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L’oltraggio degli ultrà alla storia del Paese

Scritto da Giovanni Bianconi.

Giovanni Bianconi
Articolo di Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera.

Uno striscione è uno striscione, niente di più. Ma anche niente di meno. E uno striscione che alla vigilia della Festa della Liberazione (dall’oppressione nazifascista: una volta era sottinteso, oggi forse non più) inneggia a Benito Mussolini, si tramuta in un oltraggio. Non all’antifascismo, bensì alla storia di un Paese nel quale giusto cent’anni fa videro la luce i Fasci di combattimento da cui derivò la dittatura e tutto ciò che ne conseguì; durante il Ventennio e dopo.
Una provocazione che diventa offesa. Un segnale allarmante, purtroppo non isolato.
Compiuto da ultras da stadio, in questo caso laziali in trasferta a Milano, ma nemmeno questo, ormai, è un dato significativo: potevano farlo supporter di altre squadre (romanisti compresi, giacché le effigi del Duce e simbologie affini in Curva sud sono storia recente) e nulla sarebbe cambiato. Quel gruppo di tifosi che ha messo la firma è tradizionalmente legato all’estrema destra, nonché gemellato con la tifoseria dell’Inter; non a caso subito dopo il «presente» tributato al «camerata Mussolini» con tanto di saluti romani è partito il coro «Milanista pezzo di m...». Mescolando tutto, anche quello che non si dovrebbe, e aprendo un interrogativo in più: una volta era la politica a strumentalizzare il resto, compresi i luoghi di aggregazione come gli stadi; oggi forse sta avvenendo il contrario, e sono le bande organizzate di quei luoghi che strumentalizzano la politica per guadagnare visibilità e risonanza.
Ma a parte ogni possibile considerazione socio-antropologica, è il contesto in cui si inserisce l’episodio a destare preoccupazione. Perché arriva dopo numerosi e ripetuti tentativi di «sdoganamento» e rivalutazione del fascismo, prima sotterranei e quasi nascosti, poi sempre più palesi, fino a tollerare e considerare «normali» certe rivendicazioni ed esaltazioni di appartenenza un tempo inimmaginabili. Che probabilmente servono non tanto a esaltare un periodo storico, quanto a sconfessare chi vi si oppose e a rinnegare ciò che è venuto dopo. Tuttavia le radici antifasciste della nostra Costituzione — per ciò che rappresentano in termini di tolleranza e principi — non sono morte né si possono seppellire con la cosiddetta prima Repubblica, e nemmeno con la seconda.
L’ha ricordato ieri, come meglio non si potrebbe, la senatrice Liliana Segre intervistata da questo giornale: una donna che con il suo nome e la sua storia incarna valori che in una democrazia ormai matura come quella italiana nessuno dovrebbe sognarsi di scalfire, e anche per questo la sua nomina a membro del Parlamento da parte del presidente Mattarella, avvenuta un anno e mezzo fa, assume tuttora la massima importanza. Ha messo in guardia dall’ignoranza e dalla superficialità con cui la nostra storia recente (la dittatura, l’occupazione, la Resistenza, ma anche la violenza politica che nei decenni successivi ha mietuto vittime in nome sia del fascismo che dell’antifascismo) viene affrontata nelle scuole e interpretata dalle classi dirigenti. E ha rammentato come certi fatti svelino un «bisogno di odiare» che trova terreno fertile in certe rivalutazioni, reminiscenze e nuove contrapposizioni.
Ecco perché lo striscione e gli slogan di Milano non devono essere sottovalutati. Senza enfasi, ma con fermezza. Quella mini-parata in piazza, proprio perché maturata in un ambito para-calcistico, diventa l’esempio plastico di quel che può comportare una concezione della storia ridotta a derby; la conseguenza visibile e scioccante di schieramenti e ideologie declassate a tifo, prese a pretesto per marcare una presenza e proclamare identità che, pur di affermarsi, rinnegano la memoria collettiva di un Paese. Che ancora fatica a essere condivisa.