Relazioni sulla gestione attente alla sostenibilità
Articolo pubblicato da Il Sole 24 Ore.
Estetica e bilanci. Ci può essere bellezza nella rendicontazione? Leggendo i contributi di Antonio Calabrò e Giovanna Melandri pubblicati su questo giornale sul fascino, la ritmica dei numeri e degli elementi Esg (Environmental, social, and governance), direi di sì. Le fredde dinamiche dei conti e la traduzione in indicatori ci devono guidare, al di là delle cifre, a capire gli andamenti che le provocano, che rappresentano gli sforzi di donne e uomini a contribuire allo sviluppo che solo le imprese, agenti sociali attivi, possono dare.
Proviamo a passare dalla rendicontazione contabile all’analisi della dinamica dei flussi finanziari, andando oltre la fotografia dell’attività aziendale per mettere in luce le determinanti del cambiamento auspicato. La valutazione del fabbisogno finanziario e l’indirizzo della destinazione dei fondi possono fare ancora di più. Per affrontare le sfide del cambiamento aziendale verso modelli sostenibili bisogna investire. La responsabilità sta in chi pianifica gli impegni finanziari nella direzione più corretta, ma anche in chi li eroga, assicurandosi il loro buon impiego. Del resto, nella valutazione del costo del capitale, e quindi della quantificazione del rischio specifico di una impresa, gli elementi Esg sono fattori importanti di mitigazione dello stesso.
Ma pensiamo alla forza di indirizzo che può avere il mercato finanziario nel suo complesso: banche, Borse e fondi di private capital che erogano maggiori risorse (o meno costose) alle imprese virtuose sotto il profilo della sostenibilità possono modificare rapidamente lo scenario competitivo. A maggior ragione se gli investitori indirizzano le loro risorse verso investimenti dedicati alla trasformazione energetica o alla generazione di impatti ambientali positivi.
Non basta questo: la vera trasformazione Esg deve mettere al centro i temi sociali e di governance oltre che ambientali. Il ruolo più dirompente lo può giocare chi entra nel capitale delle imprese e su questo fronte anche un compito sempre maggiore lo ricoprono gli operatori di private equity. L’obiettivo dei fondi è realizzare guadagni, per soddisfare i propri investitori; facendo bene il loro mestiere sono involontari attori di sviluppo, perché i capital gain si ottengono creando valore. Qui sta la bellezza dei numeri e della finanza: vedere come iniezioni di capitale affidato a buon management dà risultati economici e sociali tangibili. È una finanza trasformativa.
Gli investitori oggi, soprattutto gli istituzionali, sollecitano e impongono l’applicazione di rigorosi criteri Esg nell’attività di investimento. Negli obiettivi che vengono richiesti ai gestori dei fondi, anche per ottenere i propri incentivi monetari, sono centrali i Kpi (Key performance indicator) orientati al miglioramento della sostenibilità. Il perno di questo processo è la valorizzazione del capitale umano; investitori consapevoli motivano e attraggono risorse umane di qualità e queste generano benessere e ricchezza tangibile nei bilanci delle aziende e intangibile, in un nuovo welfare aziendale generalizzato. Del resto, senza donne e uomini motivati le imprese non performano come si vorrebbe. Per incidere sulla motivazione delle persone ci sono schemi di condivisione dei risultati che attualmente sono applicati ai vertici aziendali, in ottica di allineamento degli interessi con gli azionisti, ma che via via si stanno ampliando a tutta la struttura.
Sono numeri, valori, che hanno impatti sui profili quali quantitativi dell’occupazione. La cura del pianeta è al centro delle policy, così come deve esserlo l’attenzione alle persone, dando loro opportunità di impiego. Il fattore umano è la ricchezza più grande di un Paese e non deve essere sprecata o inutilizzata. Senza opportunità e qualità di lavoro non si crea una solida società, non c’è sviluppo. Va data maggior enfasi al concetto di lavoro come fattore non solo economico, ma anche di promozione sociale e di miglioramento della qualità della vita propria e della propria famiglia.
Non basta pensare a quanti posti di lavoro in più si possono creare, ma anche a quale crescita professionale la forza lavoro può tendere, con particolare attenzione all’inclusione e al superamento delle disparità di genere. Questo va rendicontato e inserito nel bilancio sociale. Mi permetto di aggiungere un tema poco sviluppato anche sotto il profilo della rendicontazione che riguarda l’occupazione indotta. Da sempre le imprese sono motore di sviluppo del contesto territoriale di insediamento, creando importanti indotti sia nella catena di fornitura sia nella catena dei servizi. I mutamenti nelle modalità di lavoro, a partire dallo smart working stanno cambiando radicalmente questi schemi, con impatto non banale sulle attività del primo indotto.
La risposta può essere la desertificazione sociale dei territori, che nessuno vuole, con chiusure di esercizi e attività, oppure il ripensamento della geografia urbana, che può far nascere soluzioni innovative. Per far questo, però, ci vuole progettualità e capitale. Il concetto di smart city, di città connessa e sostenibile, vuol dire avere un’idea di un’area viva, ripensata, che può stare in un nuovo concetto di distretto industriale. Iniziative pubblico-private, dove le imprese e il sistema imprenditoriale stesso deve essere protagonista, possono incrociare i capitali di fondi infrastrutturali dedicati a un nuovo concetto di città.
Torniamo al tema di come i grandi capitali a disposizione dei fondi di private capital possono riconfigurare il nostro pianeta. Tanti studi dimostrano che l’intervento di questi investitori crea nell’insieme nuovi posti di lavoro. Va promossa un’azione di stimolo per le corrette pratiche che guardino anche alla qualità del lavoro. Molto possono fare le Università, formando i giovani futuri operatori finanziari ad avere massima attenzione alla finanza come motore di occupazione, di cura e tutela del territorio, di diminuzione del gender gap e di inclusione maggiore tra generazioni differenti. Senza dimenticare che redditività e sostenibilità sono un fenomeno inscindibile perché la forza selettiva del mercato: fornitori, clienti, finanziatori, porta a premiare le imprese più attente alla sostenibilità.
Come esplicitare e leggere questo nel bilancio? Sicuramente attraverso una redazione dei documenti che lo compongono, a partire dalla relazione sulla gestione, che deve diventare sempre più strumento di rendicontazione economico-finanziaria e di sostenibilità. Perché alla fine, dietro ai numeri c’è tanta fatica di chi li genera e tanta armonia nel leggere risultati soddisfacenti. E la finanza ben indirizzata è dirimente per lasciare un pianeta vivibile e bello alle future generazioni.
Estetica e bilanci. Ci può essere bellezza nella rendicontazione? Leggendo i contributi di Antonio Calabrò e Giovanna Melandri pubblicati su questo giornale sul fascino, la ritmica dei numeri e degli elementi Esg (Environmental, social, and governance), direi di sì. Le fredde dinamiche dei conti e la traduzione in indicatori ci devono guidare, al di là delle cifre, a capire gli andamenti che le provocano, che rappresentano gli sforzi di donne e uomini a contribuire allo sviluppo che solo le imprese, agenti sociali attivi, possono dare.
Proviamo a passare dalla rendicontazione contabile all’analisi della dinamica dei flussi finanziari, andando oltre la fotografia dell’attività aziendale per mettere in luce le determinanti del cambiamento auspicato. La valutazione del fabbisogno finanziario e l’indirizzo della destinazione dei fondi possono fare ancora di più. Per affrontare le sfide del cambiamento aziendale verso modelli sostenibili bisogna investire. La responsabilità sta in chi pianifica gli impegni finanziari nella direzione più corretta, ma anche in chi li eroga, assicurandosi il loro buon impiego. Del resto, nella valutazione del costo del capitale, e quindi della quantificazione del rischio specifico di una impresa, gli elementi Esg sono fattori importanti di mitigazione dello stesso.
Ma pensiamo alla forza di indirizzo che può avere il mercato finanziario nel suo complesso: banche, Borse e fondi di private capital che erogano maggiori risorse (o meno costose) alle imprese virtuose sotto il profilo della sostenibilità possono modificare rapidamente lo scenario competitivo. A maggior ragione se gli investitori indirizzano le loro risorse verso investimenti dedicati alla trasformazione energetica o alla generazione di impatti ambientali positivi.
Non basta questo: la vera trasformazione Esg deve mettere al centro i temi sociali e di governance oltre che ambientali. Il ruolo più dirompente lo può giocare chi entra nel capitale delle imprese e su questo fronte anche un compito sempre maggiore lo ricoprono gli operatori di private equity. L’obiettivo dei fondi è realizzare guadagni, per soddisfare i propri investitori; facendo bene il loro mestiere sono involontari attori di sviluppo, perché i capital gain si ottengono creando valore. Qui sta la bellezza dei numeri e della finanza: vedere come iniezioni di capitale affidato a buon management dà risultati economici e sociali tangibili. È una finanza trasformativa.
Gli investitori oggi, soprattutto gli istituzionali, sollecitano e impongono l’applicazione di rigorosi criteri Esg nell’attività di investimento. Negli obiettivi che vengono richiesti ai gestori dei fondi, anche per ottenere i propri incentivi monetari, sono centrali i Kpi (Key performance indicator) orientati al miglioramento della sostenibilità. Il perno di questo processo è la valorizzazione del capitale umano; investitori consapevoli motivano e attraggono risorse umane di qualità e queste generano benessere e ricchezza tangibile nei bilanci delle aziende e intangibile, in un nuovo welfare aziendale generalizzato. Del resto, senza donne e uomini motivati le imprese non performano come si vorrebbe. Per incidere sulla motivazione delle persone ci sono schemi di condivisione dei risultati che attualmente sono applicati ai vertici aziendali, in ottica di allineamento degli interessi con gli azionisti, ma che via via si stanno ampliando a tutta la struttura.
Sono numeri, valori, che hanno impatti sui profili quali quantitativi dell’occupazione. La cura del pianeta è al centro delle policy, così come deve esserlo l’attenzione alle persone, dando loro opportunità di impiego. Il fattore umano è la ricchezza più grande di un Paese e non deve essere sprecata o inutilizzata. Senza opportunità e qualità di lavoro non si crea una solida società, non c’è sviluppo. Va data maggior enfasi al concetto di lavoro come fattore non solo economico, ma anche di promozione sociale e di miglioramento della qualità della vita propria e della propria famiglia.
Non basta pensare a quanti posti di lavoro in più si possono creare, ma anche a quale crescita professionale la forza lavoro può tendere, con particolare attenzione all’inclusione e al superamento delle disparità di genere. Questo va rendicontato e inserito nel bilancio sociale. Mi permetto di aggiungere un tema poco sviluppato anche sotto il profilo della rendicontazione che riguarda l’occupazione indotta. Da sempre le imprese sono motore di sviluppo del contesto territoriale di insediamento, creando importanti indotti sia nella catena di fornitura sia nella catena dei servizi. I mutamenti nelle modalità di lavoro, a partire dallo smart working stanno cambiando radicalmente questi schemi, con impatto non banale sulle attività del primo indotto.
La risposta può essere la desertificazione sociale dei territori, che nessuno vuole, con chiusure di esercizi e attività, oppure il ripensamento della geografia urbana, che può far nascere soluzioni innovative. Per far questo, però, ci vuole progettualità e capitale. Il concetto di smart city, di città connessa e sostenibile, vuol dire avere un’idea di un’area viva, ripensata, che può stare in un nuovo concetto di distretto industriale. Iniziative pubblico-private, dove le imprese e il sistema imprenditoriale stesso deve essere protagonista, possono incrociare i capitali di fondi infrastrutturali dedicati a un nuovo concetto di città.
Torniamo al tema di come i grandi capitali a disposizione dei fondi di private capital possono riconfigurare il nostro pianeta. Tanti studi dimostrano che l’intervento di questi investitori crea nell’insieme nuovi posti di lavoro. Va promossa un’azione di stimolo per le corrette pratiche che guardino anche alla qualità del lavoro. Molto possono fare le Università, formando i giovani futuri operatori finanziari ad avere massima attenzione alla finanza come motore di occupazione, di cura e tutela del territorio, di diminuzione del gender gap e di inclusione maggiore tra generazioni differenti. Senza dimenticare che redditività e sostenibilità sono un fenomeno inscindibile perché la forza selettiva del mercato: fornitori, clienti, finanziatori, porta a premiare le imprese più attente alla sostenibilità.
Come esplicitare e leggere questo nel bilancio? Sicuramente attraverso una redazione dei documenti che lo compongono, a partire dalla relazione sulla gestione, che deve diventare sempre più strumento di rendicontazione economico-finanziaria e di sostenibilità. Perché alla fine, dietro ai numeri c’è tanta fatica di chi li genera e tanta armonia nel leggere risultati soddisfacenti. E la finanza ben indirizzata è dirimente per lasciare un pianeta vivibile e bello alle future generazioni.