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I dieci anni del Partito Democratico

Scritto da Lorenzo Gaiani.

Lorenzo Gaiani
Articolo pubblicato dalle Acli.

Gli anniversari, quando non sono un rito, sono essenzialmente un pretesto per parlare d’altro, giacché generalmente il giudizio sul passato viene filtrato con gli occhi dell’oggi, e chi ha interessi politici specifici ha la tendenza, anche comprensibile, a riscrivere la storia basandosi sulle esigenze del presente. Così, il dibattito sul Partito Democratico a dieci anni dalla sua nascita ufficiale con le elezioni cosiddette “primarie” (ossia aperte al pubblico e non solo agli aderenti al partito) svoltesi nell’ottobre 2007 che portarono al trionfo di Walter Veltroni, è in realtà uno dei tanti aspetti dell’eterna campagna elettorale in cui il nostro Paese è immerso, e i giudizi sulle vicende di due lustri fa sono piegate sulle esigenze dell’oggi, con un occhio al domani e al dopodomani. 
Nulla di nuovo, in un Paese in cui il dibattito politico, complice una classe dirigente incolta e di breve respiro ed una classe giornalistica altrettanto incolta e superficiale, si riduce ad una pratica cinica in cui non solo una vicenda tutto sommato circoscritta come la nascita di uno dei tanti partiti frutto della transizione infinita apertasi nel 1992 con il crollo delle appartenenze tradizionali, ma anche passaggi storici più impegnativi diventano argomenti per un litigio selvaggio da bar dello sport fra opposte tifoserie.
E tuttavia, è un dato di fatto che il Partito Democratico, con le sue alterne vicende, ha incarnato e presumibilmente incarnerà, anche dopo le prossime elezioni politiche, uno dei principali poli in cui si articola la dialettica politica di questo Paese, e ciò sarebbe impossibile se bene o male questo partito non continuasse ad essere un punto di riferimento per significativi settori della società italiana. Certo, una visione retrospettiva dimostra come la nascita del PD sia stata estremamente travagliata, con molte false partenze e molti ripensamenti, a significare un’insufficiente assunzione della dialettica propria dei sistemi maggioritari da parte di una classe politica che era cresciuta con una mentalità proporzionalistica, e che alla fine ha ricondotto il Paese nelle secche del proporzionalismo senza però che le caratteristiche peculiari della cosiddetta Prima Repubblica – a partire dal vincolo internazionale della guerra fredda e dall’autentico radicamento sociale dei partiti politici – fossero riproducibili.
Lo storico Pietro Scoppola – che venne a mancare proprio nei giorni della costituzione del PD- in un seminario svoltosi un anno prima ad Orvieto sul tema delle ragioni fondative del nuovo partito, rilevò l’impossibilità per i cattolici democratici di farsi semplicemente assorbire in un partito di matrice socialdemocratica come era accaduto, ad esempio, in Francia o in Spagna, e ciò “per tre ragioni che si riassumono in tre parole: per la forza maggiore nel nostro Paese della tradizione politica cattolico democratica, per la debolezza della tradizione socialdemocratica e per il peso dell’eredità comunista nella nostra storia. E quando dico peso, dico importanza, forza di condizionamento della nostra società e della vita politica, in positivo e in negativo. E per un’ulteriore ragione alla quale tutti i democratici dovrebbero essere sensibili: perché spingerebbe irrimediabilmente verso una destra senza storia la Chiesa italiana vanificando lo sforzo di due generazioni di democratici cristiani da De Gasperi a Moro che hanno lavorato con passione, con sofferenza, ma con frutto per tenere la Chiesa agganciata alla democrazia, per l’istituzione della democrazia nel mondo cristiano per dirla con Tocqueville. E’stato più difficile che altrove per la Chiesa italiana adattarsi ad uno schema bipolare: evitiamo di favorire il riflusso verso destra di questa Chiesa”.
A distanza di anni la previsione di Scoppola sembra essersi avverata a metà, nel senso che il PD ha effettivamente aderito al Partito del socialismo europeo, di cui anzi costituisce al momento la componente nazionale più forte nel Parlamento di Strasburgo, ma questo è avvenuto – paradossalmente- nel momento di maggior debolezza della presenza dei postcomunisti nel PD, e l’operazione è stata gestita laicamente da un leader di matrice cattolico democratica in un contesto in cui l’aderire o meno al PSE aveva perso tutta quella carica insieme psicologica e taumaturgica che molti gli attribuivano due lustri prima.
Nello stesso tempo, la radicalizzazione del dibattito in materia religiosa che Scoppola aveva ben presente nell’ottobre del 2006, che verteva all’epoca sulla tematica delle unioni omosessuali, è stata largamente sminata dall’imprevedibile avvento di un nuovo pontificato che ha rapidamente preso le distanze dalla sovraesposizione partitica (non politica, ché il magistero di Francesco è politicissimo) delle gestioni precedenti, al punto che una legge sulle unioni civili è stata approvata sempre sotto la gestione di una leadership di matrice né postcomunista né socialdemocratica.
In questi anni indubbiamente nel PD si è assistito ad un forte avvicendamento di presenze con il crescere dei cosiddetti “nativi”, ossia di persone che non avevano una militanza di partito precedente: nello stesso tempo, è innegabile che vi sia stato un rimescolamento fra persone di provenienze diverse, ed anche i più critici nei confronti di Matteo Renzi non si sentono di mettere in discussione la loro appartenenza al partito a causa del malessere di leader legati ad un passato prossimo o remoto. Semmai cercano di portare le loro battaglie all’interno del partito, sapendo che se esso è stato contendibile a beneficio di Renzi potrebbe esserlo per converso contro di lui. Ovviamente ci sono molti problemi, il primo dei quali consiste nella difficoltà ad articolare presenza territoriale e proposta politica: al netto di tutte le chiacchiere su partito “leggero” o “pesante”, è evidente che il PD deve avere una sua presenza autorevole e capillare sul territorio, ed il protrarsi di crisi strutturali come quelle di Napoli o di Roma fa capire che il problema esiste ed ha dei risvolti che debbono essere affrontati con nettezza, soprattutto per evitare la sistematica degenerazione delle pur legittime differenziazioni politiche e personali in guerre per bande che costituiscono una manna dal cielo per una stampa che fa dello scandalismo e dell’antipolitica l’additivo per la vendita di più copie e per forze politiche che ad organizzare primarie (che sono sempre a rischio di inquinamento, come qualunque strumento politico) non ci pensano minimamente perché tanto a decidere di tutto è un Capo autoproclamato o un algoritmo facilmente manipolabile.
E qui si situa la seconda difficoltà del PD, ossia la mancata crescita di una classe dirigente autorevole nel Partito e nelle istituzioni: non si può dire che non vi siano delle esperienze importanti, ma ha latitato fin qui un processo sistematico di costruzione di questa classe dirigente. Certo, a sua volta questa difficoltà è figlia dell’ irrisolta ridefinizione dell’identità del partito politico, il quale modella la sua struttura su quella delle istituzioni. L’incompiutezza del percorso fra la dimensione maggioritaria agognata e le nostalgie proporzionalistiche sempre in agguato, aggravata dal risultato del referendum del 4 dicembre che sembra aver chiuso per non si sa quanto tempo la porta delle riforme istituzionali, ha fatto sì che i partiti non avessero più precisi termini di riferimento.
Sta di fatto che la costruzione di una classe dirigente non può procedere per metodi empirici, ma richiede percorsi formativi e di crescita che a loro volta richiedono strutture, agili quanto si vuole, ma comunque stabili, ed una programmazione di lungo periodo. Un modello praticabile potrebbe essere quello dei partiti tedeschi, ognuno dei quali si appoggia ad una fondazione culturale che svolge ricerche e studi spesso di livello universitario con forti proiezioni internazionali sviluppando un’autentica capacità formativa. Resta da capire se e quanto le componenti che hanno dato vita al PD innervino tuttora la sua identità e la sua progettualità.
E’ impressionante ad esempio l’involuzione massimalista di quelle componenti del Partito che ne sono progressivamente fuoriuscite, e che hanno compiuto passi indietro rilevanti nel giudizio sulla globalizzazione, sulla moneta unica o addirittura sull’Unione europea in quanto tale e sulle necessarie riforme di struttura, arroccandosi quasi a rinnegare la svolta del 1989 e a rimpiangere un PCI largamente immaginario. Sembra qui operare quel meccanismo di negazione della realtà perché troppo lontana dai propri schemi intellettuali che, come afferma lo scrittore spagnolo Javier Cercas è un “vizio inguaribile di certa sinistra che non ha dimestichezza con la democrazia e di certi intellettuali la cui difficoltà ad affrancarsi dall’astrazione e dall’assolutismo impedisce di collegare le idee all’esperienza”. Un vizio, si potrebbe aggiungere, profondamente radicato nella sinistra italiana e di cui hanno beneficiato soprattutto le destre.
Per il cattolicesimo democratico il discorso è diverso, giacché la storia di questo filone politico poteva già considerarsi compiuta con il venir meno dell’esperienza politica della Democrazia Cristiana, in cui aveva giocato un ruolo essenziale, rivelandosi però incapace di avere una propria consistenza autonoma nella fase successiva. Si potrebbe dire che la presenza dei credenti in un partito di centrosinistra debba essere connotata da un lato da quel forte senso delle istituzioni che rimane a tutt’oggi la più importante eredita politica del cattolicesimo democratico tradizionale (un’eredità importantissima in tempi di antipolitica e di disprezzo per le istituzioni) e dall’altro all’attenzione alle crescenti disparità sociali – in un’ottica non solo italiana ed europea ma schiettamente globale – su cui particolarmente insiste l’attuale Pontefice. In ogni caso, come rilevava qualche tempo fa Giovanni Bianchi “il meticciato non è una brillante metafora, né tantomeno un capriccio culturale. E’ esigito dalla presente fase storica. Nessun militante, sotto nessuna gloriosa bandiera, è più in grado di vivere dell’ideologia che gli sta alle spalle (…) per questo tutte le forme di nostalgia e di ritorno al passato non sono che manifestazioni di velleità ed impotenza“. Proprio per questo “il cattolicesimo democratico (…) nel PD va sperimentando le modalità di una sopravvivenza e di quella coniugalità che pare inerire alla sua multiforme cultura ed alla sua irrinunciabile prassi. Perfino i suoi limiti sono tali da richiamare quello sturziano della politica, a partire dal quale si dà tutta l’elaborazione del popolarismo nel nostro Paese. In questo senso, non si vede altro luogo ideologico dal quale tentare un’analisi e valutare una prospettiva politica concreta”.
Ed è alla politica concreta, quella dei fatti e dei bisogni, che si deve guardare oggi, non alle astrazioni e tanto meno alle nostalgie.
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