Milano si rialza sempre

Piero Bassetti si rivolge direttamente ai milanesi. E il suo è un incoraggiamento che ha il sapore di una certezza: «Lo dico ai miei concittadini: non ho nessun dubbio che ce la possiamo fare, ma a condizione di riuscire a sfruttare la nostra capacità di intraprendere per reinventare il sistema di relazioni che fanno una città».
Perché l'imprenditore, primo presidente della Lombardia, che è un esperto di glocalismo, pensa a questa emergenza chiamata coronavirus anche come a una «sfida» che non finirà con la scomparsa dei sintomi della malattia.
Bassetti, è preoccupato da un virus che ha messo in quarantena il motore economico del Paese?
«Se per preoccupato si intende che abbia paura che questa situazione possa degenerare e produrre danni permanenti no, non lo sono. Non lo dico solo perché ho fiducia in Milano, una città che ha superato situazioni ben più drammatiche, ma soprattutto perché ritengo che il coronavirus contenga una sfida con cui inesorabilmente eravamo costretti a confrontarci. Questo evento è fisiologico dei nostri tempi e di un mutamento epocale come il passaggio da un mondo internazionale costruito sul controllo del territorio a un mondo giocale in cui il controllo è in ciò che si muove. La mia preoccupazione piuttosto è un'altra».
Quale?
«Non mi chiedo se ne usciremo e nemmeno come ne usciremo, ma quando e con quale livello di trasformazione. Quando, ad esempio, i nostri bambini torneranno a scuola? Qua stiamo organizzando la difesa come se l'assedio fosse per un tempo breve, ma in un mondo glocalizzato la nostra classe dirigente è chiamata a prendere atto di cambiamenti irreversibili».
Da governatore ha dovuto prendere anche lei decisioni simili a quelle di Attilio Fontana?
«No, ma ho visto le trasformazioni della città e ho l'assoluta sicurezza che Milano digerirà questa botta e lo farà meglio di tante altre comunità».
Perché?
«Perché siamo cresciuti sulla nostra intraprendenza e se la sfida è sopravvivere e ricostruire e poi creare nuovo sviluppo economico, chi è già riuscito in tutto ciò non può essere fermato da un bacillo».
Che effetto le fa vedere il Duomo e la Scala chiusi?
«La Scala io l'ho già vista non solo chiusa, ma anche distrutta dalle bombe e oggi è il primo teatro del mondo. Milano si rialza, sempre. Lo ha fatto dopo la peste, che ha decimato la popolazione. Lo ha fatto dopo la guerra, che ha cancellato il 30 per le cento delle nostre case».
Le imprese, però, lamentano danni ingenti. Era davvero necessario spegnere la città?
«I provvedimenti hanno una loro innegabile razionalità legata a un'emergenza. I danni economici ci saranno, ma i milanesi si stanno adattano bene a questi vincoli e stanno già costruendo un ordine nuovo. Il problema, insisto, è quanto durerà tutto questo. Quando bisogna frenare si frena, ma bisogna anche decidere come rimettersi in moto».
Ecco, come si fa?
«Gradualmente e in due mosse. Prima di tutto superando una dimensione di panico in cui Milano però ha già dimostrato di non voler entrare. E poi trovando, tutti insieme, nuovi equilibri. L'esempio delle imprese è significativo: in questi giorni la città ha accelerato il tasso tecnologico passando al telelavoro. In futuro vedremo molte trasformazioni simili e, paradossalmente, Milano potrebbe ricevere da una situazione difficile una ulteriore spinta a modernizzarsi».