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A proposito di unità sindacale

Scritto da Lorenzo Gaiani.

Lorenzo Gaiani
Articolo pubblicato dal Giornale dei Lavoratori.

La presenza nel panorama sindacale italiano di tre grandi Confederazioni – accanto ad una pletora di organizzazioni minori spesso monocategoriali – è, come è noto, il prodotto della scissione dell'unica, grande Confederazione ricostituitasi nel giugno del 1944, la CGIL, ad iniziativa delle principali componenti sindacali del nostro Paese che erano anche afferenti alle tre principali forze politiche che costituivano il Comitato di Liberazione Nazionale: comunisti, socialisti e democristiani.
Già questo dimostrava come non vi fosse né vi potesse essere una totale indipendenza del movimento sindacale dalle forze politiche di riferimento, né vi fosse spazio per un sindacalismo neutro di fronte al dato politico, e la brevissima vita della CGIL unitaria fu dominata dall'evoluzione del dibattito fra le forze politiche nel momento in cui l'unità del movimento resistenziale, dopo la Liberazione e la nascita della repubblica, veniva indebolendosi a fronte delle nuove tensioni internazionali che imponevano di schierarsi o col campo occidentale a guida statunitense o con quello orientale a guida sovietica. Già nel 1947 l'uscita dal Partito socialista (che l'anno precedente si era collocato alle elezioni per la Costituente dopo la DC ma ben prima del PCI) della componente riformista e socialdemocratica guidata da Giuseppe Saragat e la successiva estromissione dal Governo di PCI e PSI avevano fatto sì che il Congresso della CGIL di Firenze, l'unico celebratosi in forma unitaria, diventasse un'arena di dura contrapposizione fra la maggioranza rappresentata dai sindacalisti che si riconoscevano nei due partiti di sinistra ed i sindacalisti democristiani, socialdemocratici e repubblicani che invece sostenevano sia pur criticamente l'azione del Governo De Gasperi. Solo l'azione diplomatica di Giuseppe Di Vittorio e Giulio Pastore impedì che si arrivasse ad una drammatica rottura.
Le elezioni del 1948, che segnarono una straordinaria vittoria della DC, peggiorarono ulteriormente le condizioni della convivenza interna al sindacato (e numerosi sindacalisti entrarono in Parlamento divisi fra le varie forze politiche), che poi precipitarono nel luglio successivo a seguito dell'attentato al leader comunista Togliatti, quando la maggioranza della CGIL proclamò uno sciopero politico chiaramente finalizzato a far cadere il Governo da cui i sindacalisti cristiani si chiamarono fuori venendo perciò espulsi dalle cariche che occupavano ad ogni livello confederale e di categoria.
Scartata l'ipotesi di costituire un sindacato cristiano sul modello della CIL prebellica, i sindacalisti DC proposero ai loro colleghi socialdemocratici e repubblicani, anch'essi sempre più a disagio nella CGIL monopolizzata dall'estrema sinistra, di costituire un sindacato unitario, democratico ed aconfessionale. Solo una minoranza dei sindacalisti “laici” accettò questa proposta partecipando alla nascita della CISL, ma i gruppi dirigenti del PRI e del PSDI spinsero chiaramente per evitare ogni “contaminazione “ con i “clericali” portando alla nascita della UIL.
Anche più tardi la vita del movimento sindacale fu fortemente condizionata dal dato politico – partitico: agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, quando da un lato vi fu una ripresa dell'azione unitaria soprattutto nel settore metalmeccanico e dall'altra si andò preparando e poi venne realizzato il percorso del centrosinistra, ossia dell'entrata del PSI al Governo e si iniziò a parlare di una possibile unificazione dei due partiti socialisti, il leader della UIL Italo Viglianesi, socialdemocratico, affacciò l'ipotesi di un “sindacato di partito”, nel senso che i socialisti presenti nella CGIL lasciassero quel sindacato per entrare nella UIL, facendo di essa un sindacato organicamente e solo socialista, della CISL un sindacato solo democristiano e della CGIL un sindacato solo comunista. Il Segretario generale della CISL Bruno Storti andò oltre, e propose un unico sindacato “democratico” nato cioè dalla fusione della CISL e della UIL con i socialisti della CGIL, dando vita ad una Confederazione che riunisse tutte le forze politiche organiche al centrosinistra.
Fu in quel periodo, nel 1966, che si svolse, sotto gli auspici dell'allora Presidente nazionale delle ACLI Livio Labor, un dibattito sull'unità sindacale cui parteciparono anche esponenti delle componente comunista della CGIL: il dibattito era nato sulla prospettiva del “sindacato democratico”, ma ci si accorse rapidamente che il clima era cambiato, al punto che alla fine del dibattito Labor espresse il desiderio che ci si potesse ritrovare a breve “democratici fra democratici”, comunisti inclusi.
Le lotte studentesche del 1968 e l' “autunno caldo” del 1969 nelle fabbriche diedero indubbiamente un impulso all'unità sindacale, ma a parte il fatto che tale impulso era più forte nelle categorie industriali che altrove, è un dato di fatto che se la piena unità non venne raggiunta fu per le pressioni dei partiti politici sulla dirigenza sindacale: sicuramente da parte della DC, timorosa di perdere un riferimento sindacale che avrebbe potuto essere risucchiato nell'orbita dell'opposizione e della contestazione, ma anche da parte del PCI, critico sulle esperienze di democrazia consiliare che mettevano in crisi il rapporto fra la dirigenza di partito e quella sindacale, che rispondeva (anche se non in termini meccanicistici) alla logica tradizionale della “cinghia di trasmissione”.
Il crollo dei partiti della prima Repubblica rappresentò indubbiamente un trauma per le Confederazioni sindacali: indubbiamente colpita fu la UIL, ormai monopolizzata dai socialisti, che vide sparire dall'oggi al domani nell'ignominia il suo referente politico. Lo fu meno la CISL, il cui legame collaterale con la DC si era allentato da tempo, e che spesso nella fase successiva di assestamento parve invece accarezzare l'ipotesi opposta, di farsi essa stessa soggetto catalizzatore della “ricomposizione forzata” dell'area cattolica vagheggiata dal card. Ruini in una prospettiva neocentrista, ora sostanzialmente tramontata.
Ma ad essere colpita più di ogni altro fu la CGIL, che intorno ai suoi referenti partitici, PCI e PSI, aveva fino all'ultimo radicato la propria dialettica interna. Si può anzi dire che in qualche modo, venuta meno la causa prima della rottura dell'unità sindacale, ossia la differenziazione di carattere politico, il gruppo dirigente della CGIL abbia in questi quasi venticinque anni intercorsi, abbia cercato con ogni mezzo di ricostruire artificiosamente gli antichi steccati, agendo sistematicamente per condizionare in modo improprio la dirigenza del maggior partito della sinistra, almeno fino a quando, come capita ora, tale dirigenza non ha mostrato di essere completamente uscita dall'orizzonte mentale novecentesco e di aver superato ogni complesso di inferiorità nei confronti dell'interlocutore sindacale.
Il recupero dell'unità sindacale non può certo avvenire per decisione di un partito politico o per decreto governativo: è chiaro però che mai come adesso ci sarebbe bisogno di un soggetto sindacale unitario, solidamente riformista ed attento all'evoluzione della società e del mondo del lavoro.
Quali altre severe lezioni dovrà infliggere la storia perché si capisca che i tempi sono maturi?

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