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Dopo Caporetto

Written by Lorenzo Gaiani.

Lorenzo GaianiQualche mese fa è stato ricordato il centenario della battaglia di Caporetto,iniziata il 24 ottobre 1917, forse uno dei maggiori disastri militari della nostra storia,e che consistette in sostanza in un crollo dell’apparato difensivo del nostro esercito contro quello austriaco, che aveva il decisivo sostegno strategico e materiale dell’alleato tedesco, e che configurò un generale arretramento della linea del fronte,che prima del disastro era ormai a ridosso di Trieste, e che a metà novembre si assestò sul Piave, con conseguente perdita di uomini (fra morti, feriti e prigionieri), di materiale e di una rilevante porzione del territorio nazionale. Le conseguenze sulla tenuta psicologica del Paese furono pesanti, e su ciò facevano conto gli austro-tedeschi che puntavano alla totale dissoluzione del nostro esercito e ad una crisi tale che inducesse l’Italia ad uscire dalla guerra e a negoziare una pace disastrosa come di lì a poco avrebbe fatto la Russia bolscevica a Brest- Litovsk.
Contrariamente a quanto si pensa l’attacco austro-tedesco non giunse inaspettato: vi è la prova provata che il nostro comando supremo – a partire dal “generalissimo” Luigi Cadorna, che disponeva di poteri quasi dittatoriali- era ben informato sul fatto che il nemico si preparasse all’offensiva e anche, più o meno, su quale fosse la direttrice dell’attacco. Ma la mancanza di idee chiare, la tendenza di alcuni generali ad agire per conto proprio, l’attitudine degli ufficiali di medio livello di non agire senza ordini specifici, la mentalità antiquata di una macchina militare pensata per le guerre risorgimentali che invece si muoveva in uno scenario completamente diverso, l’approssimazione degli strumenti logistici, fecero sì che l’attacco si tramutasse in sfondamento e lo sfondamento in rotta totale, sicché a fine ottobre fra i soldati nemici correva la parola d’ordine “nach Mailand !”, arriviamo fino a Milano.
A Milano però non arrivarono, perché ogni ipotesi di pace separata venne immediatamente esclusa ed anzi, dopo la prima fase di smarrimento, il Paese reagì con una volontà rabbiosa di resistenza che si manifestò sul Piave e sul Monte Grappa, e ancora l’estate successiva quando gli austro – tedeschi tentarono una nuova offensiva che venne arginata e che, nell’ottobre/novembre successivo portò i nostri alla definitiva battaglia di sfondamento nota con il nome di Vittorio Veneto che coincise con il crollo strutturale degli Imperi centrali e con la fine della prima guerra mondiale.
Certo, la volontà di resistenza non era in se stessa sufficiente: occorsero importanti cambiamenti, saltarono molte teste, a partire da quella del Generalissimo, si affermarono nuovi criteri strategici, e soprattutto si cercò di dare più importanza alla figura del soldato, di non considerarlo più semplicemente massa di manovra o carne da cannone ma di considerarlo perlomeno come essere umano, pur continuando a chiedergli sforzi pesanti e disponibilità a morire.
Ciò ha attinenza con la situazione politica italiana oggi, ed in particolare con la posizione del Partito Democratico? Che guerra e politica abbiano a che fare fra di loro lo si sapeva già da prima di von Clausewitz, ed anzi la sua massima per cui la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi potrebbe essere rovesciata credibilmente nel contrario, ossia che la politica è la prosecuzione della guerra con metodi pacifici (più o meno).
Di fatto, il PD ha perso rovinosamente le elezioni del 4 marzo, ma non è da dire che la vittoria delle forze che per comodità chiameremo populiste fosse inattesa: direi anzi che in cuor suo ogni dirigente e militante del partito mediamente consapevole ne fosse persuaso, anche se l’entità della sconfitta – questa sì- è stata sorprendente. E non è nemmeno vero che non li vedessimo arrivare, se è vero che le terapie applicate nel corso degli anni per portare l’Italia fuori dalla rovinosa crisi economica hanno prodotto un disagio sociale visibile che hanno ingenerato un diffuso bisogno di protezione a cui la Lega ha risposto incendiando gli animi contro l’immigrazione, dipinta come una piaga di dimensioni bibliche cui rispondere con ruspe e cannoni, mentre i Cinquestelle promettevano una forma di redistribuzione del reddito completamente staccata dal lavoro che ha fruttato risultati elettorali eccellenti laddove gli effetti della ripresa economica (che pure c’è) si sono fatti meno sentire. Soprattutto abbiamo sentito montare, senza saperla contrastare, una potente narrazione che rileggeva in chiave miserifica la nostra storia recente, dipingendo l’Italia come un Paese sull’orlo della miseria, messo alla fame dalla perfidia dell’Unione europea, assediato da bande di terroristi e stupratori.
E poi c’entravamo noi, c’entrava il nostro esercito, con un Generalissimo che oggettivamente aveva perso smalto pur avendo svolto segnalati servizi al Paese, con uno Stato Maggiore un po’ troppo incline alla chiacchiera che nel bel mezzo della battaglia discuteva ad alta voce se fosse il caso o no di sostituire il Generalissimo (al punto tale da far dubitare che l’ala sinistra del nostro schieramento difensivo abbia fatto il suo dovere fino in fondo…), con i regolamenti che erano pensati per il passato remoto e con una narrazione ufficiale che per forza di cose doveva diffondere ottimismo e difendere i risultati dei nostri Governi, ma che risultava oggettivamente irritante e repulsiva per chi i benefici di quei provvedimenti non li aveva ancora ottenuti e credeva alla narrazione miserifica perché la considerava maggiormente connessa alla sua realtà – o alla percezione di tale realtà, che in ultima analisi è la stessa cosa.
Bene, ora l’offensiva avversaria è ancora in corso, e noi siamo sul Piave. Innanzitutto abbiamo il compito di non arretrare oltre , il che implica anche la rinuncia anche al più recondito pensiero di pace separata con uno degli eserciti avversari, che per noi comporterebbe quasi inevitabilmente la fagocitazione e l’anticipo di una più dura sconfitta alle prossime e forse non remotissime elezioni.
Né si venga a parlare di spirito di servizio: il miglior servizio che possiamo rendere al Paese in questo momento è quello di preservare l’esistenza di una forza riformista, democratica ed europeista come “punto di alternativa irriducibile”, per citare Aldo Moro, di fronte a forze populiste che presentano più punti in comune fra di loro che con noi.
Ovviamente occorre trovare delle alleanze: non credo però che esse possano trovarsi fra coloro che si staccarono da noi pensando di trovare chissà quali “praterie a sinistra” salvo poi scoprire che quelle praterie si riducevano al cortile di casa loro, dove giustamente gli elettori li hanno rispediti. Esistono vaste aree sociali che hanno scelto per i Cinquestelle o la Lega in ragione di quell’ansia di protezione di cui si diceva, che non è da disprezzare ma non è nemmeno da declinare secondo le forme semplicistiche ( e fasulle) dei vincitori del 4 marzo, che già si stanno rimangiando le promesse più clamorose. Il percorso di ricostruzione del consenso non sarà facile, perché in questo momento gli strumenti narrativi sono in mano alla parte avversaria, ed hanno sedimentato un rancore profondo contro il PD e con tutto ciò che abbia a che fare – presuntivamente- con le elites culturali, finanziarie e politiche di questo Paese con le quali il nostro Partito viene a torto o a ragione identificato, sebbene in verità tutti i grandi media mainstream abbiano fortemente partecipato alla narrazione miserifica che ha aperto la strada alla forze populiste, a partire dall’indecente campagna di demonizzazione delle riforme istituzionali in vista del referendum del 4 dicembre 2016.
Più in generale,i Paesi occidentali sembrano essere ora entrati in una fase di ripiegamento, di stanchezza della democrazia che è un effetto del malessere sociale e che spinge alla ricerca della soluzione dei problemi non in istituzioni che vengono considerate troppo deboli o corrotte ma in un qualche tipo di “uomo forte” che sani le piaghe di un disagio che ha forti radici sociali ma che viene agevolmente presentato , grazie alla narrazione miserifica di cui si diceva, come il prodotto di un nemico interno od esterno che è separato dalla parte maggioritaria e sana del “popolo” cui l’uomo forte si rivolge (è lo stesso effetto di straniamento che spinge Trump, che nel voto popolare è risultato soccombente rispetto a Hillary Clinton, a pretendere ugualmente di parlare a nome del popolo, cosa del resto che fa anche Luigi Di Maio dall’alto del suo 32%) L’importante però è che le piaghe rimangano aperte, perché il populista non deve curarle, ma continuare a denunciarle, assumendo provvedimenti di facciata che servono ad alimentare l’odio ed il rancore che sono il vero propellente della politica populista, e nello stesso tempo occupando tutte le posizioni di potere possibile introducendo elementi di autoritarismo e di intolleranza nei confronti dei dissidenti.
E’ chiaro che capovolgere questo orientamento culturale e politico che si sta dipanando da diversi anni è cosa assai più complessa che vincere un turno elettorale : in qualche modo ci si deve provare, ma è dubbio che per riuscirci si debba partire dall’alleanza sotto qualsiasi forma con i populisti.
Per tornare all’immagine iniziale, dopo Caporetto può venire Vittorio Veneto, ma prima bisogna tenere la linea del Piave, e non la si tiene di certo buttando via il fucile ed arrendendosi.