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Post Covid-19: i pericoli per la democrazia

Scritto da Lorenzo Gaiani.

Lorenzo GaianiArticolo di Lorenzo Gaiani pubblicato dalle Acli.

I primi tre lustri del XX secolo, in Europa, vennero dominati dall’emergere e dal progressivo affermarsi di correnti intellettuali e politiche che reagivano all’ ideologia positivista e democratica che aveva dominato la scena nella seconda metà del secolo precedente sull’onda dell’abbattimento quasi ovunque delle monarchie assolute e dell’unificazione politica di due grandi popoli, l’italiano e il tedesco.
La reazione assumeva molte forme.
In filosofia erano l’idealismo e l’irrazionalismo che prendevano posizione contro l’eccesso razionalistico ed astratto della cultura positivista; in politica, contro quella che appariva la volgarità e la corruzione delle istituzioni liberali e del sistema democratico che elevava il numero, cioè la prevalenza nel voto della maggioranza sulla minoranza, ad elemento decisivo del giusto o dell’ingiusto, si vagheggiavano progetti elitari, assolutistici, intransigenti, nemici di ogni forma di umanitarismo o di internazionalismo e piuttosto basati su concezioni nazionalistiche ed antidemocratiche con evidenti implicazioni belliciste; anche a sinistra, in reazione all’affermarsi all’interno dei partiti radicali e socialisti e del movimento sindacale di tendenze riformiste disponibili a certe condizioni ad accordi con l’ala meno reazionaria dei partiti borghesi, si ergevano teorie radicali e massimaliste che puntavano alla continua agitazione delle masse nella prospettiva di una presa violenta del potere. Lo stesso sindacalismo, nella visione di un ideologo talvolta confuso ma ben introdotto nei circoli intellettuali come Georges Sorel, lungi dal rimanere impastoiato in secondarie e mediocri questioni di rivendicazioni salariali avrebbe dovuto essere l’elemento scatenante del grande fuoco in cui sarebbe perito il vecchio ordine sociale dando vita al mondo nuovo.
Di fatto, se si può rilevare un dato comune a queste posizioni ideologiche estremamente complesse e spesso assai diverse nella loro genesi e nella loro finalità, lo si può trovare essenzialmente nella loro vocazione elitaria, ossia nel sincero disprezzo verso la massa amorfa, sia borghese che popolare, che l’elite consapevole doveva non educare, ma manovrare per farla diventare l’elemento di cui servirsi per le proprie finalità di tipo nazionalista- reazionario o rivoluzionario. E’ sintomatico come sotto questo profilo il pensiero di Benito Mussolini, che rimane il caso più noto e compiuto di passaggio dall’estrema sinistra rivoluzionaria all’estrema destra nazionalista, sia sempre stato coerente sia nella fase socialista che in quella interventista che in quella fascista: in ognuno dei periodi della sua torrenziale produzione pubblicistica (quella teorica fu ben poca cosa) egli ebbe fissa l’idea che l’elite – e sopra di essa il demiurgo, o se si preferisce il duce- dovesse guidare e la massa seguire senza farsi troppe domande.
E’ da dire che, nonostante le loro agitazioni inconsulte, sia i nazionalisti sia i socialisti rivoluzionari rimasero minoranza,e le ultime elezioni italiane prebelliche, svoltesi nel 1912, non solo sancirono la prevalenza delle tradizionali forze liberali (rafforzate dalla presenza di elementi cattolici grazie al cosiddetto Patto Gentiloni)ma misero in chiaro che la prevalenza dei massimalisti all’interno del PSI si riferiva solo alla maggioranza degli iscritti e all’apparato del partito , non certo al Gruppo parlamentare e men che meno alla Confederazione generale del lavoro, che infatti aveva subito la scissione degli anarco-sindacalisti dell’USI, guidata da Filippo Corridoni, la quale era complessivamente ben poca cosa.
Quando la guerra scoppiò, in sostanza, essa non fu il prodotto di queste forze minoritarie, ma di una serie di eventi che le tradizionali forze dominanti in parte vollero ed in parte subirono, e l’interventismo italiano, di destra e di sinistra, fu essenzialmente una massa di manovra cui il Governo Salandra e le forze che lo appoggiavano fecero perno per far credere che l’interventismo avesse una base reale nel Paese (che invece era a larga maggioranza neutralista).
La nemesi, come è noto, avvenne alla fine della guerra, quando alle elezioni del 1919 votò praticamente tutto l’elettorato maschile su base proporzionale, e le vecchie classi dirigenti capirono che il loro tempo si era consumato a fronte della vittoria dei due partiti che rappresentavano i grandi esclusi del Risorgimento, cattolici e socialisti. Quasi contemporaneamente in Germania, la grande sconfitta, si adunava a Weimar l’Assemblea costituente della nuova Repubblica che si basava sull’accordo (poi purtroppo venuto meno) fra socialdemocratici, cattolici e liberali progressisti.
In Italia il partito socialista usciva dalla guerra diviso in tre, fra una maggioranza massimalista tanto parolaia quanto inconcludente, incapace di scegliere fra una via autenticamente rivoluzionaria ed una di collaborazione con le forze borghesi, un riformismo indebolito ed una nuova ala che faceva riferimento al grande fatto nuovo prodotto dalla guerra, la rivoluzione bolscevica : di fronte a queste prospettive inconciliabili il partito che era arrivato primo alle elezioni del 1919 nel giro di tre anni ebbe due scissioni – prima i comunisti, poi i socialdemocratici- che lacerarono il movimento operaio già sotto attacco da parte della reazione fascista.
Per quanto concerne il Partito popolare, l’ impostazione francamente democratica e progressiva dell’Appello ai liberi e ai forti era sicuramente salda in Sturzo e nei suoi più diretti collaboratori, ma non era acquisita a molti elettori e parlamentari di matrice clerico- reazionaria, e certamente era estranea alle finalità della Santa sede cui primariamente interessava, da un lato, chiudere una volta per tutte la Questione romana e, dall’altro, evitare la presa del potere da parte di forze rivoluzionarie ed atee che apertamente proclamavano di “voler fare come in Russia” dove già era partita la persecuzione antireligiosa.
Soprattutto vi era un’opinione pubblica che aveva la percezione di non aver tratto alcun beneficio dalla guerra, e non riusciva più ad aver fiducia verso le istituzioni, che erano incapaci di garantire l’ordine e la sicurezza. In questo modo il fascismo, che era stato esso stesso un elemento di disgregazione dell’ordine tradizionale, poté presentarsi allo stesso tempo come il garante della ricostruzione della pace sociale ed insieme come l’eversore della vecchia classe dirigente, a cui si appoggiò per arrivare al potere e che progressivamente marginalizzò con le buone o con le cattive, realizzando nel giro di quattro anni una perfetta macchina dittatoriale.
Anche i primi vent’anni di questo secolo sono stati dominati dall’emergere di dottrine antidemocratiche: infatti, il crollo pressoché indolore del sistema oppressivo delle dittature comuniste a guida sovietica aveva apparentemente realizzato la condizione che Francis Fukuyama aveva definito come la “fine della storia” ossia l’affermazione chiara, indiscutibile e non reversibile della democrazia liberale.
In realtà i fatti si incaricarono di smentire abbastanza rapidamente questa avventata profezia, da un lato con l’emergere di un aggressivo integralismo religioso, soprattutto in ambito islamico, e dall’altro di crescenti tendenze nazionaliste, disposte a mettere fra parentesi alcun aspetti delle garanzie proprie del sistema liberale in nome di interessi supremi della comunità : in ambedue i casi si trattava di reazioni identitarie di fronte alla globalizzazione economica, che era anche sociale e culturale, che di fatto metteva in discussione alcune delle acquisizioni del vasto ceto medio che abitava le regioni del Nord del mondo mentre apriva inedite occasioni di arricchimento per le imprese ed i capitali che potevano muoversi sul piano transnazionale. Lo choc della grande crisi dei mercati internazionali del 2007/ 2008 portava ad una rapidissima ristrutturazione del sistema capitalistico-finanziario, che tuttavia precarizzava ulteriormente la situazione delle classi sociali più deboli. Nel contempo, il muoversi di persone provenienti da aree del pianeta dove più infierivano guerre e miseria veniva percepito complessivamente come un attentato sia all’identità religiosa e culturale dell’Europa sia alle condizioni economiche della classe media . Su questo, e sulle supposte interferenze dell’Unione europea, trasformata inverosimilmente in una sorta di Leviatano antidemocratico e nemico dei popoli, ha fatto leva un’aggressiva propaganda neo nazionalista che fondeva corposi elementi di xenofobia con un messaggio “sociale” indeterminato che però a settori della classe lavoratrice parevano più vicini di quanto non fossero quelli della sinistra di matrice socialdemocratica o delle tradizionali forze moderate. Questo tipo di narrativa- come suol dirsi oggi- non è diventata maggioritaria ovunque, ma ha creato un rumore di fondo che di fatto ha pesantemente condizionato anche l’atteggiamento dei partiti tradizionali, soprattutto per quanto riguarda la tematica della gestione dell’immigrazione, che è stata interpretata come leva per scardinare il consenso delle forze politiche tradizionali, di destra e di sinistra, che spesso si sono trovate costrette a riposizionarsi sul terreno securitario prediletto dai neo populisti e ad adottare, almeno in parte, se non la loro retorica una parte delle loro ricette, confinando definitivamente agli occhi dell’opinione pubblica un fenomeno politico, sociale e culturale dai numeri sostanzialmente ridotti alla pura dimensione dell’ordine pubblico, oltretutto alimentato da credenze fantasmatiche sulla sua effettiva entità.
Lo stesso discorso religioso è riapparso sulla scena pubblica in una forma del tutto stravolta, identificandolo innanzitutto con la causa nazionale (il che, nel caso del cattolicesimo, appare contraddittorio fin dall’etimologia, giacché pretende di intrappolare l’universale nel particolare), e poi riducendolo a mera apparenza, ad un simbolo, come la bandiera nazionale utilizzata in modo improprio per far credere che tutto ciò che non è conforme alle aspettative di quel “popolo” indistinto cui il populista si rivolge e a nome del quale pretende di parlare sia da scartare e da combattere in quanto antinazionale ( e si va dalle differenze religiose a quelle culturali, sessuali, perfino culinarie…). In questo senso perfino la dimensione istituzionale viene piegata alla retorica e alla propaganda , e lo dimostra il modo disinvolto con cui si gestiscono le questioni che toccano le libertà pubbliche garantite dalla Costituzione o l’insofferenza di fronte all’ esistenza di contropoteri rispetto al completo dominio del potere esecutivo ( e la marginalizzazione di quello legislativo, complice anche la progressiva dequalificazione intellettuale e morale del personale politico, nessun partito escluso).
Il fattore che permise alle correnti antidemocratiche e antiliberali dei primi anni del XX secolo di sfociare nelle dittature degli anni Venti e Trenta fu indubbiamente la Grande guerra, che da un lato permise l’immissione permanente delle masse nella scena politica, e rese impossibile il mantenimento dell’ordine precedente basato sulla gestione della politica da parte delle elite tradizionali.
Resta da capire se la pandemia da COVID-19, i cui scenari sono ancora incerti, possa essere il famoso “cigno nero”che mette definitivamente in crisi gli assetti tradizionali: certo, vista nel pieno della crisi la situazione nel nostro Paese appare dominata da uno stato di eccezione che non ha previsione immediata nel testo costituzionale ed anzi ha condotto ad una compressione dei diritti che la Costituzione riconosce ai cittadini in misura mai vista dalla Liberazione ad oggi, aumentando la marginalità del Parlamento rispetto al Governo.
Ma se questa è una situazione transeunte legata all’emergenza sanitaria, è il pensiero del dopo che preoccupa, di come cioè gli evidenti contraccolpi economici della pandemia giungano a fragilizzare ulteriormente quel largo ceto medio diffuso dell’Occidente che non si è ancora rimesso dalla crisi economica di tredici anni fa. In questo senso il rischio è che la pandemia venga vissuta come l’elemento decisivo per scardinare il fragile ordine indotto dalla globalizzazione e rinchiudere tutti nella dimensione del populismo sovranista, formalmente democratico (nel senso che si continuerà a votare e si ammetterà un ristretto spazio di dissenso ideologico) ma sempre meno liberale.
Ma può anche darsi che emergano idee nuove, nuove aspirazioni ad una globalizzazione orientata in termini di collaborazione solidale, di una rigenerazione degli istituti della democrazia che non abbandoni la concezione del “limite” (per usare l’espressione di Aldo Moro) della politica stessa, che sta nell’affermazione dell’intangibile dignità dell’essere umano a partire dalla sua fondamentale aspirazione alla libertà.
Ma questa nuova stagione di libertà e solidarietà non potrà prescindere da un pensiero politico, e da questo punto di vista occorre domandarsi dove esso sia, come si sostanzi, in quali luoghi si affermi (uno dei più maligni paradossi del virus è che esso, impedendo i contagi sociali, svuota i luoghi di vita, le piazze -fisiche, non virtuali- in cui il pensiero politico può circolare e trasformarsi in azione di massa. E’altamente improbabile che una nuova fase politica possa nascere da dietro gli schermi di un computer o di uno smartphone).
In questo senso, non si ripeterà mai abbastanza che l’unico soggetto globale che si preoccupi seriamente del dopo è e rimane la Chiesa cattolica, e i reiterati attacchi che Papa Francesco subisce da parte dei portatori di progetti alternativi (perché anche il sovranismo ed il populismo rispondono ad una regia e ad un’agenda sovranazionali) dimostrano che quello del Pontefice argentino è un progetto disturbante per chi vorrebbe destrutturare e ristrutturare l’ordine internazionale secondo principi illiberali e comunque funzionali agli interessi di un capitalismo globalizzato che anche dalla crisi pandemica pensa di trarre un corposo interesse.
Tuttavia, alla Chiesa può spettare di lanciare l’allarme e di approntare delle idee per uscire dalla crisi, ma non di organizzare e gestire la risposta politica che deve coinvolgere anche coloro che professano un’altra o nessuna fede, e questo è il momento.
Come ha detto brillantemente l’economista Mohamed El Erian: “La crisi del 2008 è stata come la I guerra mondiale, vinta sul campo ma senza una piano economico giusto per la pace; il coronavirus deve essere come la II, dopo la vittoria occorre una governance politica razionale perché si riparta, in stile Piano Marshall”.
Però nel 1945 un pensiero politico globale c’era, e fu questo a fare la differenza.
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