Le prospettive del Partito Democratico

Sono passati quasi due mesi dalla fine del lungo percorso congressuale del Partito Democratico che, come è noto, ha portato ad un doppio risultato, nel senso che le consultazioni interne ai Circoli di partito, riservate agli iscritti, hanno visto l’affermazione del Presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, mentre quelle aperte a tutto l’elettorato potenziale (che poi sono quelle decisive al fine della determinazione degli equilibri interni) si sono risolte nella vittoria della deputata Elly Schlein, già Vicepresidente della stessa Regione.

Occorre dire che i capi delle maggiori correnti interne al Partito, da Dario Franceschini ad Andrea Orlando, si erano schierati con maggiore o minore convinzione a favore di Schlein, che si era iscritta al PD all’ultimo momento utile per potersi candidare, dopo esserne uscita polemicamente alcuni anni fa ai tempi della Segreteria Renzi (non prima, tuttavia, di essere stata eletta al Parlamento Europeo nel 2014 ai tempi del famoso 40% …). A sostegno di Bonaccini si era schierata ufficialmente solo la componente di Base riformista, già in minoranza fin dal 2019, più altre personalità provenienti da altre componenti del Partito unite dal riconoscersi maggiormente in una candidatura palesemente interna alla storia politica del PD, alle sue radici riformiste, piuttosto che in una che veniva giudicata movimentista e massimalista.

La vittoria di Schlein è consistita essenzialmente nella capacità mobilitativa di una minoranza trasversale che, approfittando delle condizioni minime assai lasche per la partecipazione al voto (così volute dalla dirigenza uscente la cui imparzialità fra i due candidati era solo apparente), ha richiamato ai famosi gazebo esponenti di forze politiche e di realtà associative esterne al PD che hanno agito in modo determinato per imprimere una svolta netta al maggior partito di opposizione, sfruttando oltretutto il fattore non secondario – almeno sotto il profilo propagandistico – che la persona prescelta era donna e giovane (in realtà ha 37 anni, ma i confini della giovinezza in Italia, come è noto, sono assai indefinibili e porosi).

Il partito fondato nel 2007 come confluenza delle maggiori culture riformiste italiane è ora guidato da questa avvocata con tre cittadinanze (italiana, statunitense e svizzera), nipote per parte materna di un grande avvocato ed ex senatore socialista, noto esponente della massoneria, figlia di due docenti universitari e sorella di una funzionaria del nostro Corpo diplomatico. Non è esattamente un profilo di matrice popolare, per quel che conta, sebbene paradossalmente l’attuale Presidente del Consiglio, nonché maggiore esponente della destra, sia invece una figlia della marginalità sociale.

Il problema ovviamente è quello del tipo di progetto politico di cui Schlein è portatrice, e questo è più complesso, seppure nella sua non brevissima storia politica (e nella mozione di appoggio alla sua candidatura) si siano già delineate alcune caratteristiche di fondo che rimandano a quella che si può definire una cultura radicale che si colloca in un orizzonte totalmente secolarizzato, e che si distingue per un’illimitata esaltazione dei desideri soggettivi a diritti meritevoli di protezione giuridica generalizzata. In questa prospettiva la dimensione sociale, che si è espressa in questi anni essenzialmente come richiesta di protezione e che la destra ha saputo gestire meglio sia pure orientandola verso falsi bersagli, viene in qualche modo subordinata alle istanze individualiste legate alla soggettività personale che, comunque le si voglia giudicare, hanno agli occhi dell’opinione pubblica diffusa assai minor rilievo rispetto alle preoccupazioni per la situazione economica, per il lavoro, per la sicurezza pubblica latamente intesa.

D’altro canto, essendo evidente che il PD rimarrà all’opposizione per tutto l’arco della legislatura (salvo eventi al momento imprevedibili) il rischio è che su certi argomenti, come suol dirsi, eticamente sensibili, la nuova dirigenza ceda alla tentazione di un radicalismo verbale esasperato che si tradurrà in un muro contro muro identitario con la destra (che non aspetta altro) e che esorcizzerà ogni tentativo di ragionevole  mediazione come una forma di intelligenza col nemico, come si vide del resto nella gestione settaria del cosiddetto DDL Zan lo scorso anno, in cui tutti coloro che esprimevano riserve sull’approccio massimalistico adottato venivano emarginati dal Partito e pubblicamente linciati da bande di esaltati sui social. Ciò sicuramente servirebbe ad avere gli applausi dei già convinti, ma non sposterebbe minimamente i rapporti di forza complessivi.

Non giova, peraltro, che alcuni settori della nuova dirigenza – nel silenzio della Segretaria, che non sembra amare troppo i contraddittori – assumano un atteggiamento liquidatorio nei confronti del mondo cattolico, dimenticando che esso non è esterno bensì fin da subito interno al percorso fondativo del PD, e che comunque il magistero di papa Francesco ha ricollocato ma non abolito il magistero precedente in materia etica e sociale.

Questi aspetti sono emersi alla fine del tormentato percorso che ha condotto prima all’elezione dei nuovi capigruppo parlamentari – che si è risolta in una sostanziale imposizione di figure legate alle correnti che hanno sostenuto la nuova Segretaria – e poi alla nomina della Segreteria nazionale (che, come ha rilevato qualcuno, ha richiesto più tempo di quello che è servito a Giorgia Meloni per comporre il suo Governo). Quest’ultima, accanto a figure derivanti dalle varie correnti, è ora composta da molte persone entrate solo ultimamente nel Partito al seguito di Schlein, e che ora dirigono aree delicate a partire da quella dell’organizzazione interna.

Anche la minoranza, dopo non pochi tormenti e le non inattese defezioni di persone corse immediatamente in aiuto della vincitrice, ha deciso di entrare nella gestione del Partito con incarichi non secondari, ma è ovvio che la direzione politica spetta alla Segretaria. Altrettanto ovvio che la collaborazione non significa omologazione, e numerosi esponenti di quella che comunque è la mozione più votata dagli iscritti (e che ha ottenuto il 47% a livello popolare) si sono levate voci, da Piero Fassino a Graziano Delrio fino allo stesso Bonaccini, eletto Presidente del Partito, per ricordare che le istanze di cui la componente riformista è portatrice non sono meno valide di prima.

Anche perché la situazione del Partito non è ottimale: la partecipazione alle cosiddette primarie del 26 febbraio è stata la più bassa dal 2007, il tesseramento è in declino e la presenza sul territorio è spesso inerziale o assorbita dalle esigenze amministrative locali. Il rovescio della medaglia, ovviamente, è che a fronte di partiti che sono spesso solo proiezioni della personalità del loro fondatore e dominus, il PD è ancora un organismo complesso con un residuo di militanza reale e con una classe dirigente che bene o male a livello comunale, provinciale e regionale costituisce un patrimonio oggettivo di competenza e di capacità. Inoltre, qualsiasi alternativa alla destra non potrà che avere il PD come perno, soprattutto se continuerà l’erosione del Movimento 5 stelle che a livello locale si dimostra sempre più afasico.

Ragione di più per evitare una gestione solipsistica e settaria e per cercare di unire in feconda sintesi politica tutte le energie disponibili alla costruzione di un’alternativa ad un Governo dalle tendenze demagogiche ed autoritarie.

Lorenzo Gaiani

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2 commenti

    • Massimo Verdino il 24 Aprile 2023 alle 18:26

    L’ analisi di Lorenzo Gaiani è profonda, accurata e pertinente. I problemi principali sono tre: 1) il richiamo alle radici di Schlein è una forma di “sovranismo” di sinistra, che crea muri e danneggia; 2) la continua rivendicazione di diritti individuali e non declinazione di diritti sociali avvicina qualche tifoso, ma allontana gli elettori determinanti per il governo; 3) benché il PD, come dice Lorenzo, sia un perno e un punto di riferimento per la democrazia, non emerge al momento attuale alcuna proposta concreta di governo, perché come al solito, anche sotto un maggioritario spinto, prevale la preoccupazione di compiacere gli alleati, più che formulare proposte di governo. Infine, attenti a Conte: questo omuncolo politico vuole tornare a palazzo Chigi e, in caso di alleanza porrà vincoli che la “ditta” è già pronta ad accettare..

    • Beppe Tognasso il 22 Aprile 2023 alle 10:16

    Grazie Lorenzo per questo tuo scritto. La penso come te. Beppe

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