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La marcia nel deserto che attende l’opposizione

Scritto da Paolo Franchi.

Paolo Franchi
Articolo di Paolo Franchi per il Corriere della Sera.

Sarà contento Maurizio Crozza: dobbiamo alla passione di Pier Luigi Bersani per le metafore contadine la definizione forse più efficace del terremoto che ha sconvolto quel che restava della morfologia politica, sociale e culturale del nostro mondo, lasciandoci letteralmente spaesati. La mucca, il più mansueto degli animali, sì, ma quando se ne sta al pascolo o nella stalla, si è insediata nel corridoio di casa. Una presenza inquietante, perché rovescia un ordine delle cose che, per pigrizia politica e intellettuale, abbiamo a lungo considerato l’unico possibile. Tanto più adesso, quando dal corridoio si è trasferita in salotto.
La mucca in questione, inutile dirlo, è la destra. Non la destra democratica e liberale di cui, pur lamentando le incongruenze vistose e le contraddizioni pesanti del berlusconismo, virtuosamente si auspicava l’avvento negli anni, ormai lontani, del nostro stentato bipolarismo, e che in realtà non è mai nata. Ma questa destra, nazionalista e/o sovranista, populista e/o gentista, nutrita, tanto nella sua componente leghista quanto in quella pentastellata, di risentimento e rancore sociale, pesantemente incline alla xenofobia e al razzismo. Movimenti e partiti non dissimili hanno preso corpo un po’ dappertutto, forse l’anno prossimo, si riveleranno maggioritari in Europa. Ma sin qui, in Occidente, queste forze hanno prevalso solo in due casi. Negli Stati Uniti (e scusate se è poco) con la vittoria di Donald Trump, garantita non tanto dal voto (scontato) dell’America profonda, quanto da quello, decisivo, degli operai del Michigan. E in Italia, dove c’è evidentemente qualcosa di molto più significativo di un contratto di governo a tenere almeno per il momento insieme Lega e M5S. Forse non tanto il populismo, concetto assai complesso cui troppo a lungo si è fatto ricorso come un apriti sesamo, quanto piuttosto il gentismo (di qua la gente comune vessata, di là la casta della politica e delle presunte élites) che ha iniziato a dilagare - incontrastato e anzi vezzeggiato - fin dai tempi di Tangentopoli.
Dopo anni trascorsi inutilmente a discettare sul come e sul perché destra e sinistra fossero polverosi concetti novecenteschi, del tutto inutilizzabili nel tempo della globalizzazione e della Rete, ci ritroviamo a chiederci con aria pensosa se ci siano o meno analogie tra i giorni nostri e gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, quelli della presa del potere da parte del fascismo e del nazismo.
Doverosamente premesso che i raffronti storici valgono quello che valgono, e cioè poco o nulla, resta da dire che almeno un insegnamento quelle lontane vicende ce lo offrono. La destra (è il caso di insistere: questa destra) diventa inarrestabile e vince a due condizioni. Se riesce a conquistare ceti medi (una volta si diceva: la piccola borghesia) impoveriti, impauriti dal futuro, che vedono minacciato, o peggio, uno status ritenuto sin qui pressoché scontato. E se riesce a installarsi nel campo, o addirittura nelle roccaforti, della sinistra, in quello che un tempo era il suo popolo. Difficile stabilire se siano più temibili degli ex moderati risentiti e radicalizzati o degli ex elettori di sinistra qualunquistizzati se non addirittura fascistizzati. Ma sicuramente uniti sono temibilissimi. Questa lezione la avevano imparata bene, a loro modo, i democristiani, che dei ceti medi si ersero a paladini sin dall’immediato dopoguerra (come testimonia, per inciso, anche la durissima polemica di Giulio Andreotti, correva l’anno 1952, contro Vittorio De Sica, reo di aver rappresentato troppo drammaticamente, in Umberto D, le condizioni dei pensionati: i panni sporchi si lavano in famiglia). E, sempre a modo loro, pure i comunisti, preoccupatissimi del possibile insorgere (è il caso dei moti di Reggio Calabria, nel 1970) di quelli che venivano definiti «movimenti reazionari di massa». E questa comune consapevolezza ha qualcosa da spartire anche con la genesi del nostro particolarissimo Stato sociale, e di quello che sino a qualche anno fa veniva sprezzantemente definito consociativismo. Non si possono ovviamente fare considerazioni analoghe sulla destra e sulla sinistra «di governo» degli ultimi decenni, che alla mucca sempre più comodamente installata nel corridoio di casa hanno rivolto al massimo qualche sguardo infastidito. Le promesse di improbabili riscosse in tempi brevi suonano come chiacchiere insopportabili, tanto più all’indomani dei fischi e degli insulti rivolti ai funerali delle vittime di Genova, un tempo (non lontano) indiscutibilmente rossa, contro Maurizio Martina e altri dirigenti del Pd, una tragedia politica scambiata per uno sgarro al galateo. E poi, più banalmente, è capitato, credo, a molti di noi, di criticare questa o quella uscita della Lega o dei Cinque Stelle con un conoscente ragionevole che per un motivo o per l’altro li ha votati, e di sentirci rispondere: sempre meglio di quelli che c’erano prima, questi almeno ci provano. Piaccia o no, questa convinzione così diffusa è da sola una pietra tombale su tutte le retoriche del Grande Ritorno. C’è piuttosto una lunga e perigliosa marcia nel deserto, dall’esito a dir poco incerto, che attende chi voglia mettere in piedi un’opposizione democratica degna di questo nome e un’alternativa credibile. Ma a guidarla devono essere forze nuove, e anche donne e uomini nuovi. All’orizzonte non se ne intravedono. Non è scritto che non ci siano. Ci sono più cose tra il cielo e la terra...