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La Democrazia deve decidere

Scritto da Walter Veltroni.

Walter VeltroniLettera di Walter Veltroni a La Repubblica.

Caro Direttore, sono di nuovo in causa, in questa cupa estate del 2014, le grandi questioni che hanno deciso, nella storia, il destino dell'umanità.
Si tratta, in definitiva, della coesistenza di parole che possono facilmente separarsi, generando conflitti devastanti. Le parole sono: identità e dialogo, democrazia e decisione. Quando gli elementi di queste coppie si sono resi conflittuali il mondo ha generato il peggio di sé: le guerre, le dittature.
Chi può evitare che questa frattura, molto più semplice della ricomposizione, si produca? La politica, solo la politica. La tanto vituperata politica alla quale si preferirebbe oggi, da parte dei cultori del conflitto come fine, sostituire una indistinta e irregolata dimensione assembleare del decidere, tutto piegando alle pulsioni della emotività, secondo lo schema perfettamente descritto da Zagrebelsky nel suo magistrale "Il crucifige e la democrazia". Di politica, grande e coraggiosa, libera e progettuale, il mondo ha bisogno, nel suo momento più drammatico dal 1945.
È un'estate cupa questa, in cui un Papa sincero giunge a parlare di terza guerra mondiale in corso e un uomo viene sgozzato da terroristi davanti a una telecamera, in cui la morsa della recessione, la più lunga e sfiancante dal ‘29, non accenna a diminuire e i numeri delle statistiche tolgono speranza e fiducia, le più necessarie tra le condizioni della crescita economica e sociale; una estate cupa in cui l'Europa balbetta di fronte alle crisi che le esplodono intorno, l'America si scopre gendarme disarmato e la Russia torna ad essere antagonista invadente. L‘umanità, se non vuole che la cupezza di questa estate assomigli a quella del 1939, deve avere il coraggio di riconoscere i rischi e cercare nuove soluzioni. Mai, dalla fine della seconda guerra mondiale, il mondo, specie quello occidentale, è stato così disordinato, fragile, impaurito. Venticinque anni dopo la caduta dei muri il mondo sente che un nuovo equilibrio non è stato trovato e, per il vecchio continente, che l'unità politica e monetaria europea ristagna paralizzata da logiche di veto, burocratismi, politiche di potenza nazionale che fiaccano il progetto più grande del nostro tempo. Così, mentre la recessione impazza in tutto il continente, si affaccia il morbo della deflazione, ventiquattro milioni di cittadini sono disoccupati, l'Ucraina è in fiamme e il Medio Oriente si dilania tutto ciò che il vertice europeo riesce a fare è rinviare persino le nomine del suo governo. Questa crisi, lo sostengo da anni, sta mettendo a dura prova la vera trionfatrice dei giorni del 1989: la democrazia. Come è sempre successo nella storia dell'umanità durante i cicli negativi dell'economia, quando la materialità della condizione sociale precipita ceti e categorie verso il basso e spesso verso l'indigenza, affiorano, sempre, i fenomeni del populismo e, con essi, sempre, la domanda di soluzioni semplificate, la convinzione che sia conveniente barattare democrazia per decisione.
Dobbiamo dirlo con sincerità a noi stessi: nella terribile e inedita crisi in cui ci troviamo i meccanismi, i riti, i tempi delle procedure tradizionali degli Stati novecenteschi non funzionano più. Tutto è lento, farraginoso, elefantiaco. Non serve esemplificare. Qualsiasi cittadino e qualsiasi imprenditore sa sulla sua pelle che è così. Ma qui si pone la più delicata delle sfide politiche, quella che richiede più coraggio, profondità, innovazione. Come si riforma la democrazia lasciandola tale, non semplificandola al punto di assumere modelli autoritari? Quando Renzi rivendica, come condizione per il rilancio del Paese, la semplificazione delle procedure di decisione credo lo faccia non perché spinto da un desiderio di normalizzazione, ma perché la velocità e la coerenza di un disegno di governo, la loro limpida riconoscibilità, sono, al contrario, un fattore della democrazia moderna. E perché è impossibile adottare misure utili per il lavoro e la crescita se tra l'urgenza della crisi e i tempi della decisione si crea un abisso di distanza. Mi risuona da anni nella mente l'ammonimento di Calamandrei sulle cause che uccidono le democrazie, che sono sempre perite non perché decidevano troppo ma perché decidevano poco. Così fu con Weimar e con Facta. Sono la frammentazione, l'instabilità, la vischiosità decisionale che sterminano la democrazia. L'Italia, e forse ora la giovane Europa che dovrebbe accelerare sulla strada degli Stati Uniti d'Europa, hanno bisogno di tornare al filamento del Dna essenziale della democrazia: il suffragio universale, la scelta diretta del governo, la possibilità dell'esecutivo di attuare la politica per la quale ha ricevuto il mandato, una funzione di controllo puntuto delle assemblee rappresentative, una rete lieve di potere locale rinvigorita da un tessuto diffuso di comunità in grado, nella dimensione territoriale, di incidere, anche attraverso la sussidiarietà, sul miglioramento della vita civile. Perché, socialmente e umanamente, usciremo dal buio della recessione, solo con un di più di relazione, di scambio, di dono, appunto di comunità. La riforma della democrazia è materia necessaria e delicata. È un sistema e i meccanismi sono interdipendenti perciò bisogna avere la lucidità del chirurgo unita alla lungimiranza e all'autonomia del progettista. Ma senza decisione, o con la decisione frammentata in mille rivoli, una democrazia, in tempi di recessione, è destinata ad essere calpestata dall'urgenza drammatica di chi da un ceto sociale sta precipitando in basso, di chi tira giù la saracinesca del negozio o del capannone, di chi perde il lavoro e la speranza. Furono operai ieri socialdemocratici a votare Hitler e braccianti a sostenere Mussolini. La democrazia imbelle genera bisogno di autoritarismo. Per questo si deve andare avanti, in Italia e in Europa, con riforme che rendano veloce, nitido e tracciabile il processo democratico, a tutti i livelli. Corroborandolo, insisto, con la paziente costruzione di una rete di organismi civili che rendano il cittadino non solo spettatore, consumatore, utente delle pubbliche decisioni, ma soggetto attivo capace anche di autorganizzazione. Allo stesso modo si sbaglierebbe ad accettare che identità e dialogo si separino lasciando il campo al riaffiorare di pretese di superiorità religiosa o etnica fondate sulla negazione dell'altro. La lama che ha tagliato il collo di James Foley e le mani di chi indicava le case dei cristiani perché fossero depredate di vita e averi ci dicono che torna il demone dell'assoluto, quello che nega ogni pluralità. Di fronte a questo chi ha conquistato, Dio solo sa a quale prezzo, la meraviglia della libertà ha il dovere di reagire. Non certo compiendo l'errore parallelo, negare che altri possano creder in un altro Dio e vivere secondo la loro cultura, ma non consentendo mai a nessuno, da nessuna parte del mondo di usare la violenza per cancellare, come si cercò di fare con Auschwitz, ogni diversità.
La forza della democrazia sta nel saper garantire il pluralismo ma la forza della democrazia sta anche nel proteggere le diversità minacciate. Se non avessero scelto questa via, gli alleati e i resistenti, Hitler avrebbe vinto la guerra.
Per questo credo che oggi Obama stia facendo ciò che deve e che l'Europa fa bene a non voltare le spalle. E farebbe bene ad accelerare radicalmente la propria integrazione e in particolare il sistema di difesa comune e le politiche di immigrazione. Da questa crisi, come da quelle della Siria, della Libia, dell'Ucraina dipende l'equilibrio del mondo nuovo e persino alcune condizioni fondamentali della necessaria, urgente, uscita dalla recessione. Ma non bastano le armi, serve la politica. Quella grande, alta, libera e coraggiosa. Che deve fare la democrazia più forte e il mondo un luogo in cui ciascuno coltivi con orgoglio la sua identità, cercando e dialogando con l'altro. È impossibile, utopico? Doveva sembrare così ai bombardati di Coventry o di San Lorenzo, a Rostropovich che suonava nella biblioteca sventrata di Sarajevo e ad Altiero Spinelli confinato a Ventotene. Ma alla fine prevalse la libertà e la bellezza della democrazia. Grazie alla politica vera.

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