Print

Lavoro, sviluppo e globalizzazione nel pensiero del cardinal Martini

Written by Lorenzo Gaiani.

Articolo di Lorenzo Gaiani pubblicato dalle ACLI.

La nomina ad Arcivescovo di Milano del gesuita Carlo Maria Martini, all’epoca Rettore dell’Istituto Biblico e, da poco, dell’Università Gregoriana, venne notificata dalla Sala Stampa vaticana il 29 dicembre 1979.
Lo stesso giorno Giulio Andreotti, che aveva una certa conoscenza del nuovo Presule, annotò sul suo diario: “Grande sorpresa. Il mio parroco mons. Generali dice:’Uomo quadrato. Ed è adatto un dottore sulla cattedra di Sant’Ambrogio’ “.
Il giorno dopo Giovanni Spadolini, grande storico e senatore repubblicano eletto a Milano, scriveva sul “Corriere della sera” che cent’anni prima una simile nomina sarebbe stata accolta dall’élite laica e massonica che guidava l’Italia post risorgimentale come un’intollerabile provocazione, dal momento che i Gesuiti venivano considerati l’espressione stessa del potere clericale e dell’oppressione spirituale.
Ovviamente la sorpresa più grande fu per i sacerdoti ed i fedeli della Diocesi ambrosiana, che sapevano imminente la sostituzione del card. Giovanni Colombo, il quale aveva passato l’età canonica ed era malato al punto tale che in quel 1979 non aveva potuto presiedere le ordinazioni presbiterali, ma si aspettavano altri nomi, magari più interni alla Diocesi stessa.
La stessa sorpresa la manifestarono anche le ACLI che per tutti gli anni Settanta avevano avuto rapporti tesi o formali con la Curia ambrosiana come conseguenza delle vicende che avevano coinvolto il Movimento nel suo insieme e che a Milano e in Lombardia erano state acuite dal prevalere nel contesto aclista delle correnti di sinistra.
Sul primo numero del “Giornale dei lavoratori” del 1980, che dava conto insieme della nomina di Martini e della sua consacrazione episcopale per le mani di Giovanni Paolo II in San Pietro il giorno dell’Epifania(cerimonia a cui avevano assistito anche rappresentanti delle ACLI milanesi e varesine), prevalevano toni prudenti, e mentre da un lato venivano riprodotti i telegrammi che le Presidenze nazionale, regionale e provinciale avevano mandato al nuovo Arcivescovo, d’altro canto due pagine intere venivano dedicate alla pubblicazione di documenti del Concilio Vaticano II sulla funzione pastorale del Vescovo e sull’apostolato dei laici.
Sul numero 3 del periodico invece venivano riportati ampi brani dell’ omelia introduttiva di mons. Martini all’atto del suo ingresso in Diocesi il 10 febbraio sotto il titolo complessivo : “Camminare insieme per un servizio più profondo e assiduo”, mentre sul numero 4 veniva riprodotta un’intervista rilasciata da Martini al “Sabato” (un settimanale che sarebbe stato sempre meno simpatizzante nei confronti del Cardinale).
Un primo appuntamento significativo fu quello per la festa del 1 maggio di quell’anno, in cui il nuovo Arcivescovo volle incontrare una rappresentanza dei lavoratori cristiani al santuario della Madonna del Bosco ad Imbersago , rivolgendo un saluto a tutti i lavoratori in cui si rivolgeva ad ogni lavoratore, rilevando che il cammino del Movimento Operaio era stato finalizzato “ a realizzare una maggiore affermazione di libertà e di giustizia” e ricordava “i valori cristiani sui quali si basa la costruzione di una società di uomini liberi: la dignità della persona, creata e redenta per la libertà dei figli di Dio; il primato inviolabile della persona sul profitto e dello spirito sulla materia; il diritto e dovere di tutti e di ciascuno a partecipare alla vita economica e sociale, secondo le personali capacità”.
E’ interessante notare come in queste brevi righe fossero concentrati i cardini dell’insegnamento sociale di Martini nei vent’anni a venire, e giustamente nell’editoriale di commento l’allora Presidente delle ACLI milanesi Emanuele Ranci Ortigosa annotava che “sono contenuti nuovi che ci riempiono di speranza” in quanto costituivano “un passo per il superamento di quella estraneità e diffidenza fra Chiesa e Movimento Operaio che da tempo evidenziamo e soffriamo, ad un tempo, come cristiani e come lavoratori”.
Nello stesso numero veniva presentato un impegnativo documento redatto dai Presidenti delle Province acliste insistenti in tutto o in parte sul territorio ambrosiano (Milano, Como, Lecco e Varese) e dal Presidente delle ACLI lombarde, in cui si ricapitolava la vicenda del Movimento nei dieci anni precedenti, insistendo sul suo radicamento ecclesiale al di là delle incomprensioni, e di come la sua cospicua presenza sociale fosse un valore aggiunto per la stessa comunità ecclesiale.
Il 24 giugno l’Arcivescovo Martini entrava per la prima volta nella sede di via della Signora, accolto dai rappresentanti delle quattro Province e dal Presidente regionale, chiedendo un dibattito franco sulle questioni maggiormente sentite, che inerivano al profilo ecclesiale delle ACLI e al loro pluralismo culturale e politico (tema assai delicato, che aveva agitato tutti gli anni Settanta, in relazione al rapporto con la Democrazia Cristiana e alla richiesta da parte della Gerarchia del mantenimento dell’unità politica dei credenti). Al termine del confronto il Vescovo biblista disse che prendeva atto che le ACLI, malgrado le difficoltà incontrate, “non vogliono essere una zattera isolata fra i flutti, ma piuttosto una penisola, che si protende nel mare con un saldo ancoraggio alla terraferma della comunità ecclesiale”. Martini aggiunse che era necessario un serio approfondimento dei tempi più delicati, come quello del pluralismo, offrendo il suo interessamento personale affinché le ACLI potessero contare sull’apporto di personalità teologiche riconosciute, come da esse richiesto.
Martini non volle mancare anche ai primi appuntamenti congressuali del Movimento aclista dopo la sua nomina: nel novembre del 1981 egli mandò un messaggio molto impegnativo al XX Congresso provinciale, auspicando che le ACLI divenissero “scuole in cui ci si forma a quella autentica, matura, responsabile, coraggiosa spiritualità del lavoro che il Papa indica come condizione necessaria perché il lavoro sia vissuto come momento di comunicazione con Dio, con i fratelli e con tutti gli uomini”.
Qualche settimana dopo egli celebrò l’Eucaristia per il III Congresso regionale delle ACLI che si svolse in territorio ambrosiano, in un residence di Pieve Emanuele, e nell’omelia ribadì che : “Il vostro Movimento deve potere già esprimere al vostro interno, nei suoi momenti formativi, una franchezza di rapporti, una tensione di solidarietà e uno stile generoso di gratuità che sappiano diventare la base di una vera progettualità sociale e di una testimonianza provocante”.
Questi momenti iniziali del rapporto fra Martini e le ACLI testimoniano un interesse reale di questo intellettuale appartato ma non indifferente, di questo pastore chiamato ad una missione a cui non aveva mai pensato e che tuttavia era ben determinato a onorare con tutte le sue forze, nei confronti di una tematica come quella sociale e politica anche attraverso il rapporto con un’associazione di credenti impegnati nel mondo del lavoro (nel Movimento Operaio, come si diceva allora) come le ACLI, verso le quali si poneva senza particolari pregiudizi, pur tenendo conto dell’atteggiamento complessivo della comunità ecclesiale e di alcuni dei suoi collaboratori.
Non è un caso che già nel 1984 alle ACLI venisse riconosciuta , dopo dodici anni dal ritiro degli Assistenti, una presenza sacerdotale fissa nella persona di don Gianfranco Bottoni, che a sua volta nel 1995 venne sostituito da don Raffaello Ciccone, il quale contemporaneamente manteneva l’incarico di Direttore della Pastorale del Lavoro.
Ma la cosa più importante è la costanza dell’insegnamento di Martini su questi argomenti che ne costituiscono anche l’attualità e la linea di prospettiva per il futuro, a partire dal tema della “dignità”, al quale le ACLI milanesi hanno voluto intitolare il convegno svoltosi il 12 novembre scorso.
Martini trovò in Milano un osservatorio privilegiato dei cambiamenti rapidissimi della realtà sociale: arrivato nella fase ormai avanzata della liquidazione della fabbrica fordista, e della cultura operaia ad essa collegata, e negli anni del declino rabbioso del terrorismo, egli poté assistere all’emergere delle nuove forme di lavoro, del precariato diffuso, della disoccupazione intellettuale, della retorica manageriale e del diffondersi delle nuove povertà con la crescente presenza di persone che venivano da altri Paesi, da altre culture, da altre esperienze religiose.
Egli volle quindi immergersi in questa realtà sia attraverso il percorso delle sue lettere pastorali -che era un percorso educativo nel senso stretto del termine, in quanto voleva condurre i credenti a partire dalla dimensione spirituale e dalla lettura e meditazione delle Scritture all’azione caritativa verso il prossimo- sia nella sequenza delle Giornate della solidarietà e delle Veglie dei lavoratori, che erano per lui il momento privilegiato per comunicare alla Diocesi e a tutti gli interlocutori vicini o lontani la sua visione pastorale che era portatrice di un messaggio sociale forte e sistematico.
Quattro mi sembrano gli spunti utili a declinare in chiave di attualità e di prospettiva futura il messaggio del Cardinale, sempre avendo come riferimento il tema della dignità.
Un primo spunto, evidentemente, è quello del ruolo del lavoro oggi nella vita della persona e della società . Posto che la visione chapliniana della catena di montaggio o quella fantozziana degli impiegati con l’ansia del cartellino è ormai superata, e il Covid si è incaricato di dimostrare che è perfettamente possibile lavorare senza stare in ufficio, occorre però domandarsi in che modo si possa parlare di realizzazione della persona nel lavoro o, anche, di partecipazione dell’essere umano attraverso il lavoro all’attività creativa e redentiva di Dio nel mondo.
Il secondo filone nasce dal precedente, ossia dalle conseguenze della pandemia rispetto alla dimensione partecipativa delle persone nel mondo del lavoro: quello a cui siamo stati costretti a partire dal marzo del 2020 è stato essenzialmente un generalizzato ricorso al telelavoro, che poco a che fare con lo smartworking vero e proprio, che è una filosofia di organizzazione del lavoro basata sulla consensualità e sulla complessiva riorganizzazione dei tempi di vita e di lavoro. Esiste tuttavia il rischio che a questo punto tale distinzione salti e le persone si trovino private di quegli spazi di vita che faticosamente sono riusciti a ritagliarsi da un’attività lavorativa sempre più pervasiva.
La terza questione rimanda ai modelli organizzativi dei lavoratori nella gestione delle loro rivendicazioni: il crollo del Movimento Operaio si è portato dietro l’identità di classe, e nulla l’ha sostituita. E tuttavia, un universo valoriale comune deve per forza di cose essere trovato se si vuole costruire un modello di organizzazione sociale e sindacale efficace in un contesto parcellizzato e nello stesso tempo universalizzato, perché comunque la globalizzazione può attraversare delle crisi, ma certo non è reversibile, almeno nella sua forma economica.
La quarta ed ultima questione investe la comunità ecclesiale nel suo complesso, e la sua capacità di farsi carico dei problemi dell’oggi. Nel suo intervento alla Veglia dei lavoratori del 30 aprile 1984 il Cardinale ricordò le “tre pesti” che minacciano il tessuto sociale della città , e che possono essere applicate al mondo del lavoro: la violenza occulta che viola i diritti di chi non ha voce, la solitudine dei non garantiti e la forza pervasiva della corruzione. A ciò si aggiungevano quelle che Giovanni Paolo II tre anni dopo nella Sollicitudo rei socialis avrebbe chiamato “strutture di peccato”, quelle strutture sociali, economiche, politiche, finanziarie che sono peccaminose per il solo fatto di esistere come strumento di oppressione dell’essere umano. Verso di esse il Cardinale sollecitava l’intera comunità ecclesiale allo studio e all’intervento.
“Da una fede convinta- concludeva– non può non scaturire l’impegno etico della carità che, per logica interna, è condotto a risalire dai mali e dalle situazioni di sofferenza al trattamento delle loro cause. Per questo l’etica cristiana , la predicazione ecclesiale, l’opera formativa , la catechesi devono dare privilegiata tensione al tema sociale, a ciò che concerne la giustizia delle istituzioni, delle strutture, delle forme di organizzazione economica e politica”.
Parole come queste potrebbero benissimo essere state pronunciate recentemente da papa Francesco: rimane da capire quanto abbiano fatto breccia in noi e nelle nostre comunità.
Pin It