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La situazione politica dopo il voto

Written by Erminio Quartiani.

Erminio QuartianiPer chi come noi ha creduto nel progetto originario PD che valse il 34% e 13,7 milioni di voti e lo trova oggi a meno del 19% e a 6,2 milioni di voti, 2 milioni e mezzo meno del già pessimo risultato del 2013 (25 %) e 5 milioni meno delle europee del 2014, perdite non giustificabili dal milione e 100.000 voti ottenuti da Liberi e Uguali;
per chi ha creduto in un partito a vocazione maggioritaria e lo trova oggi minoranza quasi ininfluente nella manovra politica e parlamentare;
per chi si è battuto per un centrosinistra di governo e lo trova oggi proiettato all’opposizione, punito da un inequivocabile giudizio elettorale negativo;
per chi si è battuto per una democrazia bipolare, dotata di norme costituzionali ed elettorali all’altezza di una democrazia europea compiuta e avanzata;
per chi ha fatto del principio di eguaglianza unito a quello della libertà un tratto caratteristico della propria ispirazione politica e si trova oggi accusato di aver favorito con la propria azione di governo l’establishment, di cui rappresenterebbe e interpreterebbe politicamente gli interessi, quasi che il Pd avesse cambiato natura trasformandosi in partito della conservazione;
è difficile pensare che quel che è accaduto il 4 marzo sia esclusivamente l’esito di errori compiuti dal solo segretario del partito, benchè fosse chiaro che già dal 4 dicembre 2016, dopo l’esito referendario catastrofico, Renzi avrebbe dovuto dimettersi subito dalla carica di segretario e non solo da presidente del consiglio, per il bene del partito e della coerenza con la democrazia maggioritaria, in ossequio alla regola statutaria della corrispondenza tra segretario del partito e premier (non solo candidato, ma anche in esercizio pro tempore) che deve valere alla rovescia quando si decade dalla carica di premier. Il congresso affrettato che ne è seguito e che ha rinnovato la segreteria di Renzi, è stato privo di una utile e approfondita riflessione sulle ragioni della sconfitta referendaria e mancante di un rilancio di una visione politica rinnovata. E’ stato un congresso resiliente, preceduto e seguito da sconfitte elettorali locali di rilievo in tutta Italia.
Tuttavia oggi come allora dobbiamo ammmettere che la sconfitta del 4 marzo è l’esito di un susseguirsi di prove elettorali locali corredate da sonore perdite di consenso, segno di ridotta capacità aggregativa del partito ,la cui responsabilità non ricade solo sul gruppo dirigente nazionale ma anche sulla base larga dei gruppi dirigenti locali adagiatisi su un “ renzismo” diffuso che ha prodotto un distacco profondo dagli interessi e dal sentire di milioni di elettori democratici . Un vecchio amico socialista diceva di aver suggerito a Craxi di guardarsi dal principale pericolo rappresentato non già dalla sua leadership nel Psi ma dai “craxini”.E’ finito per noi in modo dirompente anche il tempo dei “renzini”.
La sconfitta è figlia di una irresponsabile conduzione del partito, di un diffuso vizio di “governismo “ al centro e in periferia( malattia endemica?) e di una conduzione del governo centrale che ha saputo fare bene i compiti, ma che non ha conquistato i cuori e le menti della stragrande maggioranza degli italiani e dei potenziali elettori democratici.
Per questo si è posto e si pone subito il tema di un congresso che non sia solo di conta. Giusto! Non significa però fissarlo in un tempo indefinito, quasi che il semplice distanziarlo temporalmente dal tempo della sconfitta ne possa alleviare la portata storica.
Occorre predisporre un congresso partecipato, che si proponga e entri in argomento di come un progetto riformista, progressista e di centrosinistra possa stabilmente condursi come credibile soluzione di governo nel tempo della globalizzazione e dell’era digitale, dove il governo riguarda certo l’espletamento e la conduzione dei poteri propri delle istituzioni preposte ma anche i processi sociali ed economici ai quali va data una risposta di prospettiva nel segno di una incisiva azione di redistribuzione di reddito e risorse equa e solidale.
Un congresso dunque che già in autunno impegni tutto il Pd, si apra a una riflessione di tutto il largo centrosinistra e ai riformisti disponibili a discutere, e porti in conclusione a definire una nuova leadership legittimata da elezioni primarie.
Infatti se il Rosatellum sospinge il sistema verso il proporzionale, ciò non significa che il PD debba adattare a una filosofia proporzionalista il proprio modello organizzativo e di rappresentanza.
Di fatto già leadership e premiership sono state separate prima con il governo Letta , in senso inverso con le mancate dimissioni di Renzi da segretario, e poi con il governo Gentiloni che strideva con la permanenza di un leader sconfitto alla guida del principale partito di governo, hanno trasmesso un netto segnale di incoerenza e di abbandono da parte del Pd di virtù e prassi che erano condizione costitutiva del proprio essere e parevano acquisite per sempre sin dai tempi dell’Ulivo, almeno per le primarie, non solo per la scelta del segretario, ma anche per la selezione delle cariche elettive monocratiche.
Cosi si è indebolito il profilo di partito di popolo ed è crollata presso l’opinione pubblica la credibilità di partito aperto, tratti caratteristici propri del Pd ( e dell’Ulivo) delle origini e dei primi anni del decennio.
Si pensi alle modalità di selezione delle candidature: dall’uso smodato e strumentale delle primarie interne per le candidature del 2013 si è passati ad una pura e semplice decisione centralistica e solitaria del leader in carica, calata dall’alto sui territori e guidata da logiche tutte interne all’organizzazione, quando non di selezione discrezionale per fedeltà.
Si pensi all’insofferenza con la quale è stata accompagnata l’esperienza del governo Gentiloni, vissuto e fatto percepire alla stregua di un governo amico, anche se poi la campagna elettorale è stata condotta all’insegna dell’esaltazione dei risultati di governo del Pd astrattamente inteso e riconducibile all’abilità del suo leader( quanto di peggio si possa fare per conquistare voti: parlare del passato e del proprio buon governo, non parlare del futuro e dei problemi sentiti dalla popolazione).
Così il Pd è stato percepito come un partito “ governista”, abitato da “governisti”, a prescindere dal progetto politico e dal merito, incapace di alleanze sociali prima ancora che politiche( sempre che le si volessero) . Penso alla idea della disintermediazione come obbiettivo da raggiungere per rendere libera la politica, alla traduzione della vocazione maggioritaria in partito maggioritario lontano da alleanze salvo far vivere il governo grazie ad alleanze spurie esito di tradimenti politici, ecc.) che hanno regalato ai suoi detrattori l’immagine di un partito con un’anima eclettica, pronto ad allearsi con chiunque pur di governare( o esercitare il potere come si dice in gergo più popolaresco).
L’esito elettorale è figlio anche di queste radicali incoerenze. Che pure comunicano molto!
Per non farci mancare nulla, c’è anche chi con fare un po’ provincialotto, va predicando che occorre contrapporre a tutto ciò un altro modello: quello milanese.
Diciamolo chiaramente una volta per tutte: non c’è un modello Milano!.
Qui da noi non si soccombe al grillismo, perché il centrodestra resta forte e anziché tripolare la competizione elettorale si presenta a due poli e mezzo, dove il mezzo è rappresentato dal raggruppamento grillino.
Non si soccombe del tutto a Milano, perché altre forze riformiste e di progresso hanno mantenuto un proprio radicamento elettorale( vedi i radicali e +Europa).
Ma anche a Milano il Pd si afferma solo nei collegi del centro urbano cittadino e non nella metropoli diffusa, dove l’esito elettorale, più si va all’esterno e fuori della metropoli verso la regione padana e pedemontana, più tende a presentare un fortissimo centrodestra a trazione leghista. Ne è riprova la vittoria di un qualunque Fontana con il 50%, nonostante la inaspettata defezione di Maroni.
Milano è l’eccezione che conferma la regola, non il modello: Nord saldamente rappresentato dal centrodestra e dal nuovo leghismo che ha abbandonato il federalismo ed ha abbracciato il nazional-sovranismo.
La sconfitta di Gori, che dopo Masi, ha ottenuto il peggior risultato dei candidati di centosinistra di tutti i tempi è la controprova.
Al Nord resta prevalente una irrisolta questione fiscale che, se non interpretata a sinistra, trova sbocco nell’eccentricità del leghismo, al limite della messa in discussione del sistema sociopolitico e istituzionale.
Al Sud la classe dirigente di centrosinistra messa alla prova di una generalizzata condizione di esercizio del governo regionale e locale ha fallito e concluso una fase che ha prodotto tra l’altro la crescita della domanda assistenzialista, che ha lasciato spazio ad un maggioritario nuovo statalismo qual è quello dei 5 stelle.
Dentro lo scontro Nord/Sud e il dualismo della classe dirigente del Nord, legata al mondo del lavoro e dell’impresa ,e della classe dirigente meridionale, governista per forza al fine di alimentare risorse da destinare alla sopravvivenza di un sistema sociale ed economico privo di prospettive di sviluppo e bisognoso di risposte di pura redistribuzione di reddito verso garanzie assistenzialistiche, è morto negli anni ‘90, sciogliendosi, un partito come la DC che, alla luce della stazza elettorale dei partiti odierni, piccolo non era , se ancora contava sul 29% del consenso popolare!
Un monito questo per chi, come il PD, ha raggiunto oggi cifre elettorali ben inferiori o poco addicentisi ad un partito che si vuole di stazza europea medio-grande, e non lo è più: da quella cifra elettorale è iniziato il declino di partiti come il PSF e il Psoe.
Ma è anche un monito per i 5stelle che poggiano certo su un risultato che va oltre il 30%, frutto instabile di una spinta irrazionale che gli ha regalato dal 2013 un aumento di due milioni di voti pressochè tutti dovuti al sud e quasi tutti sottratti al Pd.
Se serve a dimostrare qualcosa questa situazione al nord e al sud è che Movimento 5 stelle e Pd sono per forza tra loro alternativi e in competizione tra loro soprattutto nel Meridione, per ora su un registro perdente per il Pd se il partito non si sottopone a un cambio radicale di linea meridionalista e di ceto politico; al Nord e a Milano e Lombardia il Pd perde la competizione con il centrodestra a trazione Lega, alla quale il Pd deve provare a contendere il consenso dei ceti produttivi popolari, rappresentando invece ancora la gran parte dell’intelligenza produttiva diffusa.
Una riflessione ulteriore andrebbe fatta a Nord e a sud della linea gotica, dove il Pd perde la competizione in moltissime realtà sia con il centrodestra che con i 5stelle. Qui forse qualcosa che fa vivere e percepire i Pd come il partito dell’establishment c’è, perché vengono pagate le conseguenze della fine di un blocco di potere che è sempre sopravvissuto a se stesso localmente dal dopoguerra ad oggi e che è in rapidissima via di superamento.
Dunque non ci sono più rendite sicure per il Pd, che dopo il 4 marzo deve nuotare in mare aperto e lottare per riaffermarsi come soggetto politico credibile di cambiamento alla maggioranza degli italiani.
Per questo la risposta delle reggenze è debole e il rinvio nel tempo di un dibattito libero, di una riflessione analitica e politica approfondita , può risultare pericolosissimo per la vita del Pd stesso, visto tra l’altro che altre amministrative primaverili incombono e le elezioni europee del prossimo anno sono alle porte.
E’ necessario avviare subito la fase congressuale, consentendo tempi di confronto interno e esterno al partito di grande respiro anche temporale.
E’ vero che non si possono sottoporre a congresso le scelte che vanno compiute a breve per la formazione del governo e per la definizione degli organismi di governo del Parlamento. Errori in questa fase complicherebbero ancora di più il difficile cammino futuro del principale partito del centrosinistra italiano.
Il Pd può anche prendere atto che il suo posto è all’opposizione. Ma può farlo con intelligenza solo esplicitando rapidamente e senza perdite di tempo i tratti essenziali di un programma di governo nuovo, che ad esempio in materia economica e di sviluppo produttivo abbracci l’impostazione di Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, dove sostenibilità non va intesa solo ed unicamente come coniugazione tra economia e ambiente, bensì come nuova sintesi tra economia, ambiente, società, demografia e istituzioni della democrazia, ripromettendosi di superare il solo classico riferimento a indici economico finanziari come il Pil e adottando precisi indici volti a perseguire quel che viene denominato “ Benessere Equo e Solidale”, andando oltre l’economicismo e non lasciando questo terreno come impropriamente distintivo dei 5 stelle.
Il programma va discusso nel paese con le rappresentanze della società, dell’economia, della cultura e della scienza, del lavoro, talvolta più avanti della politica ma che hanno bisogno di una politica capace di guidare e accompagnare i processi rapidi di cambiamento di questo tempo..
Va a mio avviso predisposto contemporaneamente un chiaro progetto di riforma costituzionale che è già ultramaggioritario nel Paese e attende di essere interpretato dalla politica, capace di privilegiare i criteri e gli strumenti propri di una democrazia governante, necessariamente incardinata sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica, secondo il modello francese che va costituzionalizzato.
Infine va con forza rianimata la verve europeista che è il tratto distintivo di una forza riformista che non si adagia a populismi o a sovranismi di maniera come è invece apparso fare il Pd nella fase finale dell’era Renzi.
Noi come Liberta eguale possiamo, rivisitando posizioni più volte assunte e sostenute, contribuire a un dibattito che dia smalto all’azione politica quotidiana di un Pd e di un centrosinistra che di tutt’altro hanno bisogno fuorchè di attendismo o di “aventinismo”, perché per scrivere un nuovo storytelling del riformismo italiano ed europeo occorre un posizionamento dinamico delle forze socialiste e democratiche, non certo il ritrarsi su posizioni da trincea arretrata , peraltro non richiesteci dai nostri elettori (ai quali dobbiamo rappresentanza attiva, non sterili collocazioni di antagonismo puerile) e poco pagante per chi dovesse interpretarla nel Paese e in Parlamento.