Print

L'opera che nessuno voleva è diventata un simbolo ambito

Written by Christian Pradelli.

Albero della Vita
Riprendiamo l'intervista a Marco Balich realizzata da per Christian Pradelli MiTomorrow.
Tutti col naso all’insù. Per sei mesi. A vedere lo spettacolo dell’Albero della Vita. Il popolo di Expo, quello degli habitué affezionati, quelli di una sola visita e anche i ritardatari dell’ultimo momento, non si è proprio perso il giro sotto al simbolo della nuova Milano. Si, perché c’è già chi ha ribattezzato l’opera-icona del 2015 come la futura “Torre Eiffel di Milano”. In tutto, trentacinque metri di acciaio, larice e Led. Il suo è stato solo un arrivederci. Come promette anche il papà, Marco Balich, che ha colto l’occasione dei giorni successivi alla chiusura di Expo per togliersi qualche sassolino dalle scarpe.
«Non lo voleva nessuno, ora…», racconta in una lunga chiacchierata.
Si aspettava questo successo?
«L’Albero della vita è nato come una sfida mia e di Diana Bracco, che poi ha trovato pochi, ma agguerriti sostenitori. Non lo voleva nessuno, poi pian piano, quando è partito, ha toccato il cuore di tutti i visitatori».
Per quale motivo?
«Abbiamo creato qualcosa che è andato al di là delle aspettative, un inno alla speranza. Mi auguro che viva ancora».
Dove l’avrebbe visto bene?
«Sono convinto che stia bene lì, perché è nato lì. Sarebbe bello davvero fare una festa del lavoro in quell’area, il prossimo 1 maggio, e renderlo di nuovo operativo. Se avessero voluto smontarlo, sarebbe stato meraviglioso vederlo in qualche piazza di Milano. Con un campus universitario nell’area di Rho sarà bello pensare a tanti giovani intorno a questo simbolo, un bellissimo futuro per la nostra idea».
Qual è il suo bilancio di Expo?
«E’ stato un posto in cui si è parlato di temi fondamentali e un parco a tema, le due cose insieme hanno funzionato benissimo, avvicinando le persone. Expo, inoltre, ha dato una bella dimostrazione del Sistema Paese, mettendo in moto positività percepibile in tutta la penisola».
E adesso?
«Ora sono a Rio de Janeiro, dove si ricomincia ed è tutto da dimostrare. Prepareremo la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi 2016. Sarà una produzione brasiliana, in un Paese molto disorganizzato, ma molto felice. Non posso anticipare nulla, ma non ci sarà il Cristo Redentore poiché la cerimonia olimpica è laica».
Tornerà a lavorare in Italia?
«Amo questo Paese, metto sempre qualcosa di italiano in ogni cosa che faccio, cercando di portare il nostro gusto nel mondo. Sinceramente, mi ha molto appesantito il processo di bando pubblico che c’è qui. Se su dieci persone ce n’è una che ruba, non vuol dire che lo fanno anche le altre nove».
Appesantito da queste logiche?
«Credo che sia necessario sfatare questo mito perché c’è un sacco di gente in grado di lavorare bene e pulito. Non vorrei davvero più passare per forche caudine complicate».