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Cambio di stagione

Scritto da Lorenzo Gaiani.

Lorenzo Gaiani Matteo Renzi ha centrato un duplice risultato: vincere largamente, con circa il 68% dei voti, le consultazioni popolari per l’elezione del Segretario del Partito Democratico, e farlo in una giornata straordinaria, una fredda domenica di dicembre in cui 3 milioni di Italiani sono andati alle urne nonostante le delusioni e i malesseri di una stagione politica contraddittoria, iniziata con la “non vittoria” (che in sostanza è una sconfitta) alle elezioni di febbraio, proseguita con l’umiliante pasticcio delle candidature al Quirinale e culminata nell’inopinata alleanza di governo con la destra berlusconiana (almeno fino all’estromissione del Cavaliere dal Parlamento).
In qualche modo la vittoria del Sindaco di Firenze appariva come un evento largamente atteso, ma in effetti è stata il prodotto di un cammino progressivo che ha portato, come ha detto giustamente lo stesso Renzi, non alla distruzione della sinistra italiana, ma al cambiamento radicale del suo gruppo dirigente.
Il problema, ovviamente, non era Gianni Cuperlo, distinta figura di intellettuale politico come di rado capita incontrarne di questi tempi, e tanto meno Pippo Civati, uno dei pochissimi dirigenti politici italiani che capisca qualcosa dei nuovi mezzi di comunicazione. Il problema, più in generale, era il senso generale di ripudio di una classe dirigente che ha monopolizzato la struttura di partito in questi anni, che ha ostacolato la dirigenza riformista di Veltroni e Franceschini (al netto dei loro errori, beninteso) e nel periodo della segreteria di Bersani ha oscillato fra una confusa aspirazione ad un orizzonte socialdemocratico privo di carne e sangue e una prassi organizzativa rigidamente escludente nei confronti di chi veniva percepito come estraneo ad una “ditta” intesa non sotto il profilo ideologico ma sotto quello di una specie di appartenenza castale.
Ecco, il voto per Renzi ha rappresentato per molti l’occasione di superare questo impasse e di portare il partito in campo aperto. Qualcuno ha visto in tutto ciò una specie di trionfo dell’antipolitica, mettendo di fatto Renzi sullo stesso piano di Berlusconi e Grillo, ma c’è un errore evidente di prospettiva. Indubbiamente il linguaggio di Renzi è popolaresco, si potrebbe persino dire “popolano” come il Bossi di una volta (volgarità escluse), ma è un linguaggio chiaramente politico, ossia mirante ad incardinare i “no” ed i “sì” della sua argomentazione in un quadro di carattere istituzionale.
Non è un caso del resto che nel suo primissimo discorso dopo l’elezione il Sindaco di Firenze abbia detto chiaramente di intendere il proprio mandato come aspirazione ad una generale ripresa di protagonismo della politica, una politica che ad oggi, e in particolare nel nostro Paese, appare rinunciataria, ripiegata su se stessa ed espropriata nelle sue scelte fondamentali ora dal potere giudiziario (vuoi la magistratura ordinaria, vuoi quella amministrativa, vuoi addirittura quella costituzionale) ora da qualche burocrazia autoreferenziale e cieca come quella di Bruxelles, ora puramente e semplicemente da un pervasivo potere economico – finanziario.
Compito principale di Renzi sarà quindi quello di rendere nuovamente agibile la politica attraverso una seria prassi riformista che non significhi, come spesso è accaduto un passato, il puro e semplice accompagnamento dell’esistente, ma abbia ambizioni di portata più ampia, e che inveri lo spirito della Costituzione anche attraverso i necessari cambiamenti degli apparati strumentali che si rendessero necessari in una fase storica diversa rispetto a quella della Costituente.
Soprattutto il nuovo Segretario dovrà sfuggire alla tentazione dell’autosufficienza, tanto più forte a seguito del netto risultato ottenuto: non si vince da soli, e certamente da soli non si costruisce un grande soggetto politico capace di interpretare le aspirazioni e le attese di un Paese affannato e ferito, ma ancora ricco di potenzialità di sviluppo e di possibilità di crescita.
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