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La politica estera e di difesa di un’Unione Europea protagonista e unita

Scritto da Massimo Cingolani.

Massimo CingolaniIntervento di Massimo Cingolani agli Incontri Riformisti a Eupilio.

Il titolo V del Trattato dell’Unione Europea comprende disposizioni sulla politica estera e di sicurezza comune (PESC), già definita dall’art. 2 come strumento per il perseguimento di uno degli obiettivi istituzionali dell’UE: “affermare la sua identità sulla scena internazionale”.
La configurazione dell’identità internazionale costituisce, oggi, uno degli obiettivi più significativi da perseguire, per definire l’esatta connotazione di una entità sovranazionale.
L’esigenza di una politica unica di sicurezza, pur essendo diffusa, tuttavia stenta a concretizzarsi a causa della difficoltà a trovare tra le differenti culture europee l’equilibrio essenziale perché ciascun popolo acquisisca consapevolezza di essere parte integrante del popolo europeo e riconosca l’Unione quale entità sovranazionale appartenente a tutti i cittadini europei.
Già agli inizi degli anni ’50, l’esigenza di una difesa comune, ampiamente sentita, ha portato all’elaborazione del progetto della Comunità europea di Difesa (C.E.D.), rimasto però inattuato a causa del mancato adeguamento degli ordinamenti nazionali alla prospettiva di una policy di difesa integrata, secondo una pianificazione strategica sovranazionale.
In questa prospettiva la bozza della costituzione europea prevede tra gli obiettivi dell’Unione, “la definizione progressiva di una politica di difesa comune che può condurre a una difesa comune”.
Gli effetti dell’adesione dell’Italia al dialogo europeo per la realizzazione di una difesa comune si sono concretizzati già nell’ordinamento vigente con la legge n° 1862/62, concernente la delega al Governo per il riordinamento del Ministero della Difesa e degli Stati Maggiori.
Questa norma, nel fissare i principi ed i criteri a cui allineare la prima grande riforma della Difesa, tra l’altro, stabiliva che il Capo di Stato Maggiore della Difesa, in aggiunta ai compiti già previsti, doveva provvedere al “coordinamento dei rapporti con gli organismi militari internazionali nel quadro degli accordi di comune difesa”.
All’epoca, l’idea di difesa comune era ancora allo stato embrionale, ben lontana dalla possibilità di concorrere alla configurazione di quell’identità europea auspicata dall’art. 2 del Trattato UE.
Il richiamo ai rapporti con gli Alti Comandi alleati per la trattazione dei problemi militari e la subordinazione dell’adesione alla pianificazione comune all’assolvimento prioritario degli impegni militari esistenti rendono evidente come l’idea di difesa comune fosse ancorata al concetto di alleanza, che presuppone una cooperazione per la definizione di una strategia comune contro una minaccia, gestita da un Comando alleato ma attuata da Comandi nazionali.
L’alleanza, infatti, consente agli Stati membri di realizzare gli obiettivi essenziali di sicurezza nazionale mediante un sforzo congiunto, fermo restando che nessun alleato debba rinunciare al diritto di perseguire autonomamente i propri interessi nazionali, continuando a gestire la responsabilità della propria difesa con una strategia individuale.
L’alleanza, in sostanza, non incide sull’assoluta autonomia della politica militare dei singoli alleati nell’ambito della rispettiva politica nazionale, né implica alcun impegno di cooperazione nei settori collaterali della politica militare.
Impone soltanto l’impegno di fornire i contributi di risorse, uomini mezzi e strutture, ogni volta che viene richiesto, l’idea di difesa comune che si sta sviluppando richiede invece una progressiva unificazione della politica militare nel quadro di una politica di sicurezza unitaria, pensata per poter diventare una politica unica.
Un’ulteriore conferma di questo orientamento politico si rinviene anche nella norma concernente l’istituzione del servizio militare professionale, che ridefinisce i compiti delle Forze Armate e la necessità dell’appropriata armonizzazione dell’opzione per la difesa comune.
L’art.11 poi della Costituzione dove cita che: “l’Italia… consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni…” non crea problemi di tipo istituzionale.
Per la sicura affidabilità di tale Forza è indispensabile che la composizione non risulti dalla mera sommatoria di contingenti di diversa nazionalità e di differente formazione, ma è essenziale che i singoli militari acquisiscano chiara coscienza circa l’irrinunciabilità di un impegno, non freddamente professionale, e che difesa comune e difesa nazionale coincidono.
E’ chiaro che solo una forza coesa può raggiungere livelli operativi che rendano credibili la politica di difesa comune, e la politica di sicurezza europea, anche nell’ottica di una costante cooperazione atlantica per la garanzia della sicurezza globale.
Teniamo presente che esperienze di eserciti sovranazionali risalgono ai secoli scorsi a quelli napoleonici e più recentemente (per modo di dire) a quello austroungarico e un problema che si porrà nello stesso modo sarà quello linguistico, (ai tempi si usarono il francese, e il tedesco e l’italiano). Forse si potrebbe guardare all’esercito svizzero, per l’aspetto linguistico, ma non troppo perché di fatto è una milizia di difesa cantonale. Già usare l’inglese NATO, con fuori il regno Unita è strano?
La difesa comune è però subordinata ad una politica estera comune.
Perché è vero che gli stati membri hanno accettato di devolvere la propria sovranità a Bruxelles, ma hanno mantenuto “di fatto” un potere di veto permanente tramite un processo decisionale che prevede l’unanimità fra i vari governi nazionali.
La diretta conseguenza di ciò, non è solo che ogni stato debba essere d’accordo perché il sistema istituzionale intergovernativo possa produrre una decisione, ma anche che i governi nazionali debbano poi essere disposti ad implementare quelle stesse decisioni.
Pensiamo, ad esempio, allo stallo nei processi decisionali rispetto alle transizioni politiche in Nord Africa e Medio Oriente. Oppure alla difficoltà di rispondere all’annessione russa della Crimea. E, non ultime, le risposte (o non risposte) alle crisi migratorie e la mancata implementazione della ridistribuzione dei rifugiati. La crisi tra Polonia e Bielorussia, dove il comportamento della Bielorussia che taglia i reticolati può essere considerato un attacco ibrido, che potrebbe invocare il trattato di difesa Nato.
La politica turca in Albania, (Albania che non etra in Europa per veto Bulgaria) individuata da Ankara come una nazione chiave insieme alla Libia del suo grande gioco mediterraneo, puntando al recupero dell’antico legane ottomano. Infatti la Turchia ha finanziato la grande moschea di Tirana, la costruzione di ospedali gestiti da fondazioni religiose.
Una politica estera concertata a livello europeo sarà indispensabile per evitare l’isolamento del nostro continente in un mondo sempre più multipolare, con anche la ripresa del multilateralismo dopo il G20.
C’è il rischio dello sgretolamento dell’Ue sotto i colpi di nuove pressioni esterne.
Per questo motivo, trovare un modello istituzionale che riesca a conciliare gli aspetti sovranazionali ed intergovernativi dell’Unione, anche quando le preferenze degli stati membri non sono allineate, sarà una delle sfide principali dell’europeismo.