L’Italia cresce
Presidente Renzi, il Paese appare ancora fermo. Tassi ai minimi, euro più debole, prezzo del petrolio basso: eppure la ripresa è ancora fiacca. È sicuro che ci siano le condizioni per predicare ottimismo?
«Ho una lettura diversa. Il Paese non mi sembra fermo e al contrario vedo tanta energia. Dopo anni di palude, il Parlamento approva le riforme. L’Expo è una scommessa vinta contro il parere di molti. Gli indici di fiducia e i consumi tornano a crescere. Il turismo tira, in particolare al Sud. Si respira un clima di ripartenza. Dopo anni di segno negativo torniamo a crescere».
Cresciamo poco.
«Vero. Non mi accontento dello zero virgola, ma vorrei ricordare che i precedenti governi avevano un netto segno “meno”. Adesso siamo al “più”. Cresciamo all’incirca come Francia e Germania: poco, ma finalmente come loro. Negli ultimi anni, invece, mentre loro crescevano noi perdevamo posizioni. In un anno abbiamo fatto legge elettorale, riforma del lavoro e della pubblica amministrazione, della scuola, delle banche popolari: una riforma che era nell’agenda del governo D’Alema, ministro del Tesoro Ciampi, direttore generale Draghi; allora furono costretti a fermarsi, noi non ci siamo fermati. Abbiamo rinnovato i vertici di Cdp e Rai, risolto 43 crisi aziendali, riaperto fabbriche da Taranto a Terni, approvato la responsabilità civile e il divorzio breve. E finisco qui altrimenti addormento subito i lettori. L’Italia è in movimento, altro che ferma. Con buona pace di Salvini che organizza manifestazioni per “bloccare l’Italia”: sono vent’anni che siamo bloccati, ora è il momento di correre. Voglio proprio vedere quanti imprenditori del Nord-Est fermeranno le aziende per la serrata della Lega».
Sui nuovi contratti a tempo indeterminato avete fatto una magra figura. Cos’ha detto al ministro Poletti quando per sbaglio ne ha raddoppiato il numero?
«Non gli ho detto nulla, io. Ma avrei voluto essere una mosca per sentire quello che Poletti ha detto ai suoi, magari in slang imolese: spero gliene abbia cantate quattro. Comunque i numeri dei contratti a tempo indeterminato sono buoni, anche dopo la correzione. Gli occupati crescono, i cassintegrati scendono, la ripresa c’è. Non è la prima volta che si fa confusione sui numeri, spero sia l’ultima».
Prodi le dice che non si abbassano le tasse su Twitter. Tutti le chiedono dove trova i soldi.
«Io le tasse le ho abbassate sul serio. Mi riferisco innanzitutto agli 80 euro; Prodi forse non lo ricorda perché non rientra nella categoria, ma chi guadagna meno di 1.500 euro al mese se n’è accorto eccome. Mi riferisco poi alle misure sul lavoro, dall’Irap agli sgravi contributivi per i neoassunti. Adesso la casa con l’azzeramento di Tasi e Imu, quindi l’Ires per le aziende nel 2017 e l’Irpef nel 2018. Non ci sarà nessun taglio alla sanità per non far pagare il ricco. Magari nella sanità ci sarà qualche poltrona Asl in meno e qualche costo standard in più. Ma sono tagli agli sprechi, non alla sanità».
Ci saranno interventi sulle pensioni più alte?
«No, non sono all’ordine del giorno».
Non è che i soldi li troverete facendo altro deficit? Come sono davvero i rapporti con la Merkel? Pensa di convincerla ad allentare i vincoli di bilancio?
«Con la cancelliera Merkel il rapporto è buono e la preoccupazione comune è quella di evitare il declino dell’ideale europeo. Su questo c’è sintonia di vedute. Rispetto al bilancio, lei non è la nostra giudice. Anzi! Anche la Germania deve cambiare, stimolando la domanda interna e facendo a sua volta riforme strutturali nei settori in cui è più indietro. Ci sono delle regole nell’Unione. E il nostro semestre ha cercato di mitigare il rigore con la flessibilità. Per la prima volta, grazie al lavoro di tutti a partire da Padoan, abbiamo ottenuto la possibilità di uno spazio di patto di circa l’1%, 17 miliardi di euro. Cercheremo di usare parte di quello. Quanto al deficit: siamo tra i pochi Paesi europei che rispettano la soglia del 3%, continueremo a farlo».
Abolire la tassa sulla prima casa è una battaglia berlusconiana. O no?
«Abolire la tassa sulla prima casa significa mettere fine a un tormentone decennale. E in un Paese che ha l’81% di proprietari di prima casa è anche un fatto di equità, non è certo un favore ai super ricchi. Se poi ora ripartirà l’edilizia - anche solo per un fatto psicologico - per noi sarà tutto di guadagnato. Lo aveva proposto Berlusconi? Certo. Che male c’è? Questo approccio per cui se una cosa l’ha proposta Berlusconi allora è sbagliata è figlio di una visione ideologica».
Lei ha detto che il Paese è rimasto bloccato per vent’anni dallo scontro tra berlusconismo e antiberlusconismo. Sono due attitudini che si possono mettere sullo stesso piano?
«Il berlusconismo è ciò che, piaccia o non piaccia, resterà nei libri di scuola di questo ventennio. Berlusconi è stato il leader più longevo della storia repubblicana. Ma ha sciupato questa occasione, perdendo la chance di modernizzare il Paese, sostituendo l’interesse nazionale con il suo. In questo senso il berlusconismo ha bloccato l’Italia. E l’antiberlusconismo - che è cosa molto diversa dall’Ulivo - ne è l’altra faccia: un movimento culturale e politico che non si preoccupava di definire una strategia coerente per il futuro, ma semplicemente di abbattere Berlusconi. Una grande coalizione contro una persona».
Quindi lei non si sente antiberlusconiano?
«Io non mi definisco contro qualcuno, mai. Non sono contro Berlusconi, ma per l’Italia: ero per l’Ulivo, non contro gli altri. Certo, oggi siamo al paradosso che chi a sinistra ha ucciso l’Ulivo, segandone i rami e promuovendo convegni come Gargonza per rilevarne l’insufficienza, si erga a paladino dell’ulivismo. Comunque non è un caso se nessun governo del centrosinistra in quegli anni abbia avuto la forza di durare una legislatura. Perché? Perché stavano insieme contro qualcuno, non per qualcosa. Alla prova del governo la sinistra ha fatto nettamente meglio della destra, per me. Ma se il governo D’Alema avesse avuto la forza di fare quello che hanno fatto Blair e Schröder sul mondo del lavoro avremmo avuto il Jobs act vent’anni prima».
Sulla riforma del Senato c’è il rischio di una crisi di governo? E se cade il suo governo si va al voto anticipato?
«Non vedo nessun rischio».
Come fa a esserne così certo?
«Se vogliamo fare una forzatura sul testo uscito dalla Camera, i numeri ci sono, come sempre ci sono stati. Chi ci dice che mancano i numeri sono gli stessi che dicevano che mancavano i voti sulla legge elettorale, sulla scuola, sulla Rai, sul Quirinale. Se vogliamo forzare possiamo farlo. Ma noi fino alla fine cerchiamo, come sempre, un punto d’incontro».
Se i voti ci sono, ci sono anche grazie a Verdini. Non la imbarazza?
«E perché? Il gruppo di Verdini ha già votato le riforme al primo giro. Mi stupirei del contrario. La mia minoranza firma gli emendamenti con Calderoli e Salvini, Grillo e Brunetta; e dovrei imbarazzarmi per il voto di chi già ha sostenuto questa riforma? Dovrei chiedergli: scusa, Verdini, stavolta puoi votare contro se no quelli della mia minoranza ci rimangono male?».
La sinistra Pd chiede il Senato elettivo. Cosa risponde?
«L’elettività diretta presenta due problemi. Uno è politico: il Senato non dà la fiducia al governo; in questi casi l’esperienza internazionale ci mostra preferibile l’elezione indiretta. Uno è tecnico: l’elezione diretta è già stata esclusa con doppio voto di Camera e Senato. Rivotare una cosa già votata due volte sarebbe un colpo incredibile a un principio che vige da decenni. Ma non è il passaggio più delicato della riforma: una soluzione si può trovare. Non abbiamo mai fatto le barricate su nulla, se non sul principio di superare il bicameralismo paritario: vedremo. Basta che non sia la scusa per ricominciare sempre da capo».
D’Alema è appena tornato alla carica, Bersani l’aveva fatto nel giorno delle amministrative. Non sarebbe meglio per tutti una scissione nel Pd, piuttosto che continuare con uno scontro infinito?
«Non credo che D’Alema e Bersani preparino una scissione. Credo si stiano preparando al congresso del 2017».
Per candidare Letta contro di lei?
«Non mi risulta, magari lei ha informazioni migliori. Per me sarebbe molto divertente. Potremmo confrontare i risultati dei rispettivi governi, discutere del modello di Europa per il quale ci siamo battuti, riflettere sui risultati ottenuti quando abbiamo avuto responsabilità nel partito. Del resto sia Enrico che io abbiamo già avuto esperienze di primarie. Mi piacerebbe ma è prematuro. Il congresso sarà nel 2017. E la nostra gente è stanca della polemica continua. L’alternativa al Pd si chiama Matteo ma di cognome fa Salvini. L’alternativa a questo governo e a questo Pd non è un’improbabile coalizione a sinistra, non è un Lafontaine italiano, un Varoufakis, un Corbyn; l’alternativa è il populismo».
Con Forza Italia sul Senato tratterà?
«Non credo, a meno che non si chiariscano le idee tra di loro. Brunetta ci ha dato dei fascisti perché abbiamo votato la stessa legge che hanno votato anche i senatori di Forza Italia: fermo restando che sentirsi dare del fascista per me è infamante, come la mettiamo? Sono fascisti anche loro? Berlusconi è altalenante: un giorno segue Salvini, il giorno dopo cura i rientri a casa, da Balotelli alla De Girolamo. Un giorno vuole il Nazareno Bis, un giorno le elezioni anticipate. Da quelle parti hanno poche idee, ma confuse. Se le chiariscono e vogliono confrontarsi siamo qui. Altrimenti bye bye. Berlusconi è circondato da molti consiglieri. Alcuni gli suggeriscono di fare una guerra senza frontiere al governo e al sottoscritto. Auguri! Noi andiamo avanti con determinazione e libertà. Il mio faro è il bene comune, nient’altro».
Cosa aspetta a lanciare un grande piano di tagli ai costi della politica? Abolizione di tutti i vitalizi, dimezzamento delle indennità?
«Abbiamo fatto molto, dal finanziamento ai partiti alla cancellazione di quasi 4 mila poltrone nelle Province. Siamo intervenuti sulle auto blu. Abbiamo messo un tetto ai dirigenti pubblici, con uno stipendio che può arrivare al massimo all’indennità del capo dello Stato, 240 mila euro. Se passerà la riforma della Costituzione come l’abbiamo scritta un consigliere regionale non potrà prendere più del sindaco del comune capoluogo. Ma di cosa parliamo ancora? Oggi un politico prende meno non solo di un tecnico o di un giornalista...».
Magari...
«Se vuole facciamo un confronto all’americana tra la mia dichiarazione dei redditi e quella di un qualsiasi direttore a sua scelta. E io non mi lamento, sia chiaro. Oggi la vera sfida è ridurre il numero dei politici, come abbiamo fatto con le Province e come vogliamo fare col Senato. E controllarli di più».
Marino è stato commissariato. Prima o poi dovrà dimettersi?
«Nessun commissariamento. Roma ha ottenuto ciò che ha chiesto per il Giubileo e anche un sostegno per combattere la corruzione con Gabrielli e Cantone. Il sindaco sa che deve solo lavorare nell’interesse dei cittadini. Punto. Tutto il resto è il consueto Truman Show politico-mediatico».
La riforma della scuola doveva essere un suo punto di forza, con centomila nuove assunzioni. Come mai allora gli insegnanti sono così arrabbiati?
«Me lo chiedo spesso anche io...».
Non sarà che avete sbagliato qualcosa?
«Sicuramente abbiamo sbagliato qualcosa noi. Altrettanto certamente esiste un pregiudizio di parte del mondo docente. Quello di cui sono certo è che la Buona Scuola non è la riforma. È solo l’inizio. La riforma passa dall’edilizia scolastica e dai 1.673 cantieri che questa estate abbiamo aperto. La riforma passa da parole come merito, valutazione, qualità, autonomia, che necessitano di tempo ancora per essere impiantate nel mondo scolastico. Mi fischino pure, mi contestino, mi insultino; ma se ci sono centomila italiani che anziché zigzagare come precari diventano insegnanti, be’, io ne sono fiero».
L’emergenza migranti si fa di giorno in giorno più drammatica. Non ha nulla da rimproverarsi su come è stata gestita finora?
«Credo stia emergendo la verità sui migranti: non è un problema italiano su cui speculare per mezzo punto di sondaggio, ma una grande crisi mondiale e europea da affrontare a Bruxelles, non a Lampedusa. Questa è stata la prima battaglia del mio governo: chiedere l’internazionalizzazione di questa crisi. Mare Nostrum aveva caricato tutte le questioni sull’Italia: noi abbiamo chiesto solidarietà e coinvolgimento. Dopo la strage di aprile e il vertice straordinario che ne è seguito sono arrivati i primi provvedimenti. Ancora pochi, spesso miopi, frammentati. Ma le drammatiche immagini di quei bambini asfissiati nel Tir, di quei bambini uccisi nelle stive delle navi ci dicono che l’Europa deve cercare una strategia».
Cosa farete in concreto?
«Non dobbiamo solo tamponare l’emergenza, ma anche avere un ruolo maggiore in Africa e in Medio Oriente. Investire di più sulla cooperazione internazionale. Agevolare i rimpatri. E bloccare i trafficanti di uomini, per sempre. Questo è il momento giusto per lanciare un’offensiva politica e diplomatica. L’Europa deve smettere di commuoversi e iniziare a muoversi. È finito il tempo dei minuti di silenzio: si scelga finalmente di superare Dublino e di avere una politica di immigrazione europea, con un diritto d’asilo europeo. Questa sarà la battaglia dei prossimi mesi».
Cosa cambierebbe?
«Ci vorrebbero mesi, ma avremmo un’unica politica europea di asilo, non tante politiche quanti sono i vari Paesi. Andremmo negli Stati di provenienza per valutare le richieste di asilo, evitando i viaggi della morte. Gestiremmo insieme anche i rimpatri».
E interverrete in Libia e in Siria, per fermare vergogne come quella di Palmira?
«Obama ha convocato un vertice su questi temi a fine mese proprio a margine dell’assemblea Onu».
Il cardinale Bagnasco si è espresso contro le unioni civili.
«Le unioni civili si faranno. Punto. Anche qui: usciamo da vent’anni di scontri ideologici. Anche qui: ci sono i numeri per una forzatura, ma spero di trovare un punto d’intesa ampio. Il richiamo alla famiglia tuttavia non è in contraddizione con le unioni civili ed è un richiamo molto corretto, secondo me. Nella legge di Stabilità va inserito un piano famiglia, dagli asili nido fino agli interventi per i bambini poveri e le famiglie numerose».
Nei mesi scorsi sono uscite sue intercettazioni che mostravano uno stile di una certa spavalderia, ai limiti della ribalderia.
«La rivoluzione non è un pranzo di gala, no?».
Dall’altra parte, lei ha parlato di un Renzi 1, che va nelle scuole e nelle fabbriche, e un Renzi 2, inviluppato nell’agenda, nei vertici europei, nelle riunioni di partito. Qual è il vero Renzi?
«Io sono sempre lo stesso. Un ragazzo di provincia che a meno di quarant’anni è stato chiamato - con altri - a cambiare il sistema politico considerato più gerontocratico nell’intero Occidente. Non è questione di Renzi 1, Renzi 2, intercettazioni. È che il sogno di un percorso di cambiamento, iniziato dalla Leopolda cinque anni fa, sta diventando realtà. E ci riusciremo, senza guardare in faccia nessuno, senza rispondere a potentati o gruppi di interesse. Qualcuno dice che siamo maleducati o spavaldi? Lo pensino pure. Il mio obiettivo non è stare simpatico. È lasciare una macchina pubblica capace finalmente di funzionare. Tutto il resto è fuffa. Mi chiedono: ma fai il bravo con i giornalisti, frequenta di più i sindacati, non scontentare gli imprenditori, preoccupati della minoranza del Pd. Tutto giusto, per carità. Ma io devo preoccuparmi soprattutto della maggioranza degli italiani. So che fanno il tifo per noi anche persone che magari non mi voteranno mai. Ma sanno che lo sforzo di questo governo è lo sforzo di un Paese intero. E quindi ci danno una mano. L’Italia sta tornando. Non sprecheremo questa opportunità».