Il Partito che ci vuole
Narra Piero Fassino nel suo libro autobiografico uscito ormai una decina d’anni fa che nel giugno 1975 i comunisti torinesi organizzarono una grande festa in piazza per celebrare la grande avanzata elettorale che consegnava alle sinistre e al PCI in particolare il governo della città della Mole e di fatto di quasi tutte le grandi città. Mentre la folla festeggiava e acclamava il vecchio leone Giancarlo Pajetta ed il Sindaco in pectore Diego Novelli, solo il giovane sindacalista Fausto Bertinotti sembrava preoccupato e continuava a ripetere fra sé: “E’ un bel problema!”. Fassino, che gli era accanto, gli disse “Forse i problemi li avremo da domani, ma ora dobbiamo far festa”. Bertinotti ribatté: “No, il problema è ora, perché abbiamo preso un consenso più largo del corpo sociale che dobbiamo rappresentare, e questo non va bene”.
Naturalmente questo aneddoto dice molto – anzi, pressoché tutto- di Bertinotti e del suo modo peculiare di concepire la politica che tanti danni ha provocato alla sinistra e all’Italia: il problema è che anche adesso, e non solo fra coloro che ancora si dicono comunisti ma persino nel PD, vi sono persone che ragionano in questo modo.
Personalmente ho potuto verificarlo qualche settimana fa in un circolo di Partito dell’hinterland milanese, quando sono uscite da parte di amici e compagni presenti le solite critiche contro Renzi che starebbe snaturando il Partito e cose del genere, e quando ho ricordato che Renzi ha il merito storico di avere portato il PD a livelli mai raggiunti da un partito di sinistra in questo Paese mi si è chiesto polemicamente dove fosse andato a prenderseli questi voti. Per parte mia ho risposto che i voti li ha presi là dove ci sono, ma questa risposta - che a me pare ovvia- è parsa ai più insoddisfacente.
Ma se a livello di base si respira aria del genere, magari dettata da malumori e pregiudizi, il malessere a livelli dirigenziali nasce perlopiù dal sentimento di espropriazione che alcuni nutrono verso chi ha dimostrato loro che non è vero che il Partito fosse la loro eredità di famiglia o, se si preferisce, di ceto politico. E, si badi bene, questo atteggiamento non è da attribuire genericamente a chi viene dalla storia dei DS (e da ciò che c’era prima), se è vero che dirigenti storici della sinistra italiana come il citato Fassino hanno detto chiaramente di riconoscersi nel progetto renziano, mentre ex democristiani abituati a sopravvivere in comode rendite di posizione, tipo Rosy Bindi e Giuseppe Fioroni, sono fra i più tenaci detrattori del Segretario/Premier.
Vogliamo dirla tutta? Esiste una fascia di dirigenti del PD che sarebbe ben lieta di avere un partito al di sotto del 30% e costretto a sopravvivere in base ad alleanze più o meno articolate e precarie, potendone però avere il controllo più o meno totale (quella che si potrebbe definire una rendita parassitaria): l’idea di un Partito aperto, contendibile, proteso verso tutto il Paese e non verso una base che ormai si restringeva sempre di più, sembra essere per questo ceto politico una novità indigeribile, soprattutto perché non la gestiscono loro.
Proprio per questo, fatta giustizia delle voci malevole rilanciate da giornali un tempo autorevoli rispetto alla situazione del tesseramento 2014, è importante che all’ ordine del giorno della prossima Direzione nazionale del PD sia stata messa la questione del partito come base di una possibile Conferenza organizzativa.
Non basta infatti constatare che il PD è oggi l’unico partito realmente esistente sul territorio nazionale, e l’unico ad avere un vero dibattito interno senza essere sottoposto agli umori di un miliardario senescente ed incontinente o di due ridicoli tirannelli da strapazzo: occorre fare qualcosa di più e di meglio.
Se Renzi ed il Governo intendono comunicare il senso profondo del cambiamento istituzionale, economico e sociale che vogliono imprimere a questo Paese debbono farlo lungo i terminali di una forza politica organizzata ed autonoma, che sia anche luogo di idee e di dibattiti non finalizzati a se stessi ma a alle scelte da prendere e da applicare, come si conviene ad un soggetto politico di governo. E’ possibile che questo aspetto sia passato in secondo piano in una fase oggettivamente emergenziale come quella che attualmente attraversiamo, ma si tratta di un processo comunque non rimandabile in quanto serve a fare sintesi delle istanze sociali e a dare loro forma politica nella prospettiva di ricondurle ad azione di governo.
Una forza che dialoga con la società – sindacati, imprese, associazionismo, Chiese- perseguendo nello stesso tempo la propria autonomia, che incoraggia il dibattito ma chiede, giustamente, coerenza a chi la rappresenta nelle istituzioni, in cui chiunque abbia voglia di lavorare per il bene comune trovi il suo posto.
Insomma, il Partito che ci vuole per questo Paese.