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L’Europa non è un nemico

Written by Il Sole 24 Ore.

Sergio FabbriniArticolo pubblicato da Il Sole24 Ore.

È un bene che il governo italiano abbia aperto (finalmente) un dialogo costruttivo con la Commissione europea sulla legge di bilancio 2019. È un bene che il negoziato con la Commissione persegua (finalmente) l’obiettivo di evitare l’attivazione della procedura d’infrazione (per debito, oltre che per deficit, eccessivi) nei confronti del nostro Paese. È un bene che i due principali leader del governo italiano abbiano deciso (finalmente) di ascoltare il mondo produttivo del Paese (come testimonia la lettera del ministro dello Sviluppo economico inviata ieri a questo giornale). Tuttavia, è bene anche comprendere le ragioni che hanno condotto all’isolamento dell’Italia in Europa, oltre che del governo nel mondo economico, se si vuole prevenire un nuovo isolamento.
Quelle ragioni sono dovute a visioni sbagliate, visioni che sono proprie (in verità) non solo del governo ma anche di altre componenti della nostra classe politica. Due in particolare: la visione elettoralistica della politica interna e la visione avversariale della politica europea. Vediamo di cosa si tratta.
Cominciamo dalla prima. Può essere che qualche leader politico abbia operato per trasformare la Commissione nel capro espiatorio delle nostre difficoltà economiche. Tuttavia, la propaganda ha un limite. Come hanno sostenuto i rappresentanti delle maggiori organizzazioni imprenditoriali italiane che si sono riuniti lunedì scorso a Torino, i maggiori ostacoli alla crescita economica del Paese provengono dall’interno, piuttosto che dall’esterno.
Non è colpa dell’Unione europea (Ue) se vengono bloccate, in Italia, le opere infrastrutturali che già dispongono di risorse, né è colpa dell’Ue se la prossima legge di bilancio, in Italia, è in larga parte assorbita da spesa corrente (reddito di cittadinanza, riforma delle pensioni) e non da investimenti pubblici («su 36,5 miliardi di spesa aggiuntiva, solo 3,5 vengono destinati agli investimenti», secondo questo giornale). Qui, i vincoli dell’Eurozona non c’entrano. C’entrano invece le scelte domestiche. Di fronte alla minaccia di una recessione incombente, il governo propone un bilancio pubblico che non investe sulla crescita (con investimenti vincolati all’incremento dell’occupazione), bensì distribuisce risorse con effetti moltiplicativi limitati.
Il Paese ha assolutamente bisogno di affrontare le diseguaglianze che si sono create lungo la crisi dell’ultimo decennio, ma quelle diseguaglianze richiedono risposte strutturali e non già elettoralistiche. Occorrerebbe, ad esempio, distinguere tra le politiche per l’assistenza (finalizzate a neutralizzare la povertà) e le politiche per il lavoro (finalizzate a creare nuova occupazione). Queste ultime richiedono investimenti per accrescere le opportunità occupazionali (ed una cultura del lavoro come fonte della dignità personale), non già sussidi che producono un effetto opposto. La visione elettoralistica della politica non vede discontinuità tra la campagna elettorale e l’azione di governo. Per essa, è prioritario soddisfare gli interessi delle proprie constituencies elettorali piuttosto che quelli del proprio Paese. Non basta il dialogo, se non si rovescia la prospettiva, trovando risposte specifiche all’interno di un obiettivo generale. Se un Paese non cresce, infatti, tutti ne pagheranno le conseguenze.
Vediamo ora la visione avversariale dell’Ue, anch’essa responsabile delle nostre difficoltà. Il governo (ma non solo lui) ha continuato ad interpretare l’Ue come un’organizzazione esterna all’Italia, il cui scopo è quello di dominare gli stati europei (se non di consentire ad alcuni stati di controllare altri stati). In realtà, l’Ue non è un Concerto delle Nazioni dove contano solamente i rapporti di forza. È un’organizzazione fatta di stati, oltre che di istituzioni comunitarie, tenuta insieme da regole giuridiche e pratiche politiche, non già da rapporti di potere. Ciò significa che è intoccabile? Tutt’altro. Significa, però, che il suo (cattivo) funzionamento è il risultato di un'azione collettiva regolata che va compresa. È vero che il funzionamento dell’Eurozona è influenzato da asimmetrie che hanno rafforzato alcuni Paesi del nord a danno di quelli del sud, ma è anche vero che tali asimmetrie hanno generato i loro effetti negativi perché esaltate dal modello (intergovernativo) che regola quel funzionamento. Quelle asimmetrie esisterebbero comunque anche senza l’Eurozona (la Germania sarà sempre più forte dell’Italia), ma solamente attraverso l’Eurozona (se organizzata in modo appropriato) possono essere tenute sotto controllo. Per cambiare un sistema dall’interno, occorre però avere chiaro in quale direzione cambiarlo. Se la direzione è quella di creare un’Eurozona sovranazionale (se non federale), l’unica che può neutralizzare le asimmetrie tra gli stati, allora occorre introdurre dei “firewalls” (dei frangi-fuoco) tra i governi nazionali e le istituzioni europee. Le seconde debbono gestire risorse e competenze non delegate dai primi, così da prevenire l'istituzionalizzazione, a livello europeo, dei rapporti di forza obiettivi che esistono a livello dei governi nazionali. Può essere necessario chiedere una maggiore flessibilità nell’interpretazione dei vincoli di bilancio dell’Eurozona, ma ciò non è sufficiente per neutralizzare la strutturale asimmetria tra gli stati che appartengono a quest’ultima.
La visione avversariale dell’Ue è sbagliata perché ci conduce all’isolamento imbelle. Tant'è che là dove si è consolidata, nel Regno Unito, ha prodotto conseguenze drammatiche. Insomma, per fare dei progressi nei negoziati con la Commissione e nel dialogo con il mondo produttivo, occorre rivedere il modo di pensare la politica (interna ed esterna). Occorre prendere atto che vincere una campagna elettorale è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per governare il Paese. E occorre capire che non si può contrastare l’Ue come se fosse un nemico. Essa è un’organizzazione di cui anche noi facciamo parte e che anche noi possiamo contribuire a migliorare.