No a un sistema di voto anti Grillo
A suo avviso negli ultimi anni il Movimento 5 Stelle si è rafforzato o indebolito?
«Si è rafforzato senza dubbio, come tutti i populismi del mondo occidentale. D’altronde, quando si sente dire che occorre fare una legge elettorale perché tutti hanno paura di favorire Grillo, significa che il suo movimento va avanti; e che gli strumenti usati finora per fermarlo si sono rivelati inadeguati».
Ma è giusto fare una legge elettorale per fermare Grillo?
«Assolutamente no. Guai a muoversi in questa logica. Le leggi elettorali debbono essere per sempre, comunque per un lungo periodo. La mia esperienza mi dice che approvarne una dettata da un interesse a breve termine di solito finisce per ritorcersi contro chi la fa».
Lei ha delle preferenze?
«Ne ho avute diverse in periodi diversi. In questa fase sono favorevole a una rivisitazione del cosiddetto Mattarellum. Credo sia l’unica maniera per ricreare un minimo di rapporto tra elettori e eletti».
L’obiezione è che in un sistema tripolare come il nostro non funziona: ricrea artificiosamente il bipolarismo.
«La mia preoccupazione è che la democrazia torni a essere più rappresentativa possibile. Ebbene, credo che il Mattarellum spingerà i partiti a mettere in campo candidati decenti, in grado di essere riconosciuti in collegi uninominali non troppo grandi. E in grado di vincere, anche se non voglio pormi solo il problema di chi vince o chi perde».
Sembra che i movimenti populisti si candidino a governare, in Italia come in Francia.
«Da mesi riflettevo sui grandi elementi unificanti che accomunano i cosiddetti populisti nel mondo. Mi verrebbe da dire che sono Donald Trump e gli Stati Uniti a seguire l’Europa, non viceversa. Ma la base di partenza è comune: la crisi del modo in cui si esprime la volontà popolare, e l’approccio col quale sono state gestite le crisi economiche e le disparità crescenti di reddito. Purtroppo, ci si è mossi quasi sempre facendo prevalere l’ottica elettorale, e con provvedimenti proiettati nel breve periodo. Questo ha dato fiato ai movimenti populisti».
È d’accordo con la tesi che questa lunga crisi avrà uno sbocco di destra, che in fondo Grillo anticipa?
«L’accentuazione della polemica contro gli immigrati asseconda una richiesta di ordine ed è nella direzione di una spinta vigorosa di destra. Ma credo non si possa semplificare troppo. Movimenti di destra come quello francese di Marine Le Pen scelgono temi di uguaglianza e giustizia sociale per coprire anche spazi di sinistra. E populisti etichettabili di sinistra come Grillo si buttano a destra per abbracciare ogni elemento della protesta antisistema».
Insomma, l’uscita a destra non è scontata.
«Be’, diciamo che non si può prevedere, proprio per l’analisi che stavo facendo. Per esempio, la richiesta di un salario minimo non è di destra. Lo è certamente la forza evocativa dell’immigrazione associata al terrorismo di matrice islamica. Ma credo che sia una miscela nella quale si sommano elementi opposti, in una fase drammatica nella quale a emergere è soprattutto la progressiva distruzione della classe media. Con la paura e la richiesta di sicurezza come elementi fondamentali».
Non crede a un asse con la Lega, dunque.
«Ci può essere magari un’alleanza strumentale col Carroccio, ma il M5S per avere vera forza elettorale deve interpretare l’insoddisfazione in modo generale e esclusivo. Direi onnicomprensivo. E dunque andando al di là di categorie tradizionali come destra, sinistra e centro. La Lega è rimasta ancorata a una rappresentanza parziale, non ha capito il nuovo populismo. Esprime una forza specifica, certo con un’appartenenza forte; ma limitata. Al contrario, il nuovo populismo europeo e statunitense allargano sempre di più l’orizzonte degli interlocutori, e incidono su una gamma sempre più vasta di sensibilità».
Il fatto che oggi la cultura populista stia conquistando segmenti di opinione pubblica non tradizionalmente populisti non impone di cambiare categoria e anche lessico, di inquadrare il fenomeno in termini nuovi?
«Qui non è questione solo di lessico. Il problema è che la gente ha paura: talmente paura che non protesta nemmeno più. Pensiamo a quello che sarebbe successo vent’anni fa con l’indebolirsi delle prestazioni del nostro sistema sanitario, che pure in alcune zone del Paese rimane tra i migliori del mondo. Quando una crisi economica si prolunga per sette o otto anni, non si può separare la ricostruzione dei sistemi istituzionali da politiche concrete. Le tensioni istituzionali nascono dall’esistenza di un’angoscia personale profonda e diffusa».
Secondo lei, in Italia vicende come quella del Monte Paschi di Siena influiscono su questa inquietudine di fondo?
La vicenda del Monte dei Paschi di Siena è l’esempio tipico di quello che è successo e che sta accadendo. Sono fatti che alimentano la grande paura. Si tratti di Mps o di Banca Etruria, danno corpo a un’ansia nuova. Dieci anni fa chi temeva che mettendo i soldi in banca poteva perderli? Nessuno prima mi veniva a chiedere: professore, rischio se lascio i soldi in banca? Non è solo questione se si guadagna un po’ di più o di meno. La gente teme di perdere tutto quello che ha. In un momento di stagnazione economica domina la paura di vedere volar via i risparmi di una vita».
Il risultato del referendum costituzionale del 4 dicembre ha a che fare con tutto questo?
«Credo che si discosti poco da quanto ho detto finora. È parte di una progressiva estraneità del popolo rispetto alle riforme. È successo in Italia un fenomeno simile a quello che si registrò con la bocciatura della Costituzione europea in Francia nel 2005. Il popolo non votò pro o contro il Trattato, ma contro il presidente di allora, Jacques Chirac».
Sentendola parlare, si intravede una lunga linea di continuità: la crescita progressiva di un fenomeno per almeno dieci anni, che non si è riusciti a vedere in tempo.
«Più di dieci anni. È dal 1985 che le disparità di reddito crescono, non dal 2007-2008. Sono i frutti del periodo post-Reagan e post-Thatcher. E per vent’anni si è detto che quello che andava bene agli imprenditori e ai banchieri avrebbe arricchito tutti. E gli accademici annuivano. Ora ci si rende conto dell’errore. Ma i populismi sono in ascesa, perché nessuno sembra in grado di riprendere una discussione a 360 gradi e di contestare un modello di potere verticale che ha fallito. Non si discute più nelle assemblee, nei partiti, in Parlamento. Né basta dire: ma i populisti non hanno programmi. E perché dovrebbero averne? A loro interessa demolire, e poi si vedrà».