Print

Il tempo della cura

Written by Paolo Petracca.

Paolo PetraccaIntervento di Paolo Petracca per Acli Milano.

Oggi a quest’ora avrei dovuto prendere la parola dal palco del San Fedele, salutare e ringraziare.
Il XXXI congresso delle Acli milanesi si sarebbe concluso con l’elezione del nuovo consiglio ed io sarei tornato felicemente ad essere un aclista semplice. Cosa che – non preoccupatevi – succederà appena sarà terminata questa situazione di emergenza nella quale siamo tutti coinvolti e dalla quale siamo tutti sconvolti. (Se non prima se si renderà opportuno).
Ieri avrei dovuto tenere la relazione politica e programmatica che avevo intitolato – esattamente 30 giorni fa – “il tempo della cura”. Titolo che trovo ancora appropriato nonostante i fatti e i casi nuovi che stiamo vivendo.
E invece abbiamo passato le ultime settimane a chiudere i circoli e a cercare di dematerializzare per quanto possibile i nostri servizi, a compiere scelte dolorose ma necessarie come il ricorso agli ammortizzatori sociali finanziati, per fortuna, dal decreto “Cura Italia”, a chiamare i nostri dirigenti e a riunirli in video conferenza, a telefonare ai soci più anziani e più soli, ad ascoltare la voce – spesso metallica – dei nostri pastori via Facebook in questo tempo di Quaresima in quarantena, a piangere i nostri morti nel silenzio delle nostre abitazioni e a celebrare esequie via internet, atroce succedaneo dei funerali a cui non abbiamo potuto partecipare, a tentare di riorganizzare le nostre attività associative attraverso la campagna social e (per quanto possibile) reale “Insieme si Può”, vecchio e intramontabile slogan di chi sostiene e pratica la solidarietà.
In questo contesto così tempestosamente e rapidamente mutato e mutante stamani, prima giornata di relativa calma, dopo aver spiegato la “cassa in deroga” al presidente delle Acli marchigiane alle 7.30 del mattino, mi sono chiesto se era tutto da buttare ciò che avevo iniziato a mettere da parte, come un collage di cose già pubblicate da me o da altri, per trarne il testo da proporre in quell’occasione solenne. E mi sono risposto che forse no, che forse alcune riflessioni valevano ancora.
Per continuare queste pagine farò leva dunque su due passaggi presi dall’ultimo editoriale scritto a gennaio per il Giornale dei Lavoratori, aggiungendovi qualche nota.
1.In questi ultimi anni abbiamo utilizzato un’immagine molto potente per rappresentare il tempo che stiamo vivendo, la definizione proposta da Papa Francesco al convegno ecclesiale di Firenze, ovvero quella del cambiamento d’epoca generato dalle interazioni tra alcuni fenomeni molto rilevanti: la crescita delle diseguaglianze e la crisi dei sistemi di welfare, la questione ambientale ed in particolare il climate change, il nuovo disordine mondiale e “la terza guerra mondiale a pezzi”, la rivoluzione tecnologica digitale e quella demografica, la presenza di imponenti flussi migratori in ogni area del pianeta, la crisi della democrazia, la finanziarizzazione dell’economia, il cambio di paradigma nel campo dell’energia.
Il condensarsi e l’assommarsi di tutti questi fenomeni interrelati e l’incapacità (in primis delle classi dirigenti) di governarli con equità e giustizia ha reso tutti più vulnerabili, più fragili e più insicuri. In un contesto come questo occorre dunque combattere la disillusione, la diffidenza e l’isolamento che di fatto rendono difficile ogni ripartenza. Se però si affinano le nostre capacità di ascolto sociale e si va in profondità emergono domande assai interessanti a nostro avviso, si avverte il bisogno di un clima più positivo, dove sia possibile ricostruire quel bene intangibile ma così prezioso che è la fiducia, cresce la domanda di un diverso modo di stare insieme. È su questo che ci si deve misurare come persone e come soggetti organizzati della società civile: ci pare ormai in via di esaurimento il tempo dell’espansione, dell’individualismo, dello slegamento. Può essere che ciò ci spinga verso (e faccia prevalere) il tempo della rabbia, del risentimento, della chiusura. Ma può essere invece che ciò costituisca una straordinaria occasione per ritessere una vita sociale che negli anni si è sfrangiata. C’è molto da fare per noi dunque: occorre lavorare per ricostruire la qualità del nostro tessuto sociale, a partire dalla cura della persona e dei territori.
Certo oltre due mesi orsono da quando ho scritto queste parole, il Covid-19 non ci aveva ancora costretto nelle nostre case ma la realtà di oggi non cancella la verità di queste righe semmai al contempo le aggrava e le rafforza. La madre Terra sta rifiatando e rifiaterà. E questo è un bene. La condizione di isolamento ed il rallentamento dei nostri ritmi di vita sta “dilatando la nostra comprensione e rendendo più delicata la nostra mano nel nostro stare dentro il fare della vita”? Per usare le ormai celebri parole di una delle nostre massime poetesse viventi, Mariangela Gualtieri. (Proprio oggi che ricorre la giornata mondiale della poesia ed in cui ricordiamo la nascita della nostra Alda Merini).
Non possiamo esserne certi. Tuttavia credo che ogni cittadina e ogni cittadino della nostra Repubblica siano consapevoli che è stata compiuta una scelta di civiltà: che ci siamo fermati perché abbiamo messo la salute pubblica – ed in particolare quella delle persone più deboli e più fragili – prima delle ragioni dell’economia e del profitto. Siamo consapevoli che la politica è tornata ad essere di nuovo importante. Siamo consapevoli che il sistema sanitario è un bene comune, pilastro del welfare state, e che non lo abbiamo valorizzato e finanziato come si sarebbe dovuto negli ultimi decenni. Siamo consapevoli che il sistema scolastico è un bene comune, pilastro del welfare state, e che non lo abbiamo valorizzato e finanziato come si sarebbe dovuto negli ultimi decenni.
Siamo consapevoli che questa crisi globale sta mettendo in ginocchio il sistema economico e che non sappiamo quale sarà il nostro tenore di vita tra qualche mese ma siamo consapevoli che più probabilmente sarà la mano pubblica a lenire le nostre sofferenze più che la mano invisibile del mercato. E mentre si avvicinano i giorni della cosiddetta “battaglia di Milano” e il sindaco Sala ci invita a resistere e preghiamo che il virus non entri come falce leggera nelle RSA, siamo consapevoli che si profila all’orizzonte la più grave crisi su scala globale che il capitalismo abbia mai conosciuto, segnata da un contemporaneo doppio shock sia sul lato dell’offerta sia lato della domanda aggregate.
Strumenti di economic policy non convenzionali richiederebbe la situazione, elicopter money a pioggia su ogni soggetto consumatore o produttore che esso sia. Per ora, tuttavia, non si ha questo coraggio perché mancano le istituzioni e gli strumenti di governance adeguati per un potere esecutivo mondiale. La UE al momento si è “limitata” a “spezzare il velo tempio” sospendendo il patto di stabilità, ma occorrerebbe un grandissimo indebitamento europeo e non lasciare semplicemente agli Stati l’opportunità di aumentare i propri debiti pubblici sovrani. Non è poco quel che ha annunciato l’altro ieri il presidente Sassoli e non sono poco le parole della signora Von der Leyen, un “nuovo piano Marshall da 2.000 miliardi di euro” composto da diverse misure, potrebbe tuttavia essere non sufficiente né adeguato, preoccupa l’idea che i Paesi più indebitati come il nostro debbano fare ricorso al cosiddetto “fondo salva Stati” poiché quel dispositivo potrebbe costringerci a dover tagliare per l’ennesima volta il welfare magari a partire dalle pensioni di reversibilità, e quindi a reiterare gli errori che ci hanno condotto sino a qui.
Questa crisi ci sta mettendo tutti sotto pressione, persone e organizzazioni e sta facendo emergere tutte le nostre virtù e tutti i nostri limiti, da seminatori di speranza in ragione della nostra fede dobbiamo auguraci che questo tempo straordinario ci aiuti ad aprire una fase straordinaria in cui riusciremo a metterci sul cammino di autentiche conversioni personali e comunitarie che ci portino, a conversioni ecologiche e a conversioni dall’inequità. Se ci impegneremo e se ci aiuteremo l’un l’altro forse riusciremo a rendere vero “l’amore sociale come chiave di un autentico sviluppo”. (Questo ancora scrivevo a gennaio.)
2. Come? Il nostro “vangelo sociale” di questi anni (e per quelli a venire) la Laudato sì ci viene in soccorso per indicarci la via da seguire, al punto 231 ci aiuta meglio a comprendere quale debba essere il nostro rinnovato approccio. Scrive Bergoglio: “l’amore, pieno di piccoli gesti di cura reciproca, è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che cercano di costruire un mondo migliore. L’amore per la società e l’impegno per il bene comune sono una forma eminente di carità, che riguarda non solo le relazioni tra gli individui, ma anche «macro-relazioni, rapporti sociali, economici, politici». L’amore sociale è la chiave di un autentico sviluppo: «Per rendere la società più umana, più degna della persona, occorre rivalutare l’amore nella vita sociale – a livello, politico, economico, culturale – facendone la norma costante e suprema dell’agire». In questo quadro, insieme all’importanza dei piccoli gesti quotidiani, l’amore sociale ci spinge a pensare a grandi strategie che arrestino efficacemente il degrado ambientale e sociale e incoraggino una cultura della cura che impregni tutta la società.”
Che si possa aprire davvero il tempo della cura? Della cura dei più fragili e dei più vulnerabili? Della cura della nostra casa comune? In presenza di gravi difficoltà economiche per quasi tutti ed in particolare per gli ultimi?
Non ne ho la certezza e la storia ci insegna che non è logico prevederlo. Ma come persone e come associazione credo che questa sia forse la più grande opportunità di conversione verso il primato della Parola e della sequela di Cristo che sia stata posta contemporaneamente sul nostro cammino comune.
E forse questa è la Quaresima più significativa che ci è stato dato in dono di vivere.