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Il mondo in cui viviamo

Written by Antonio Valenti.

Antonio ValentiArticolo di Antonio Valenti per Cooperazione & Solidarietà.

In risposta al rapido sviluppo urbano e alle sfide, le città del futuro sono diventate un problema urgente a causa degli impatti dei problemi del riscaldamento globale. Ciò richiede inevitabilmente l’individuazione di priorità e la strutturazione di nuovi strumenti di progettazione e gestione per migliorare la loro sostenibilità ambientale, urbana.
Secondo il rapporto delle Nazioni Unite, il 70% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane entro il 2050 e il numero di città dovrebbe superare il 2000 entro il 2030, rispetto alle 1551 del 2010.
Sebbene vi siano 43 “grandi città” con una popolazione compresa tra 5 e 10 milioni, se ne prevede che saranno 63 entro il 2030, L’ONU stima che entro il 2030 ci saranno più di 40 mega-città nel mondo, ciascuna con una popolazione di almeno 10 milioni, rispetto ai 28 di oggi. Si prevede che Delhi, Shanghai e Tokyo avranno ciascuna più di 30 milioni di persone entro il 2030 e saranno i più grandi agglomerati urbani del mondo.
Questa massiccia crescita globale delle aree urbane richiederà sviluppi nei sistemi amministrativi per garantire che i progressi tecnologici offrano davvero migliori condizioni di vita per tutti gli abitanti delle città.
Le sfide chiave per le città future saranno la produttività, la sostenibilità, la vivibilità e il buon governo.
A tal fine, le città future devono adottare un utilizzo su larga scala delle energie rinnovabili, la gestione, minimizzazione, dei rifiuti, la raccolta, il riciclaggio dell’acqua, il paesaggio, la biodiversità per migliorare l’ambiente naturale, l’uso di sistemi di trasporto verdi, applicazioni di materiali, metodi di costruzione innovativi (edifici a basse, zero emissioni di carbonio) e produzione alimentare locale.
Di fronte ai cambiamenti sociali, economici e culturali in corso, le città sono chiamate a modificarsi e riorganizzare lo spazio abitato in base a nuovi principi e a nuove logiche di sviluppo: da questo punto di vista i “vuoti urbani” e gli spazi non più utilizzati si offrono come opportunità per ripensare le funzioni del territorio sviluppando nuove sinergie tra pubblico, privato e sociale.
Il concetto di vuoto urbano abbraccia un campo di fenomeni sociali e architettonici di notevole ampiezza.
Generalmente, s’intende con vuoto urbano un’area che nel corso degli anni è resa obsoleta, ossia abbandonata o trasformata dal punto di vista del suo uso. Da un’altra prospettiva, inoltre, con vuoto urbano possiamo intendere anche ogni strada, parco o piazza non edificati, dal consistente valore simbolico.
Sappiamo che molte aree urbane sono state abbandonate: il tempo e l’incuria da parte di amministrazione e cittadini hanno fatto sì che il degrado divenisse l’unico spettacolo concreto, talvolta ai limiti dell’inammissibilità morale.
Nella mappa mentale di ognuno di noi c’è almeno uno spazio vuoto.
Milano come il resto d’Italia, è piena di edifici vuoti e sottoutilizzati: nello Stivale si contano più di sei milioni di beni pubblici e privati lasciati in abbandono o il cui potenziale non è sfruttato. Sono edifici di ogni tipo: fabbriche chiuse, cinema, stazioni, negozi, case, uffici, insomma un patrimonio vasto e vario.
I vuoti urbani costano all’amministrazione pubblica, che cerca di alienarli e spesso non vi riesce, e costano ai privati, i quali il più delle volte non intendono o non possono investire. I cittadini, tuttavia, possono vedere in questi spazi una risorsa, delle opportunità più o meno definite, la possibilità di dare un luogo alle loro aspirazioni.
Che fare dunque di questi vuoti?