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25 anni fa moriva don Giuseppe Dossetti

Written by Lorenzo Gaiani.

Lorenzo GaianiArticolo di Lorenzo Gaiani pubblicato dalle Acli.

A venticinque anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 15 dicembre del 1996, la figura di Dossetti è ancora oggetto di controversia sia a livello politico che ecclesiale, sebbene egli personalmente detestasse entrare in discussioni troppo aspre, e tendesse semmai a ritrarsi, a praticare l’arte del nascondimento salvo quando avvertiva come dovere morale ed insieme religioso esprimere il suo parere. Nella sua vita pubblica ed in quella religiosa a lui toccò la singolare sorte di essere, nel giro di due decenni, magna pars del dibattito costituente e poi di quello conciliare, ricoprendo volta a volta il ruolo di dirigente politico, di capocorrente, di amministratore, di consulente di cardinali e di Pontefici ed infine di animatore di una resistenza etica prima ancora che politica allo smantellamento dei valori fondativi della nostra democrazia, sempre e comunque anelando di tornare ai suoi studi e alla vita monastica che aveva scelto dando vita ad una comunità di fratelli e sorelle piccola ma significativa.
E’ un dato di fatto: alla Resistenza egli partecipò perché la sentiva innanzitutto come istanza etica, fece politica perché tale era la richiesta che gli veniva dai suoi referenti ecclesiali, se ne ritirò quando avvertì la sconfitta del suo progetto e vi rientrò brevemente per la famosa candidatura alle elezioni comunali di Bologna del 1956 solo per un’espressa richiesta del cardinale Giacomo Lercaro, che egli venerava come un padre, pur presagendo che si trattava di una battaglia persa in partenza.
In tutto questo, egli trovò il tempo per definire, sia pure in termini non organici, una teoria del partito politico come organizzatore delle istanze sociali non sottomesso alle esigenze dell’attività di governo che fu poi applicata per un cinquantennio anche da coloro che più lo avevano combattuto all’interno della DC, e poi per delineare un progetto di riforme sociali che avrebbe corretto in senso oggettivamente keynesiano l’impostazione liberista dei Governi di ricostruzione nazionale, e infine per tratteggiare un progetto di sviluppo della città che i suoi stessi avversari comunisti avrebbero largamente saccheggiato , riconoscendolo solo tardivamente (lo fece con grande onestà Guido Fanti, a lungo braccio destro e poi successore del grande avversario di Dossetti, Giuseppe Dozza).
Nello stesso tempo, spirito meditativo ed intellettualmente audace, nutrito da una profonda cultura biblica, da un forte impianto giuridico e da solide letture teologiche, egli avvertiva la debolezza della presenza politica dei cattolici così come si era realizzata nel nostro Paese dalla Liberazione in poi, e fin dal 1946 rilevava come il consenso alla DC rappresentasse in larga parte le paure di un’Italia moderata ma non necessariamente religiosa nei confronti del marxismo, mentre d’altro canto da parte della Gerarchia ecclesiastica non vi era reale volontà di puntare sulla maturazione politica dei credenti. Più esattamente, all’indomani delle elezioni dell’Assemblea Costituente, Dossetti ebbe a dire che di fronte al chiaro invito di Pio XII e della Gerarchia a schierarsi da una parte o dall’altra, su 45 milioni di Italiani solo 8 scelsero di votare per la DC. Ciò dimostrava di fatto , fon da allora, la condizione di minorità dei cattolici nella società italiana, ed era uno stimolo a pensare non alla costruzione di un’ impossibile Civitas christiana ma piuttosto ad una Civitas humana in cui i credenti si assumessero il compito di contribuire alla riorganizzazione della società costruendo, attraverso il processo costituente, un nuovo modello statuale che fosse per la prima volta autenticamente rappresentativo di tutti i settori della società italiana. Fu questo il motivo per cui nel 1948, dopo la straordinaria vittoria elettorale della DC, Dossetti ed i suoi amici avrebbero preferito che il partito utilizzasse la sua larga maggioranza per poter realizzare un progetto di ampia riforma sociale che sanasse ingiustizie secolari e si ponesse in concorrenza con le forze di sinistra sul piano della realizzazione delle istanze costituzionali di libertà e di eguaglianza.
Su questo, come è noto, egli si trovò in contrasto con De Gasperi, il quale riteneva necessaria la collaborazione della DC con le forze laiche e con il riformismo socialdemocratico per evitare quella dispersione e quell’incomunicabilità dei partiti democratici che egli , nella sua esperienza, giudicava come una delle cause dell’affermazione del fascismo e che avrebbe potuto portare all’affermarsi di una nuova dittatura, sia pure di segno diverso. Nello stesso tempo De Gasperi, spirito essenzialmente pragmatico -sia pure essenzialmente radicato nell’insegnamento sociale della Chiesa e nei principi democratico cristiani- tendeva a ritenere il ruolo del Governo prevalente su quello del Partito, ritenendo che quest’ultimo dovesse fungere da primo supporto all’attività governativa in una fase in cui si trattava contemporaneamente di ricostruire il Paese sia materialmente, cioè sul piano economico e sociale, sia spiritualmente, cioè attraverso il radicamento delle nuove istituzioni democratiche e repubblicane fra le masse.
Questo fu il senso della battaglia di corrente che Dossetti svolse all’interno della DC, attirando all’impegno politico molti giovani che nel corso degli anni avrebbero occupato incarichi importanti nel Partito, nelle istituzioni, nelle aziende pubbliche. Persino gli avversari più decisi dovettero riconoscere che la rivista dossettiana “Cronache sociali” fosse una delle più aperte nei confronti del pensiero riformista europeo ed internazionale, senza chiudersi nella dimensione confessionale.
Con il suo ritiro dalla politica, secondo la testimonianza convergente di molti suoi amici (importanti in particolare alcune confidenze fatte a Mariano Rumor, che lo statista vicentino riportò poi nelle sue Memorie), Dossetti ammetteva implicitamente la sconfitta della sua posizione, sia perché essa era comunque minoritaria all’interno del Partito sia per il fatto che nelle circostanze oggettive la linea di De Gasperi era l’unica possibile anche per evitare quei rigurgiti di tipo reazionario se non neofascista che sempre allignavano nella società italiana dell’epoca e che potevano contare anche su numerose simpatie all’interno della Gerarchia ecclesiastica e della dirigenza dell’Azione cattolica (e lo si vide chiaramente con il tentativo di creare un’alleanza “civica” fra la DC e le destre monarchiche e missine per il Comune di Roma nel 1952, che fallì solo per la ferma opposizione di De Gasperi).
Cessata l’esperienza consiliare a Bologna, Dossetti poté finalmente accedere alla condizione sacerdotale a cui si sentiva chiamato da anni, diventando uno stretto collaboratore del cardinale Lercaro ed affiancandolo in maniera ufficiosa e non ufficiosa nei fervidi anni del Concilio Vaticano II, durante i quali egli agì – come disse un altro dei protagonisti di quell’epoca, il cardinale Leo Suenens- come un “partigiano”, ossia come il discreto portatore di idee di riforma nel senso della parola latina “reformatio”, che è quello di ricondurre le cose alla loro forma autentica. Questo fu anche il suo impegno a Bologna nel breve periodo intercorso fra la chiusura dell’assise conciliare e la rimozione del cardinale Lercaro dalla guida dell’Arcidiocesi (1966-1968), quando Dossetti fu chiamato dal suo Vescovo al ruolo di Vicario con l’incarico specifico di sovrintendere all’applicazione delle norme conciliari nella Chiesa petroniana.
Dopo l’uscita di scena di Lercaro, iniziò per Dossetti una lunga fase di nascondimento e di preghiera nella comunità monastica da lui formata, con la creazione di alcune case in Terrasanta dove egli si ritirava a meditare sulla Parola di Dio e ad avviare cammini ecumenici con ebrei e musulmani.
Una prima interruzione di questo silenzio avvenne nel 1991 quando, nell’imminenza dello scoppio della prima guerra del Golfo, Dossetti rilasciò alcune interviste in cui ammoniva sul rischio di aprire la strada ad una fase di contrapposizione di civiltà che avrebbe generato estremismi ideologici e religiosi potenzialmente incontrollabili: e fu ammonimento profetico, come la storia si sarebbe incaricata di dimostrare.
Ma l’ultimo tornante della sua vita, che in definitiva durò solo due anni – densi ed intensissimi- si aprì con la commemorazione del suo fraterno amico Giuseppe Lazzati avvenuta a Milano nel maggio 1994 (chi scrive era presente e può testimoniare dell’emozione che quelle parole suscitarono nell’uditorio) con il titolo “Sentinella, a che punto è la notte?” , in cui, partendo dall’analisi della lunga attività formativa di Lazzati, volta in particolare all’educazione politica dei credenti in tempi di crescente secolarizzazione, analizzava il clima culturale in cui si era prodotta la prima grande vittoria elettorale della nuova destra guidata da Silvio Berlusconi . E tuttavia, l’argomento generale di quel discorso era solo tangenzialmente di ordine politico – partitico, ma affrontava la “notte” del nostro Paese in termini ancora più stringenti, denunciando la crisi della natalità, la ricerca ossessiva del piacere, il vuoto etico che si cercava di compensare con l’arricchimento, da cui discendeva la riduzione – teorizzata anche da acutissimi scienziati politici, primo fra tutti Gianfranco Miglio- del vincolo politico alla dimensione contrattualistica. Più ancora, Dossetti lamentava come i credenti, che pure attraverso il partito di ispirazione cristiana avevano avuto ruoli di primissimo piano nella gestione della cosa pubblica per un cinquantennio, avevano fallito sia in termini etici che in termini di lungimiranza politica, aprendo la strada al revanscismo di destra di cui il Governo Berlusconi era l’espressione più compiuta, e i cui presupposti erano in se stessi la negazione non solo delle culture alla base del patto costituzionale, ma erano in se stesse espressione di una nuova forma di ateismo pratico sia pure ossequiente nei confronti delle Gerarchie ecclesiastiche.
E’ da dire che Dossetti, negli interventi dei due anni seguenti che si interruppero praticamente solo con l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, non sposò mai la causa dell’intangibilità assoluta della Costituzione: anzi, già nel 1984, in un colloquio che lui e Lazzati ebbero con Pietro Scoppola e Leopoldo Elia, che venne pubblicato vent’anni dopo, egli lamentava di essere stato poco attento, nella fase costituente, agli aspetti organizzativi del nuovo Stato repubblicano, accettando l’impostazione “garantista” che alcuni costituzionalisti avevano dato al sistema dei pesi e dei contrappesi pur vedendo chiaramente che essa era frutto della paura del realizzarsi di una sopraffazione da parte socialcomunista sul modello di quanto stava avvenendo, nel clima incipiente della Guerra fredda, nei Paesi dell’Europa orientale. Da qui il proporzionalismo, il bicameralismo paritario, l’indeterminatezza sui poteri del Governo, il rifiuto del modello presidenziale e altri elementi che Dossetti – a differenza di molti autoproclamati dossettiani- considerava non irriformabili: egli stesso infatti ebbe cura di precisare di essere favorevole alla creazione di una Camera delle autonomie che sostituisse il Senato e all’investitura del Capo del Governo solo da parte della Camera, che avrebbe potuto rimuoverlo solo con il principio della sfiducia costruttiva.
Dossetti non produsse mai un testo organico ed in effetti rifiutò sempre di essere considerato un ideologo: se dovessimo indicare alcune delle opere che maggiormente riflettono il suo pensiero dovremmo spigolare fra testi di occasione che coglievano l’evoluzione delle sfumature di un pensiero che oggettivamente , nel suo nucleo più profondo, si era formato fin dall’immediato dopoguerra ancorandosi alla roccia intangibile di una fede assoluta ed operante nel Dio cristiano.
Fra questi testi spiccano, a mio giudizio, la famosa relazione su “Funzioni e ordinamento dello Stato moderno” che Dossetti pronunciò nel 1951 al Convegno nazionale di studi dell’Unione dei Giuristi cattolici, nella quale, dopo aver lasciato l’impegno politico diretto, il professore reggiano esplicitamente rivendicava la necessità di un esplicito “finalismo dello Stato” contro la posizione “agnostica” di chi, anche fra gli intellettuali cattolici, credeva che unico compito dello Stato fosse quello di garantire e proteggere le libertà individuali.
In secondo luogo, la relazione, andata lungamente obliata e ripubblicata a cura di Alessandro Barchi per i tipi del Mulino nel 2015, che Dossetti, ormai sacerdote, tenne nel 1962 in un convegno svoltosi a Villa Cagnola, a Gazzada, su iniziativa dell’ Istituto superiore di Studi religiosi fondato dal card. Montini. In quell’occasione, un convegno sui rapporti fra Stato e Chiesa nell’ormai imminente passaggio del centro-sinistra, ci si aspettava che Dossetti desse un contributo al rilancio della presenza dei cattolici in politica senza mettere in discussione il ruolo magisteriale delle Gerarchie. Dossetti invece spiazzò tutti con un discorso radicale in cui in sostanza affermava che il compito del cristiano in politica non è la costruzione della sfera politica, né la difesa in quell’ambito delle verità cattoliche, ma è piuttosto la ricerca della via della testimonianza evangelica dell’alterità della fede, sancendo di fatto il suo congedo dall’idea stessa di una cristianità secolare (e ciò giustifica il titolo che l’editore ha voluto dare a questo testo: “Gli equivoci del cattolicesimo politico”.)
Ma forse il Dossetti più autentico si può trovare nelle omelie e nelle meditazioni alla sua comunità monastica che via via essa sta ripubblicando sempre per il Mulino, in cui la passione religiosa, la cultura biblica, patristica e teologica e il metodo educativo di questo formidabile e poliedrico personaggio emergono in pienezza.
Ed è proprio per questo che possiamo guardare a lui come ad un maestro anche per il domani.