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Dalla lotta di classe all’estremismo digitale

Scritto da Mauro Magatti.

Mauro MagattiArticolo pubblicato dal Corriere della Sera.

C’era una volta la lotta di classe, gli scioperi sindacali, la propaganda di partito. Era l’epoca in cui la classe operaia, concentrata nelle grandi fabbriche, votava comunista e lottava unita per il riconoscimento dei propri diritti economici e sociali. Poi è arrivata la società dei consumi che ha disinnescato il conflitto sociale, di fatto sparito nei Paesi occidentali nonostante il continuo aumento delle disuguaglianze registrato a partire dagli anni ’80.
Un lento scivolamento che, soprattutto dopo il 2008, ha spinto quote crescenti di ceto medio verso un progressivo immiserimento. Con forti tratti selettivi.
Adulti a bassa qualificazione espulsi dal mercato del lavoro; giovani bloccati in una condizione di marginalità; aree geografiche tagliate fuori dai circuiti della crescita. Il tutto nella frammentazione dei luoghi e dei contratti di lavoro.
Oggi, per molti l’idea di essere beneficiari della crescita economica appare del tutto irrealistica. Se hai 50 anni e hai perso il lavoro; se sei un giovane che da anni colleziona solo lavoretti precari; se vivi in un borgo lontano dai grandi centri, o se sei imprigionato nel degrado delle periferie, il futuro non può che apparire plumbeo e privo di vie d’uscita. È la società del risentimento. Con caduta del muro di Berlino, la sinistra ha abbandonato ogni immaginario di un modello sociale diverso, trasformandosi nel cantore di un progressismo che affida proprio alla crescita la soluzione dei problemi. Ma così essa ha perso contatto con le condizioni reali di quei ceti che pure pensava di rappresentare, con le loro paure e le loro sofferenze. I diritti individuali, nuovo terreno elettivo della sua azione politica, sono per lo più associati alle esigenze espressive dei ceti professionali.
È in questo quadro che i social si sono inseriti, offrendo a ciascuno, a costo zero, la possibilità di mettere in vetrina, senza filtri o inibizioni, esperienze, desideri, paure, affetti. Un nuovo ambiente, che ha dilatato i confini e le forme della comunicazione e in cui sono nate vere e proprie sottoculture, terreno di coltura dell’estremismo digitale. Ridurre al silenzio l’altro, gridare il proprio odio, prendersela con il nemico sono modi di fare sdoganati prima sulla rete e poi nella realtà.
Dietro la superficie affiora però il cambiamento della nostra società. Col venir meno del sogno consumeristico, quella che una volta era stata la lotta di classe si è trasformata in rabbia social: malessere ridotto a urlo contro il mondo, esternazione sistematica e spesso verbalmente violenta di uno stato d’animo negativo che, non riuscendo ad articolarsi in discorso, finisce in insulto. Non c’è più spazio per la critica, intesa come capacità di analisi della realtà e messa in forma di pratiche alternative. È dunque la rabbia social che definisce la questione sociale oggi: milioni di individui disillusi, sganciati da reti e apparenze sociali stabili e significative, protagonisti e vittime di una comunicazione malevola e violenta.
I nuovi soggetti politici affermatisi negli ultimi anni sono quelli che hanno saputo sfruttare a proprio vantaggio questo nuovo ambiente comunicativo. Da Trump a Bolsonaro fino a Salvini. La loro capacità è stata quella di aver intuito il cambiamento di fase storica e di aver imparato a giocare con le nuove regole: l’egemonia non si ottiene più cercando di convincere della bontà di una rappresentazione più o meno coerente. La comunicazione diventa un filo diretto tra il leader e il suo popolo e il consenso è ottenuto attorno alla paura che fa da collante a un malcontento informe. Oggi si parla di «sharp power techniques» che non cercano tanto di «conquistare i cuori e sedurre le menti dell’avversario», quanto di manipolare e controllare un pubblico in un contesto ostile, attraverso la distorsione volontaria delle informazioni.
Siamo così entrati nell’epoca della post-propaganda: più che attraverso lunghi proclami, l’aggregazione avviene attorno a narrazioni contro-fattuali, «verità alternative» e storytelling malevoli. A contare non è l’autorevolezza del mezzo o delle fonti, ma la capacità di orientare lo stato d’animo dell’opinione pubblica. Anche a prescindere dai dati di realtà. Un piccolo blog, una testata online, la creazione di fake news possono avere effetti assai significativi. Per questo la questione dei migranti diventa così importante: trasformando l’incertezza che pervade molte vite nella questione dell’insicurezza prodotta dagli stranieri, una paura senza nome riesce a essere canalizzata, identificando un nemico con cui prendersela. La logica del capro espiatorio è centrale nell’era della post-propaganda. Stare al gioco produce i suoi vantaggi. Così chi ha per primo capito e adottato questa nuova logica sociale ha vinto le ultime elezioni. Ma la grande incertezza riguarda le soluzioni che si propongono. La loro plausibilità e sostenibilità. Il rischio è che, di fronte all’aggravarsi delle questioni, la rabbia social si esasperi e spinga le vele delle politiche che si stanno cominciando a impiantare ben al di là delle intenzioni iniziali. È questa la montagna che va scalata: piccoli aggiustamenti non basteranno. Occorrono idee, simboli, speranza e persone nuove.