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I dieci anni di Francesco alla guida della Chiesa

Scritto da Lorenzo Gaiani.

Articolo di Lorenzo Gaiani pubblicato dalle Acli.

Un anniversario può essere una semplice celebrazione, una memoria per ricordare un evento del passato o una persona che non è più di questo mondo. Ma il decennale dell’elezione di papa Francesco non può essere nulla di tutto ciò, non solo perché il Pontefice è ancora felicemente fra di noi, ma perché lui per primo ha dimostrato di non amare le celebrazioni fine a se stesse e men che meno quelle per la sua glorificazione personale.
Ma forse la memoria dell’evento accaduto il 13 marzo 2013, a poco più di un mese dalla scelta epocale di Benedetto XVI di rinunciare al ministero petrino serve a noi, non tanto per ricapitolare quanto per dimostrare di aver capito alcune cose del magistero che il Papa “venuto dalla fine del mondo” continua a donarci quotidianamente.
La prima è la chiusura definitiva del dibattito sul Concilio Vaticano II : tutti i predecessori di Francesco nell’ultimo cinquantennio sono stati in misura minore o maggiore attori di quell’evento epocale come padri conciliari (Montini, Luciani, Wojtyla) o come periti (Ratzinger), venendo coinvolti nei lunghi dibattiti sulle modalità di applicazione delle direttive conciliari, sulla coincidenza fra lettera e spirito del Concilio, sulle questioni relative alla liturgia, alla pastorale, alla teologia morale e sociale, e più in generale sulla prescrittività o sull’eventuale reversibilità della riforma conciliare.
Jorge Mario Bergoglio seguì il dibattito conciliare da Buenos Aires come novizio gesuita , ed è stato anzi il primo Papa ad essere stato ordinato al sacerdozio con il rito rinnovato da Paolo VI. In tal modo egli può avere uno sguardo equilibrato sul Concilio considerandolo per quello che è: il più importante evento della storia della Chiesa nel XX secolo ormai pienamente inserito nella sua grande e santa Tradizione. Lo ha detto chiaramente nell’omelia in occasione del sessantesimo anniversario dell’apertura del Concilio (che non a caso coincide con la festa liturgica di San Giovanni XXIII, l’11 ottobre): “ torniamo al Concilio, che ha riscoperto il fiume vivo della Tradizione senza ristagnare nelle tradizioni; che ha ritrovato la sorgente dell’amore non per rimanere a monte, ma perché la Chiesa scenda a valle e sia canale di misericordia per tutti. Torniamo al Concilio per uscire da noi stessi e superare la tentazione dell’autoreferenzialità, che è un modo di essere mondano. Pasci, ripete il Signore alla sua Chiesa; e pascendo, supera le nostalgie del passato, il rimpianto della rilevanza, l’attaccamento al potere, perché tu, Popolo santo di Dio, sei un popolo pastorale: non esisti per pascere te stesso, per arrampicarti, ma per pascere gli altri, tutti gli altri, con amore. E, se è giusto avere un’attenzione particolare, sia per i prediletti di Dio cioè i poveri, gli scartati".
In questa visione i dibattiti del passato sono finalmente superati nella prospettiva di uno sguardo alla Chiesa per quello che è, comunità di santi e di peccatori, di persone inserite nella realtà del loro tempo, e la stessa riaffermazione dell’unità liturgica non è un tentativo di soppressione della diversità ma un invito a tenere lo sguardo fisso sull’essenziale, ossia su Gesù stesso al centro della vita e della celebrazione della Chiesa. In questo le divisioni non servono, ed anzi sono deleterie perché quasi sempre animate da spirito di fazione e non da desiderio di testimoniare la verità: “Quante volte, dopo il Concilio, i cristiani si sono dati da fare per scegliere una parte nella Chiesa, senza accorgersi di lacerare il cuore della loro Madre! Quante volte si è preferito essere “tifosi del proprio gruppo” anziché servi di tutti, progressisti e conservatori piuttosto che fratelli e sorelle, “di destra” o “di sinistra” più che di Gesù; ergersi a “custodi della verità” o a “solisti della novità”, anziché riconoscersi figli umili e grati della santa Madre Chiesa. Il Signore non ci vuole così. Tutti, tutti siamo figli di Dio, tutti fratelli nella Chiesa, tutti Chiesa, tutti. Noi siamo le sue pecore, il suo gregge, e lo siamo solo insieme, uniti. Superiamo le polarizzazioni e custodiamo la comunione, diventiamo sempre più “una cosa sola”, come Gesù ha implorato prima di dare la vita per noi".
Il secondo elemento è l’evidente ridefinizione in atto del magistero sociale della Chiesa, che non è stravolgimento ma inserzione all’interno di una realtà globale in cui l’Europa, l’Occidente, il Nord del mondo sono solo una porzione non più decisiva rispetto all’emergere di problemi epocali di lunga gittata e all’irruzione nella storia di masse di diseredati provenienti da quello che una volta veniva chiamato Terzo Mondo e che chiedono conto al mondo affluente della disparità sociale, delle ripetute crisi ambientali, energetiche, sociali , belliche che travagliano il mondo e si tengono insieme componendo il quadro complessivo della nuova questione sociale.
E da essa la Chiesa non può chiamarsi fuori più di quanto abbia fatto rispetto alle conseguenze della grande trasformazione industriale nella seconda metà del XIX secolo, potendo anzi contare, rispetto ad allora, su antenne più sensibili, su di una presenza capillare nei Paesi del Sud del mondo che si fa interprete di un modo di vivere la fede che è profondamente inserito nelle problematiche, nella aspirazioni e nelle contraddizioni di quella realtà.
Ecco dunque che l’esercizio della carità – che per la Chiesa e per i credenti è un imperativo- si apre ad una dimensione più ampia a cui nessuna parte dell’esperienza umana è estranea, e nei tre documenti fondamentali di questo pontificato- “Evangelii gaudium”, “Laudato si’ “e “Fratelli tutti” – è dispiegata non secondo una trattazione accademica ma con la preoccupazione autenticamente pastorale di aprire processi senza ingabbiarli in rigide definizioni che magari piacciono agli scolastici ed ai pedanti ma dicono poco della vita reale delle persone.
Lo si vede ad esempio nella “Fratelli tutti”, dedicata alla promozione della fraternità e dell’amicizia sociale a livello globale, che si articola in tre passaggi, i quali culminano nell’appello finale: la presa di coscienza dell’urgenza della fraternità a partire dalla realtà in cui viviamo; un approfondimento dell’analisi che faccia emergere motivazioni e ostacoli su un piano più fondamentale; l’identificazione di piste concrete a cui il papa invita tutte le persone di buona volontà, a partire dai credenti, ad inserirsi per concretizzare l’orizzonte della fraternità e dell’ amicizia sociale.
Ma soprattutto, ed è il terzo aspetto, il Papa ha voluto consegnarci un criterio metodologico per il discernimento, che già dall’esortazione apostolica “Evangelii gaudium” – che egli considera il manifesto del suo pontificato e che ha invitato la Chiesa italiana in particolare ad approfondire, si direbbe con scarsi risultati- che si sintetizza nello schema “riconoscere-interpretare-scegliere”: “” È opportuno chiarire ciò che può essere un frutto del Regno e anche ciò che nuoce al progetto di Dio. Questo implica non solo riconoscere e interpretare le mozioni dello spirito buono e dello spirito cattivo, ma – e qui sta la cosa decisiva – scegliere quelle dello spirito buono e respingere quelle dello spirito cattivo “ (EG, 51).
Proprio questo criterio conferisce ai credenti, ed in particolare ai laici, una forte responsabilità in ordine allo sviluppo degli interventi concreti, posto che ricette universali e valide per ogni tempo semplicemente non esistono ed esiste invece un campo d’azione smisurato che richiede l’impegno di tutti.
Del resto il Papa lo ha detto chiaramente: “preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37). “ (EG 49).
L’attenzione alle numerose povertà, la promozione della pace e della fratellanza, la crescita del senso dell’appartenenza comunitaria in termini inclusivi, anche nei confronti di coloro che vengono da altre terre ed altre culture, se non sono semplici slogan sono invece altrettanti elementi di un quadro di impegno globale.
Emerge così con chiarezza la necessità di uno stretto rapporto tra evangelizzazione e promozione umana. Il problema della promozione umana non appare più semplicemente un problema socio-politico, ma risulta propriamente un problema di evangelizzazione e quindi di fede, cioè un problema che impegna direttamente la Chiesa. Il che comporta, da un lato, la necessità di pensare da credenti la promozione umana, e, dall’altro, di rileggere la rivelazione nel contesto di essa.
E qui sorge la questione fondamentale per tutti i credenti, che è quella di essere testimoni credibili nella prassi di ciò che professano a parole, e ciò è possibile solo in quell’incessante cammino di conversione che il Papa propone e che passa attraverso un impegno costante di verifica di se stessi attraverso “l’amorevole consapevolezza di non essere separati dalle altre creature, ma di formare con gli altri esseri dell’universo una stupenda comunione universale. Per il credente, il mondo non si contempla dal di fuori ma dal di dentro, riconoscendo i legami con i quali il Padre ci ha unito a tutti gli esseri” (LS 220).
Celebriamo quindi questi dieci anni, sapendo tuttavia che essi non sono un epilogo ma una tappa.