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Il green senza giustizia sociale è insostenibile

Scritto da Alessandro Maggioni.

Alessandro MaggioniArticolo di Alessandro Maggioni pubblicato da Gli Stati Generali.

Il “green” ormai è il colore della politica: dalla questione del pass a quella della narrazione correlata alla sostenibilità non si vede altro che verde. Come sono lontani i tempi in cui il verde era il colore della Padania bossiana, tempi in cui il verde non era nominabile nemmeno per ricordare la speranza. Oggi il verde o, meglio, il “green” è quanto di più cool si possa immaginare.
Sia chiaro: che si siano aperti gli occhi sulla necessaria ineluttabilità di una torsione dei comportamenti collettivi, tesa a una maggiore armonia con i fragili equilibri dell’ecosistema, è una manna.
Ma agli occhi di chi, senza enfasi e con alcuni dati testimoniali, cerca da sempre di tenere la barra dritta sulla necessità di un’impostazione ecologica il più possibile ampia (e, di gente così, ce n’è tanta), questa sfiancante tiritera per cui tutto oggi è o deve essere “sostenibile, circolare, resiliente e inclusivo” appare se non sospetta, quanto meno fastidiosa. Senza soffermarsi su odierne ed enfatiche dichiarazioni di ecosostenibilità di persone – con ruoli importanti – che fino a ieri l’altro dichiaravano che “siccome i nostri clienti comprano case a 15.000 euro al mq, possono decidere di accendere il riscaldamento anche a luglio se ne hanno voglia” (l’ho sentito con le mie orecchie, nel 2019, in un convegno sull’immobiliare milanese), va detto a mio avviso che la transizione ecologica o si occupa di giustizia sociale o, se così non fa, diventa un altro elemento di marketing che cambia poco rispetto ai destini dell’umanità. Il “green” senza giustizia sociale è insostenibile.
Provo, limitandomi al campo e alla città che meglio conosco, ad articolare un ragionamento con un esempio.
Il primo nodo che penso debba essere messo in evidenza è connesso alla questione urbana e abitativa. Una città che si ponga solo la prospettiva di costruire alloggi green senza allo stesso tempo pensare anche a politiche di calmierazione dei prezzi e apertura costante del mercato a una pluralità di offerta, fa un’operazione di radicale insostenibilità.
Partiamo da un dato: oggi si dice che a Milano il costo medio di acquisto di un alloggio (il dato tiene assieme nuovo e usato) è pari a 5.800,00 euro/mq. In effetti, spulciando qualche pubblicità di quasi ogni mirabolante iniziativa immobiliare milanese di questi tempi, si può ben notare che, ad esempio, in una zona semiperiferica a est della città si vendono case (nuove) a circa 6.000 euro al mq.
Mettiamoci dunque nei panni di una giovane coppia che vuole uscire da un bilocale poiché, a causa dell’arrivo di una figlia, lo spazio manca. Decide di prendersi un piccolo trilocale nella suddetta zona: 100 mq commerciali a 6.000 euro vuol dire, secchi, 600.000 euro, a cui va aggiunto il box/posto auto – che comunque anche se non c’è la macchina serve sempre ed è ancora molto ambito – nell’ordine di almeno 30.000 euro e su tutto l’IVA del 4%, essendo prima casa. Bene, la giovane coppia deve tirare fuori, per un trilocale di giusta dimensione ma tendente al piccolo, almeno 655.000 euro. Se ipotizzassimo che riescano a vendere, facendo un po’ di piccola speculazione, il loro bilocale di 65 mq a 4.000 euro al mq (una cifra comunque importante per l’usato in quella zona), dovrebbero disporre di risorse, proprie o a debito, per altri 395.000 euro. Una cifra ingente. Immaginiamo infine che la coppia abbia redditi da ceto medio, ossia un reddito familiare attorno ai 100.000 euro/anno (quindi benestanti), si caricherebbero di un fardello debitorio pesantissimo.
Non molto differente è la questione dell’affitto con canoni definiti impropriamente “affordable” o, peggio, “sociali” nell’ordine dei 150 €/mq anno: il medesimo trilocale che verrebbe a costare circa 1.400 euro di affitto, ossia pressoché un reddito secco bruciato in rendita immobiliare altrui. Quale potrà essere l’esito prevalente di un tale processo? Un nuovo esodo di cittadini “normali” che da Milano escono – non per scelta ma per obbligo – verso la provincia, con tutta l’entropia sociale ed ecologica connessa.
È questo il caso, a mio avviso più eclatante e rispetto al quale serve una costante allerta della politica, di greenwashing. Lo specchietto per allodole di una casa eco-tecnologicamente performante è fattore di incremento estrattivo del valore, cosicché si carichi, legittimamente da parte di chi vende, una buona redditività dovuta alla narrazione ambientalista di cui oggi ogni dannata merce è spruzzata.
Espellere cittadini di ceto medio o medio basso che a Milano hanno vissuto, vivono e lavorano è un processo che non solo non rende ragione alcuna alla natura e alla storia della città, bensì crea effetti di lungo periodo che stroncheranno ogni enfatica narrazione sulla “rivoluzione verde”. Per essere realistica e duratura tale rivoluzione, inglobando in sé concreti elementi di giustizia sociale, deve alzare e ampliare lo sguardo. La sfida della sostenibilità per Milano è legata inscindibilmente a tutta la sua area metropolitana: i grandi sistemi dei parchi metropolitani – che hanno il Parco Agricolo Sud e il Parco del Ticino come inestimabili bacini “verdi”, agricoli e di biodiversità a pochi chilometri dal centro di Milano – vanno inseriti strutturalmente in una strategia ecologica; il nodo del pendolarismo casa-lavoro, che ha proporzioni enormi nonostante la retorica sull’home working, data l’inaccessibilità di Milano come sopra detto, chiede investimenti strategici che vanno oltre il prolungamento di alcune linee di metropolitana (un esempio di lungimiranza, è il Passante Ferroviario, che però dato il livello basso del servizio non è efficace come dovrebbe); la volontà, da perseguire con azioni concrete e a portata di mano, di rendere Milano ancora abitabile anche per i ceti “popolari”, senza chiedere loro fatiche economiche ed esistenziali insostenibili.
Allora, in questo caso, si potrà parlare di “rivoluzione verde”. Altrimenti, come spesso accade, sarà solo speculazione e pubblicità che non produrrà “sostenibilità, circolarità, resilienza e inclusione” bensì “insostenibilità, entropia, reazione ed esclusione”.
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