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Un simbolo in ogni periferia

Scritto da Giuseppe Sala.

Giuseppe Sala
Intervista del Corriere della Sera.

Sindaco Beppe Sala, come se la immagina la Milano del futuro?
«Me la immagino come una città che oltre ai cambiamenti urbanistici confermi la sua vocazione ambientale».
Verde e cemento. Sembra un connubio improbabile.
«Non è automatico riuscire a tenere insieme costruzioni e verde, ma si può perché abbiamo grandi spazi da rigenerare a partire dagli scali ferroviari. C’è un terzo elemento che permette di tenere insieme le due cose».
Quale?
«La mobilità. Anche se è la sfida più difficile come si vede da quello che sta succedendo con l’introduzione di Area B. I provvedimenti sulla mobilità sono divisivi. Se chiedi ai cittadini se vogliono più verde, la risposta è sì. Se gli chiedi se vogliono vedere più grattacieli quasi sempre la risposta è sì. Quando cominci a parlare di muoversi in maniera diversa e di limitazioni al traffico spuntano i no. Noi andremo avanti con coraggio perché abbiamo la coscienza tranquilla. Sulla mobilità non ci siamo fermati ai divieti ma abbiamo migliorato il trasporto pubblico. Su Area B ci sono delle lamentele, non le ignoro. Ma la politica deve scegliere ciò che è meglio per il futuro della città».
Il 2030 vedrà veramente sparire i diesel dalle strade della città o è solo una delle tante date simbolo?
«Avremo mezzi pubblici verdi. Dobbiamo contare sull’evoluzione progettuale dei produttori di auto verso un certo tipo di mezzi. Siamo consapevoli che è bello avere l’auto elettrica, ma non a questi costi. Noi faremo la nostra parte con i due miliardi di investimenti di Atm per i bus elettrici».
C’è una città nel mondo che prenderebbe come modello per Milano?
«Non c’è ombra di dubbio. La sfida a cui ti mette di fronte Londra è persino eccessiva. La rivoluzione ciclabile della capitale della Gran Bretagna è radicale, così radicale che noi ne siamo abbastanza lontani. Nonostante questo Londra è il modello a cui tendere. Ha due caratteristiche molto forti: l’ingresso delle auto in città è costosissimo e l’aumento delle piste ciclabili portate avanti dal sindaco Sadiq Khan ma volute da Boris Johnson è impressionante».
Passiamo ai cambiamenti urbanistici. Il nuovo piano di governo del territorio valorizza le piazze che saldano il semicentro alla periferia. È possibile una città con tanti centri?
«Quello che sta succedendo a Milano dice che è possibile, ma bisogna lavorarci seriamente. È possibile perché il centro di Milano è molto piccolo e in una città che cresce c’è tanta gente che, al di là del costo, per questioni di vivibilità preferisce e sceglie di stare in zone meno centrali. A patto che siano luoghi dove ci sono tutti i servizi come a Porta Nuova. Citylife, a sua volta, può dimostrare di diventare un grande quartiere. Ma io guardo con grande interesse quello che sta succedendo a sud della città, intorno allo Scalo Romana dove è in atto una rivoluzione. Non solo dove c’è la Fondazione Prada, ma anche sull’altro versante dove nascerà il nuovo grattacielo di A2A i cui lavori inizieranno tra pochi mesi. Penso che Romana diventerà un nuovo centro della città».
Portiamo alle estreme conseguenze il discorso sulla città policentrica. Tanti centri, nessun centro. E soprattutto niente periferia. È possibile?
«È chiaro che le condizioni di vita, ossia la qualità dell’abitare e dei servizi difficilmente potranno essere identici. Partiamo però da un dato di fatto. Chi vive all’Ortica è contento di viverci e, al di là della retorica, anche chi abita a Baggio. Oggi l’economia che arriva a Milano, fatta da imprese che investono sul territorio e da turismo, è prevalentemente indirizzata sul centro. La vera sfida è: come si può deviare una parte dell’interesse economico e del turismo nelle zone non centrali della città. È questa la vera domanda».
Qual è la risposta?
«Se ci sono dei luoghi simbolo è più facile. Probabilmente è questa la via da seguire: immaginare dei luoghi simbolo, un mercato particolare, un museo, un distretto artigianale con le sue peculiarità che induca la gente a visitare luoghi periferici».
Lei in passato ha fatto un elogio della lentezza. La Milano del futuro sarà una città lenta?
«In questi mesi ho affinato la mia visione. Secondo me bisogna distinguere tra giorno e notte e in questa distinzione trova ospitalità ciò che intendo per lentezza. Se da una parte sono favorevole che ci sia la più ampia libertà nel tenere aperti i negozi di domenica, fatte salve le condizioni di lavoro, dall’altra sarei molto cauto per quanto riguarda la notte perché la città deve alternare l’attività e il riposo. Dove c’è un negozietto che rimane aperto tutta la notte vendendo alcolici la gente si lamenta. Così come si lamenta dove c’è la movida e c’è troppo rumore. Non sono affascinato dal modello di città h24, ma dal modello sette giorni perché a Milano si lavora tanto e molte persone non trovano il tempo di fare la spesa durante la settimana».
Londra come modello da seguire. Ma se dovesse andar via da Milano quale sarebbe il suo buen retiro?
«Se dovessi cambiare città andrei in un solo posto al mondo: New York. Dopo Brexit non sento più il fascino di Londra e con il salto in avanti che ha fatto Milano non è che andare a Berlino o Madrid mi garantisca qualità di vita e stimoli migliori. L’unica città che vedo come ancora di un altro pianeta e dove vivrei volentieri due o tre anni è la Grande Mela. E non è detto che se mi capita l’occasione non lo faccia».

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