Le pause sono vitali
Articolo del Sole 24 Ore.
Confini. Ho sempre associato questa parola a un processo escludente, a una separazione spesso generatrice di sofferenza. Mi sbagliavo. Sono, a tutti gli effetti, uno degli strumenti più potenti che abbiamo per ristabilire equilibrio e priorità. E lo sono soprattutto oggi, nell’epoca dell’integWorkout razione per eccellenza tra lavoro e vita privata.
Disclaimer: ho sempre professato l’importanza di integrare queste due dimensioni e tutt’ora ne sono una profonda estimatrice. Ho sempre sostenuto che poter lavorare ovunque, senza essere costretti a una sola scrivania, fosse uno straordinario privilegio; ogni volta in cui ho potuto, ho portato mio figlio con me in appuntamenti ed eventi di lavoro, facendo in modo che l’incontro tra la dimensione familiare e professionale potesse essere un dato di fatto. Ho lavorato per arrivare a tutto questo e l’ho fatto in tempi non sospetti, molto prima che la pandemia sdoganasse lo smart working e la workation. Ma c’è una cosa che non avevo previsto, anzi, due: il fuoco incrociato delle comunicazioni e il senso di colpa. Dimensioni che sopraggiungono anche nei momenti di stacco.
Partiamo dalla prima: essere distanti fisicamente non significa non essere raggiungibili. Piattaforme di messaggistica istantanea come Whatsapp, Slack o Trello ci rendono disponibili, sempre, anche quando siamo in ferie. Se fino a qualche tempo fa, a una libera professionista come me bastava controllare la casella e-mail per comunicare con clienti, partner e fornitori, oggi le piattaforme sono cresciute esponenzialmente, in molti casi rafforzando la dimensione di prossimità (e promiscuità) tra pubblico e privato. Whatsapp, ad esempio, è spesso utilizzato a scopi personali, ma anche lavorativi. Il risultato? Potremo anche prendere un volo per l’altra parte del mondo e impostare il nostro OOO (out of office), ma se non impareremo a stabilire dei confini coerenti, non potremo dirci davvero disconnessi, neanche durante il tempo libero.
Da qui, la seconda minaccia non prevista: l’iperconnettività alimenta il senso di colpa. Se nel mondo digitale che ci circonda, il flusso delle azioni non accenna a interrompersi, saremo naturalmente portati a limitare il nostro “tempo del riposo”. Pensiamo all’effetto generato da piattaforme come LinkedIn: a ogni accesso siamo invasi da notizie, commenti e foto riguardanti successi professionali altrui, avanzamenti di carriera o eventi riferiti al contesto professionale di nostro interesse. Stimoli da cui trarre ispirazione che ci spingono a reagire, rifiutando le pause e finanche vergognandocene. Un senso di imbarazzo di cui spesso siamo i principali artefici, ma che a volte subiamo anche da chi è intorno a noi.
Secondo una recente ricerca di Adecco, il 58% degli italiani ha sofferto, almeno una volta, del fenomeno del vacation shaming: una condizione che impatta in modo particolare Millennials e GenZ alle prese con il timore di andare incontro a ripercussioni lavorative e di scontrarsi con colleghi e responsabili nel momento della richiesta di giorni di vacanza. La possibilità di ricevere un giudizio negativo da parte del proprio capo scoraggia il 17% dei lavoratori dal richiedere giornate off.
La verità è che, come ricordano Maura Gancitano e Andrea Colamedici nel libro “Ma chi me lo fa fare?”, “il lavoro sembra essere diventato un flusso perenne che impedisce la quiete e il respiro. Cominciare con il dirselo, con il vederlo, è un modo per accorgersi di quanto tutto questo sia inaccettabile. E quanto si possa, e si debba, cambiare”.
Allontanare il senso di colpa collegato al riposo, disconnetterci da tutto ciò che è superfluo, riconoscere i propri spazi di silenzio e tornare a dare attenzione a una cosa alla volta sono gli unici “task”, gli unici compiti che dovremmo darci per queste ferie.
Personalmente, sono partita dall’annullare le notifiche dei social network, professionali e non, e mi sono data orari specifici in cui controllare le e-mail (da freelance è una pratica inevitabile). Così facendo, ho imposto a me stessa, prima che agli altri, un limite. Ammetto: ho temuto che l’ansia per il “non fatto” si accumulasse, invece, ho conquistato libertà. E mi è tornato alla mente ciò che diceva la mia insegnante di pianoforte da bambina: sono le pause che compongono la melodia.
Confini. Ho sempre associato questa parola a un processo escludente, a una separazione spesso generatrice di sofferenza. Mi sbagliavo. Sono, a tutti gli effetti, uno degli strumenti più potenti che abbiamo per ristabilire equilibrio e priorità. E lo sono soprattutto oggi, nell’epoca dell’integWorkout razione per eccellenza tra lavoro e vita privata.
Disclaimer: ho sempre professato l’importanza di integrare queste due dimensioni e tutt’ora ne sono una profonda estimatrice. Ho sempre sostenuto che poter lavorare ovunque, senza essere costretti a una sola scrivania, fosse uno straordinario privilegio; ogni volta in cui ho potuto, ho portato mio figlio con me in appuntamenti ed eventi di lavoro, facendo in modo che l’incontro tra la dimensione familiare e professionale potesse essere un dato di fatto. Ho lavorato per arrivare a tutto questo e l’ho fatto in tempi non sospetti, molto prima che la pandemia sdoganasse lo smart working e la workation. Ma c’è una cosa che non avevo previsto, anzi, due: il fuoco incrociato delle comunicazioni e il senso di colpa. Dimensioni che sopraggiungono anche nei momenti di stacco.
Partiamo dalla prima: essere distanti fisicamente non significa non essere raggiungibili. Piattaforme di messaggistica istantanea come Whatsapp, Slack o Trello ci rendono disponibili, sempre, anche quando siamo in ferie. Se fino a qualche tempo fa, a una libera professionista come me bastava controllare la casella e-mail per comunicare con clienti, partner e fornitori, oggi le piattaforme sono cresciute esponenzialmente, in molti casi rafforzando la dimensione di prossimità (e promiscuità) tra pubblico e privato. Whatsapp, ad esempio, è spesso utilizzato a scopi personali, ma anche lavorativi. Il risultato? Potremo anche prendere un volo per l’altra parte del mondo e impostare il nostro OOO (out of office), ma se non impareremo a stabilire dei confini coerenti, non potremo dirci davvero disconnessi, neanche durante il tempo libero.
Da qui, la seconda minaccia non prevista: l’iperconnettività alimenta il senso di colpa. Se nel mondo digitale che ci circonda, il flusso delle azioni non accenna a interrompersi, saremo naturalmente portati a limitare il nostro “tempo del riposo”. Pensiamo all’effetto generato da piattaforme come LinkedIn: a ogni accesso siamo invasi da notizie, commenti e foto riguardanti successi professionali altrui, avanzamenti di carriera o eventi riferiti al contesto professionale di nostro interesse. Stimoli da cui trarre ispirazione che ci spingono a reagire, rifiutando le pause e finanche vergognandocene. Un senso di imbarazzo di cui spesso siamo i principali artefici, ma che a volte subiamo anche da chi è intorno a noi.
Secondo una recente ricerca di Adecco, il 58% degli italiani ha sofferto, almeno una volta, del fenomeno del vacation shaming: una condizione che impatta in modo particolare Millennials e GenZ alle prese con il timore di andare incontro a ripercussioni lavorative e di scontrarsi con colleghi e responsabili nel momento della richiesta di giorni di vacanza. La possibilità di ricevere un giudizio negativo da parte del proprio capo scoraggia il 17% dei lavoratori dal richiedere giornate off.
La verità è che, come ricordano Maura Gancitano e Andrea Colamedici nel libro “Ma chi me lo fa fare?”, “il lavoro sembra essere diventato un flusso perenne che impedisce la quiete e il respiro. Cominciare con il dirselo, con il vederlo, è un modo per accorgersi di quanto tutto questo sia inaccettabile. E quanto si possa, e si debba, cambiare”.
Allontanare il senso di colpa collegato al riposo, disconnetterci da tutto ciò che è superfluo, riconoscere i propri spazi di silenzio e tornare a dare attenzione a una cosa alla volta sono gli unici “task”, gli unici compiti che dovremmo darci per queste ferie.
Personalmente, sono partita dall’annullare le notifiche dei social network, professionali e non, e mi sono data orari specifici in cui controllare le e-mail (da freelance è una pratica inevitabile). Così facendo, ho imposto a me stessa, prima che agli altri, un limite. Ammetto: ho temuto che l’ansia per il “non fatto” si accumulasse, invece, ho conquistato libertà. E mi è tornato alla mente ciò che diceva la mia insegnante di pianoforte da bambina: sono le pause che compongono la melodia.