anche rivisti quando sono venuti a Varese a suonare. Ti svelo un altro ricordo, a cui sono molto legata: ero a Bologna, ai tempi dell’università, una mattina mi sveglio e guardo fuori nel mio cortiletto, tutto bianco, intonso, grazie a una nevicata pazzesca. Allora lego il cellulare a una pentola e la pentola alla finestra, perché allora non c’erano selfie stick e compagnia bella, e comincio a filmare, prendo la chitarra elettrica e suono proprio Four Night Rider nella neve, facendo cose pazze. Quel video ce l’ho ancora, mi piace riguardarlo.
A questo punto voglio proprio ascoltarmela, questa canzone! Ma invece, parlando di attivisti e leader politici, chi sono quelli che ammiri di più?
Sicuramente guardo con molta attenzione questa nuova generazione di leader femministe che si battono per la giustizia sociale e per la giustizia climatica. Ho molta stima di Alexandria Ocasio-Cortez, di Ayanna Pressley, Ilhan Omar e Rashida Tlaib – sono una squadra, c’è una leadership condivisa, plurale. Ho molto apprezzato Jacinda Ardern, la premier neozelandese che ha recentemente concluso la sua esperienza di governo. Credo che a un avanzamento sul terreno delle politiche di contrasto all’emergenza climatica abbiano contribuito le mobilitazioni di Fridays for Future partite da attiviste come Greta Thunberg e Vanessa Nakate. E vorrei ricordare un’altra attivista, la brasiliana Marielle Franco, purtroppo uccisa a causa della sua lotta per l’emancipazione delle persone che vivono nelle favelas.
So che tu non hai l’automobile. Parliamo di mobilità sostenibile, bicicletta, treno…
Uso molto la bicicletta, o meglio la usavo perché me ne hanno rubate due nel giro di sei mesi e sono rimasta un po’ traumatizzata. Viaggio spessissimo in treno. Ma soprattutto mi interessa capire quali politiche mettiamo in campo per sostenere questa svolta nei trasporti. Faccio un esempio. Durante la pandemia, in Emilia-Romagna, abbiamo investito per rendere gratuito il trasporto pubblico locale per i giovani fino ai 19 anni, soprattutto nelle fasce di reddito più basse. Questo significa tenere insieme giustizia sociale e climatica, perché facciamo risparmiare una famiglia e al contempo creiamo una cultura di mobilità sostenibile alternativa. L’Italia è un Paese che può investire moltissimo sul cicloturismo, ormai alla portata di tutti anche grazie alla mobilità elettrica. Chi pensa che sia un argomento di nicchia non ha visto le stime, secondo cui porterebbe un indotto di più di 40 miliardi di euro all’anno in Europa. Inoltre le ciclovie possono generare nuova occupazione: 1 km di pista ciclabile fatta bene può creare 4/5 posti di lavoro. Insomma, investire sul turismo sostenibile, sul turismo lento, è anche una via per fare buona impresa e sviluppare lavoro di qualità.
Cos’altro possiamo fare in concreto per combattere il cambiamento climatico su base individuale?
Possiamo ridurre l’utilizzo della plastica, fare la raccolta differenziata che sostiene l’economia circolare. Questi sono i principi importanti, ma bisogna essere facilitati da politiche pubbliche adeguate, che abbandonino la dipendenza dalle fonti fossili. L’Earth Overshoot Day, che segnala quando abbiamo già consumato le risorse naturali che possono essere rigenerate dal pianeta, ogni anno arriva sempre prima. Quindi dobbiamo riuscire a spingere sull’energia pulita e rinnovabile, sole, vento, acqua. In Italia abbiamo un grande potenziale, ma purtroppo non c’è ancora un piano industriale verde. Altro esempio concreto sono le comunità energetiche, poco conosciute ma molto efficienti: permettono alle persone, alle aziende, ai comuni, alle scuole di autoprodurre energia pulita e rinnovabile, magari con i pannelli solari sui tetti, per condividerla e scambiarla. Questo è un “win win”, perché realizza una doppia convenienza: da un lato si risparmia in bolletta, e dall’altra parte si riducono le emissioni.
Come trovi un equilibrio tra vita privata e vita pubblica?
Guarda, sono un disastro. Il crescente impegno politico ha implicato molte rinunce, per una come me che all’università, a Bologna, usciva praticamente tutte le sere. Ora questa parte è molto ridotta, cerco di difendere gli spazi di vita personale ma non è facile.
In effetti è successo che un magazine abbia invaso la tua privacy, pubblicando la foto della tua compagna. Come ti sei sentita quando è successo?
È stato un outing, che è sempre una forma di violenza come lei ha chiarito. Io concordo pienamente.
Come ti vuoi battere per i diritti Lgbtq+ in Italia?
Innanzitutto vorrei ridurre la distanza che ci divide dai Paesi del Nord Europa. Noi non abbiamo nemmeno una legge contro l’odio e la discriminazione, quella che ha portato avanti Alessandro Zan, con cui lavoriamo tutti i giorni, affossata dalla destra con quel vergognoso applauso nell’Aula del Senato. Lo ricordi?
Certamente.
Quello è, diciamo, un minimo sindacale. Poi naturalmente ci stiamo battendo per il matrimonio egualitario. Love is love: questo è lo slogan con cui accompagniamo le associazioni nella battaglia. Ma mancano anche i diritti delle figlie, dei figli delle coppie omogenitoriali, per cui abbiamo molti passi avanti da fare. E occorre farlo con una mobilitazione permanente, cercando il supporto dei sindaci e tentando di portare avanti questa battaglia in Parlamento.
Giugno, che è ormai alle porte, è anche il mese del Pride. Come lo celebri e cosa rappresenta per te?
È un mese di orgoglio e di rivendicazione. Come tante e tanti altri, lo celebro andando alle manifestazioni nelle città, molto partecipate non solo dalla comunità Lgbtq+, ma da tutti quelli che non vogliono vivere nel Medioevo dei diritti e andare verso l’Europa e verso il futuro.