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La Sfinge e la paura

Scritto da Matteo Bianchi.

Matteo BianchiArticolo di Matteo Bianchi, Presidente di Associazione Democratici per Milano.

Sta diventando un luogo piuttosto comune considerare il PD di questo ultimo, delicatissimo periodo come una delle vittime dell’entrata in scena del governo Draghi, che col suo impeccabile aplomb avrebbe raggelato e messo a nudo le mattane di una politica sempre più a corto di credibilità. Non c’è dubbio che la natura del nuovo esecutivo ponga i partiti di fronte ad uno scenario inconsueto, che pare annullare di colpo ogni passata rendita di posizione e, soprattutto, richiama ad un’assunzione di responsabilità condivisa protagonisti e schieramenti finora abituati a considerare il bene comune come terreno di scontro irriducibile.
Tuttavia è difficile pensare che, in questo contesto, il PD possa andare in crisi, perché non esiste nella sua storia un ruolo che abbia interpretato con esiti altrettanto felici. Nelle situazioni di estrema difficoltà, richiamato al dovere di contribuire a trascinare il Paese fuori dalle secche anche a costo di spartire questa incombenza con competitors vecchi e nuovi, ha dato il meglio di sé puntando su quella vocazione istituzionale che è forse la sua vera cifra. La competenza, la serietà, e un senso dello Stato praticamente introvabile di questi tempi hanno avuto buon gioco nel consolidare il ruolo di una forza perfettamente a proprio agio nell’azione di governo, generosa nel cercare equilibri e nel volerli salvaguardare a volte fino all’eccesso di zelo, quasi sempre indispensabile e, come spesso accade, raramente ricompensata quanto questa dedizione meriterebbe.
Non c’è dunque nessuna ragione di pensare che il PD possa sentirsi ridimensionato da questa nuova fase, nella quale peraltro è evidente sin dall’inizio la traccia di un’agenda politica voluta e difesa in questi ultimi anni di emergenza più di tutti proprio dai democratici. L’elezione di Enrico Letta alla Segreteria, per il profilo di ex premier riconosciuto nella sua caratura internazionale di uomo delle istituzioni più che come autorevole co-fondatore del Partito, conferma con chiarezza questa tendenza.
Bisogna quindi cercare altrove le ragioni della nuova involuzione del Partito Democratico, che infondo assomiglia ad altre fasi della recente storia in cui il suo faticoso processo di crescita è sembrato avvilupparsi su se stesso.
Cavarsela con lo sfogo intempestivo di Zingaretti, esattamente come ridurre la caduta del Conte bis alla livorosa spregiudicatezza renziana, offre il dito in cambio della luna, e consente di pagare un’indulgenza tutto sommato a poco prezzo per scontare il vero peccato originale, ossia la cronica incapacità di guardare dentro se stesso. Come Edipo, che risolve il mistero della Sfinge ma non sa venire a capo del paradosso che governa la sua esistenza, il PD prende di petto la sfida del cambiamento del Paese, senza aver compreso appieno come vestirsi per l’occasione. Con buona pace di coloro che ripetono la nenia di un partito in perenne ed estatica contempla-zione del proprio ombelico, ogni volta che si presenta l’esigenza (non trascurabile) di ragionare sul suo ruolo e sul posizionamento strategico nel quadro politico nazionale, il PD sembra essere assalito da una balbettio compulsivo che rivela il timore di qualsiasi confronto con la propria complessità. Questo è il motivo per cui da anni è sostanzialmente bandito dalla discussione ogni riferimento all’identità del Partito Democratico: finora ce la si è cavata derubricando la questione a retaggio nostalgico di chi vorrebbe restare ancorato al passato, senza comprendere che senza una identità forte e rinnovata non può esistere futuro. Naturale, quindi, che in una situazione quale quella delineata dal governo Draghi, in cui potersi prendere un po’ di tempo per ragionare di quello che sarà l’Italia politica e sociale al momento dell’uscita dell’emergenza, la paura riaffiori. Paura prima di tutto di dover certificare la convivenza, al proprio interno, di sensibilità disomogenee, addirittura antitetiche, perennemente in conflitto sui temi fondamentali della cultura di riferimento e delle alleanze, oscillanti tra la tentazione dell’autonomia e l’esigenza di ricostruire rapporti politici in un perimetro di centrosinistra tutto da definire. Quello che dovrebbe essere la polpa succosa di qualsiasi dialettica interna ad una organizzazione politica diventa freno, o peggio ragione di imbarazzo da occultare dietro la definizione, in questo caso fuorviante, della diversità come ricchezza.
L’augurio che Letta sia davvero un Segretario, e non semplicemente il simbolo di una unità ritrovata in attesa di tempi migliori, non vuole certo mettere in dubbio le doti del personaggio. Al contrario, la speranza è che quelle doti risapute vengano messe al servizio dell’apertura di una fase nuova per il PD che discute, si confronta, e che soprattutto non teme di decidere cosa essere per potersi candidare a guidare una nuova stagione. Da Segretario, metta le mani nelle contraddizioni della sua comunità, le sappia fare emergere impostando una discussione ampia che dovrà culminare in un Congresso costruito sui te-mi e le visioni strategiche, e non sulle alchimie organizzative. Sappia esaltare il valore formativo della battaglia politica, quella che si combatte sulle idee, e restituisca a questo di-battito la dignità che troppo spesso è stata spacciata per autoreferenzialità. Diversamente, l’indubbia autorevolezza che il Partito Democratico saprà dimostrare anche in questa fase di governo non sarà sufficiente ad allontanare il rimpianto per un progetto politico mai davvero sbocciato.
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