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Come si creano posti di lavoro?

Scritto da Lorenzo Borla.

Da sempre, nella storia della sinistra, c’è stata la contrapposizione frontale fra padroni e lavoratori: in linguaggio marxista, “la lotta di classe”. Sebbene lo stesso Marx abbia celebrato alcuni aspetti del capitalismo per la sua carica innovativa, ne ha condannato la condizione esistenziale, ovvero lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei padroni. Ne ha predetto il superamento, la caduta, la fine, a favore della società comunista. Questa predizione non si è avverata. Il capitalismo, anche nella forma estrema e dannosa del capitalismo finanziario che ha assunto nell’ultimo decennio, è sopravvissuto e domina il mondo. Dunque, la sinistra ha visto, storicamente, nei padroni dei “nemici di classe”, sfruttatori del lavoro dei subordinati. Il che, da un punto di vista teorico e computazionale, non è sbagliato. Mi spiego. Semplificando al massimo, il padrone si appropria di valore in più (plusvalore) prodotto dai lavoratori, ma non a loro remunerato. In altre parole, i lavoratori, oltre a produrre l’equivalente del proprio salario, producono valore in più che non viene distribuito fra i lavoratori stessi, ma trattenuto dal padrone (il profitto capitalistico).
Vediamo come si forma il plusvalore e l’uso che ne viene fatto. Il cosiddetto risultato economico dell’impresa non dipende soltanto del costo del lavoro, ma anche di altri fattori di spesa. Se si parte dal valore del venduto dall’impresa, bisogna dedurre il costo delle materie prime, dell’energia, degli affitti, dei servizi esterni e, appunto, del personale. (Che poi le fabbriche qui da noi siano quasi scomparse a favore di quelle del terzo mondo, che gli operai siano una razza in via di estinzione anche da noi, a favore del personale di ufficio, in questa sede non è rilevante). Ci sono poi altre voci di costo da dedurre dai ricavi di una azienda: interessi bancari, ammortamenti e tasse. Quel che resta è il margine “netto” dell’azienda: di regola viene in parte accantonato e in parte distribuito agli azionisti. Questo è, in termini marxisti, il valore in più, o plusvalore, che i padroni, ovvero gli azionisti, si mettono in tasca “sfruttando” il lavoro dei dipendenti. Questa regola vale non solo per le società di capitali e per le grandi fabbriche, ma anche per le società di servizi, grandi o piccole che siano, e vale anche per il piccolo artigiano o commerciante che ha pochi dipendenti. Vale anche per il mio verduriere che ne ha solo uno, di dipendente, pagato poco, e vedo che lo sfrutta senza pietà. Tutti i padroni, o padroncini, che hanno dipendenti, concettualmente li “sfruttano” allo stesso modo dei padroni delle ferriere.
Nella visione della sinistra (non necessariamente quella ottocentesca, perché è sopravvissuta almeno fino a Fausto Bertinotti) il padrone non è un dato variabile; è collocato lì, nel suo ruolo, come una figura emblematica, fissa e immutabile: appunto “il padrone”. Della sua condizione di padrone non gli vengono riconosciuti meriti. La storia personale che lo ha portato a quella condizione, non interessa, salvo dare per scontato che il suo è stato un cammino segnato dalle lacrime e dal sangue dei lavoratori. Ora, secondo questa logica, siccome è uno sfruttatore, dal padrone bisogna estrarre il maggior valore possibile da ridistribuire ai lavoratori. E ciò perché per definizione il padrone è “ricco” e tiene i cordoni della borsa. Il che generalmente è vero. Che poi ci siano imprenditori che falliscono e finiscono in povertà peggio che i loro operai; che ci siano padroni che commettono suicidio perché non hanno più soldi per pagare i dipendenti, per i Fausto Bertinotti non è significativo, né rilevante.
Veniamo all’oggi, hic et nunc. Dal 2007 al 2013 sono stati persi in Italia, circa un milione di posti di lavoro, quando il tasso di occupazione (gli occupati rispetto alla popolazione in età di lavoro), soprattutto femminile, era già, in Italia, il più basso d’Europa. Non parliamo poi della disoccupazione giovanile che, secondo i dati ufficiali, comprende una larga fetta dei giovani (almeno il 40%) sotto i 25 anni che vorrebbero lavorare. Questa situazione ha fatto diventare il problema dei posti di lavoro, assolutamente prioritario per qualsiasi governo. Ma come si creano posti di lavoro? Cominciamo col dire che il settore pubblico ha fatto la propria parte. Stato, Regioni, Province, Comuni e altri enti pubblici hanno dato: sono di regola saturi di personale, utile e inutile, dal momento che il principio non era assumere chi serviva, ma assorbire disoccupazione. La differenza rispetto al passato è che gli enti citati non hanno più soldi, e quindi capacità di assumere. La stessa cosa vale per le migliaia di società controllate dal settore pubblico che hanno fatto la loro parte, per quanto riguarda le assunzioni, ma di soldi ne perdono invece di guadagnarne (pare 22 miliardi l’anno in totale). E queste perdite devono essere periodicamente ripianate dagli enti che le controllano coi soldi dei cittadini. Insomma, anche qui non c’è più trippa per i gatti.
A questo punto, va notato che una flebile presa di coscienza sembra essersi fatta strada negli ultimi anni, anche da parte della sinistra. I posti di lavoro, esaurita la finanza pubblica, li può creare soltanto l’impresa privata (tertium non datur). Se non c’è l’iniziativa; se non c’è una ispirazione, una vocazione, una passione, un progetto, se non c’è l’assunzione di un rischio economico; non si creano imprese private e quindi non si creano posti di lavoro. Allora, forse, l’imprenditore non è più quella maschera trucida che si vede disegnata nei giornalini socialisti di fine ‘800; il padrone non è più un nemico da spremere; bensì diventa un interlocutore, una figura con cui bisogna fare i conti e di cui bisogna anche comprendere i meriti e le ragioni. La prima delle quali è semplice: se non c’è la cosiddetta iniziativa privata, non c’è l’impresa e quindi non c’è il lavoro. La seconda è che, se l’azienda non fa profitto, se fatica a stare sul mercato, prima o poi esce dal mercato; e che l’imprenditore, così come il meno pagato dei suoi operai, lavora in definitiva anche per guadagnare denaro. A maggior ragione vuole guadagnare denaro l’azionista che investe nella azienda senza lavorarci dentro. Questa è la realtà di cui prendere atto. Se non c’è la remunerazione, se non c’è il plusvalore di cui “il capitalista si appropria”, non c’è l’impresa.
Allora, una sinistra consapevole di questo quadro non invoca più l’intervento dello Stato sempre e comunque, come faceva “Fausto Bertinotti”. Se lo Stato intervenisse sempre e comunque si avrebbe una società comunista, che purtroppo, come abbiamo visto, produce povertà e non ricchezza. Il compito della sinistra in Italia è anzitutto quello di avere uno Stato che funziona in modo efficiente; uno Stato che fornisce buoni servizi; uno Stato che favorisce le imprese, specie quelle estere che si vogliono installare in Italia, e non le ostacola con una assurda e inerte burocrazia, con tasse sul lavoro che sono le più alte al mondo. Lo Stato non produce ricchezza: la consuma. Senza impresa (privata) non c’è ricchezza; e quasi nessuno purtroppo è in grado di vivere una povertà felice.
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